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I solde dell’usuréje ce li mange ‘u sciambregnöne

I solde dell’usuréje ce li mange ‘u sciambregnöne

I denari dell’usuraio se li gode il mangione, l’ubriacone, lo sfaticato…

Ho sentito qualcuno pronunciare usuréle, e credo che il termine sia più genuino, non contaminato dall’italiano.

L’usuraio fa una vita grama, da disgraziato, perché inesorabilmente è anche inguaribile taccagno e non spende mai un soldo per se stesso.

Alla sua morte ci sarà sempre qualcuno che se li godrà al posto suo.

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Altri sostengono che i soldi dell’usuraio se li goda ‘u sciambagnére, no ‘u sciambregnöne.

L’antico termine sciampagnére (dal francese homme des champs =  uomo dei campi coltivati) definiva quel cafone che, rientrando in paese, scialacquava alla cantina tutta la paga di una giornata di lavoro.

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Sciambregnöne

Taluni pronunciavano sciambrignöne.
Come aggettivo generico si abbina a personaggio clochard, barbone, incline al vino e al turpiloquio. Vagabondo, mendico; persona sporca con qualche rotella fuori posto.  Vive come gli capita, per scelta o per necessità.

Il fonema somiglia a qualche lemma di derivazione francese…chissà qual’è l’origine.

Quello  nostrano, Matteo Vitale, conosciuto come Mattöje  sciambregnöne (o semplicemente Fiascöne),  si aggirava per le strade di Manfredonia, era un bonaccione, ma anche un formidabile lanciatore di sassi quando veniva dileggiato dai monelli, me compreso, con la canzoncina:

“Vöna vöne ‘u fiascöne, ‘u sciambregnöne! = Viene, arriva (con il suo) fiascone, l’ubriacone!” La risposta era violenta e immediata:‘A putténe de màmete! Ghjachiv’è murte e stramurte! ‘Gghjà lu peccjöne d’i putténe d’i mamme vostre! (preferisco non tradurre). 
E giù una gragnuola di sassate!

Raccattava i ciottoli da terra. I sassi erano reperibili numerosi per le strade, perché, tranne via Tribuna (chiamata “l’Asfalde” per antonomasia), Corso Roma, Corso Manfredi e le traverse, tutte le altre erano di terra battuta, quindi non erano lastricate né bitumate.

Spesso, mentre passava per la via canticchiava qualcosa sottovoce, come tra sé e sé. Se qualche donna lo punzecchiava, partiva con una canzoncina allusiva, sull’aria di “Quant’è bèllo lu prim’ammore”: “Vù sapì che tjine sotte? Tjine ‘u tóbbe de l’Acquedotte!” Se non veniva accolta con: “Vattì, vattinne, ca mò chiéme a marìteme!“, continuava imperterrito diventando sempre più scurrile.

A quei tempi, nell’immediato dopoguerra (anni 1946-50), si presentava ogni giorno dietro la porta del refettorio della Scuola De Sanctis, assieme ad alcune persone bisognose.
Ognuno aveva la propria gavetta di alluminio, nelle quali le bidelle, dopo aver servito gli scolari, distribuivano la minestra rimasta in fondo ai pentoloni. A volte le inservienti elargivano anche dei pezzi di filoncino o qualche formaggino.
Sciambregnöne si lamentava perché, commisurata alla sua fame atavica, gli sembrava scarso un solo mestolo di minestra…  “Mìtte n’atu cuppüne!“ = aggiungi un altro mestolo!.

Per quanto fondamentalmente buono, incuteva comunque un po’ di inquietudine nei piccoli e nei grandi. Bisognava solo lasciarlo in pace, e non stuzzicarlo mai.

Ringrazio infinitamente Bruno Mondelli per avermi passato le foto originali di Matteo Losciale.

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Scialacqué

Scialacqué v.t. = Scialacquare, sperperare, dilapidare

Spendere con larghezza, senza criterio e senza alcuna remora. Sperperare, prodigare, scialare.

La persona che fa uso smodato delle sue sostanze dicesi scialacquöne.

Si usava anche (clicca→) sciambregnöne 

 

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