Categoria: Indovinelli

Nenn’jì Rè ma töne a cröne…

Ecco l’indovinello completo:

Nenn’jì Rè ma töne a cröne,

nen jì cavaljire ma porte i sprüne,

nen jì sagrestène ma söne ‘u mattutüne

Non è re ma ha la corona, non è cavaliere ma ha gli speroni, non è sacrestano ma suona il mattutino.

‘U jallócce = il gallo

La corona è la cresta

gli speroni sono le unghie posteriori, tipiche dei gallinacei (*)

il mattutino è il canto antelucano

 

(*)Gli speroni sono strutture ossee corneificate e fissate alla parte posteroinferiore del tarsometatarso. Sono presenti nei maschi di alcuni gallinacei – gallo, tacchino, parecchi fagiani – che se ne servono per offesa. Mancano nella faraona, nella quaglia e nella pernice. (dal web)

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Pa vocche ciacche-e-cciàcche…

Ecco l’indovinello completo:
Pa vòcche ciàcche-e-cciàcche, p’i méne ce manjöje, e ‘mmizz’i jamme ce nazzecöje.

Con la bocca in continuo movimento, con le mani si maneggia, tra le gambe pende e si dondola.

A cröne d’u Resàrje = La corona del Rosario

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Se lu vüde, quande jì brótte!…

Ecco il testo completo della terzina.

Si tratta, come quasi tutti gli indovinelli dialettali, di una definizione ridanciana che si presta a doppi sensi.

Se lu vüde, quande jì brótte!
Se l’addùre, quande föte!
Se l’assagge turne arröte.

Se lo vedi, quant’è brutto!
Se l’annusi, quanto puzza!
Se l’assaggi, torni di nuovo (ad assaggiarlo).

Veramente l’inizio del terzo verso dovrebbe essere: “Se l’assépre” = se l’assaggi, dal verbo assapré = assaporare, assaggiare. I ragazzi di oggi usano il simil-italiano assaggé, che ormai è diventato di uso comune.

Ma loro hanno frequentato tutti obbligatoriamente le scuole medie. La generazione precedente si fermava alla scuola elementare, e perciò tramandava un dialetto meno contaminato.

Difatti se chiedete ad una persona anziana come si traduce il verbo in questione, vi risponderà senza esitare: assapré, assapréte,= assaggiare, assaggiato. Tuttavia anche i giovani di oggi, con la stessa radice, usano l’aggettivo saprüte, saporito, ricco di sapore, gustoso.

Ah, nell’elucubrare la nota etimologica stavo dimenticando di rivelare la soluzione dell’indovinello: il baccalà!

Ringrazio la lettrice Tonia Trimigno per il suo grazioso suggerimento

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Söpe a ‘na mundagnèlle…

L’indovinello completo suona così:
Söpe a ‘na mundagnèlle stöve ‘nu vecchiarjille,
strìtte di cendurèlle e làrje de cappjille

Sopra una montagnola c’era un vecchietto, con una cintura stretta e un cappello largo.

Soluzione: ‘u fònge = il fungo

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Spunde ‘u vrachettöne e jèsse ‘u bambalöne

Spùnde ‘u vrachettöne e jèsse ‘u bambalöne

Sbottoni la patta e compare il battaglio (o il pendaglio, o il dondolo)

Indovinello micidiale che porterebbe ad un’errata soluzione…

Si tratta semplicemente della spiga del mais: infatti per far comparire la pannocchia bisogna aprirsi un varco tra le foglie che la ricoprono. Ricordo ai distratti che una volta sgranata la pannocchia, rimane un totulo legnoso detto in dialetto‘u tòtere.

Dalla serie “non si butta niente” questi totuli, opportunamente tritati e trattati, vengono usati per preparare lettiere destinate ad animali domestici. Le foglie secche, fino all’avvento del materasso a molle, venivano usate per riempire il pagliericcio (‘u saccöne) su cui si posava il materasso di lana o di crine vegetale.

Per i puristi: l’insieme delle ampie brattee che avvolgono la pannocchia del granoturco si chiamano “cartoccio” (Treccani).

Quindi l’indovinello è in corretto italiano: apri il cartoccio e appare la pannocchia.

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Sté ‘nu cjile stèlle stèlle….

Sté ‘nu cjile stèlle stèlle….

C’è un cielo cosparso di stelle.

Che cos’é?

Il lettore PEPPE mi dà lo spunto per spiegare questo indovinello.

È una cosa schifosa, ma purtroppo vera: nei tempi passati (diciamo fino a metà del secolo appena passato), quando non tutte le case disponevano di acqua corrente o di fognature, per i bisogni corporali si usava il famoso ruàgne = cantero, detto anche prüse o cacatüre.

Era adoperato prevalentemente dalle donne, perché gli uomini evacuavano negli anfratti degli scogli o nei campi di fichi d’india che coronavano la città. Essi per l’occasione, si premunivano di carta di giornale per stujàrece = pulirsi in assenza di acqua.

Véche a fé ‘nu telegràmme, a fé ‘na spasséte, a mangé düje chelómbre = vado a fare un telegramma, una passeggicon unatina, a mangiare due fichi fioroni. Eufemismi per dire vado a cacare (scusate, si dice meglio evacuare): la carta igienica a rotoli era privilegio dei benestanti!

Le donne non si lanciavano mai all’aperto per espletare i loro bisogni corporali. Li facevano in casa, come ho detto prima, e non usavano il giornale, bensì uno straccio appeso ad un chiodo dietro il vaso. Dopo la “pulizia” lo riappendevano per la successiva utilizzazione! (ózze! = puah!).

Naturalmente ogni volta si sceglieva un angolo dello straccetto non coperto dalle precedenti tracce di feci essiccate, e dopo qualche giorno il panno era tutto leopardato. Ecco, con un paragone poetico, la mappina cosparsa di cacca come il cielo pieno di stelle dell’indovinello!

Allora a Manfredonia il tifo – inteso come malattia – era endemico e nelle epoche precedenti la città era martoriata dal colera. Bisognerebbe spulciare nelle Relazioni annuali dell’Ufficiale Sanitario del Comune dal 1950 a ritroso.

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