Categoria: Proverbi e Detti

Adda sènde lu škattüsce!

Adda sènde lu škattüsce!

Sentirai lo scoppiettio!

Significato: A breve avrai una spiacevole sorpresa!

È un modo di dire che si comprende appieno solo se si conosce il frecàbbele da cui deriva.

Bisogna riassumerlo qui in poche parole.

Un commerciante disonesto vendeva alla fiera dell’olio alimentare adulterato e un po’ annacquato a poco prezzo.

Un altro losco individuo girava per acquisti nella stessa fiera cercando di spacciare soldi falsi.

Si incontrarono, conclusero presto la trattativa e la compravendita.

Il falsario si compiaceva del suo successo e rivolgendosi mentalmente al venditore gabbato pensò:

“Quanne scange, a da sènde ‘u chjanda-chjande!”= Quando andrai a scambiare i soldi sentirai lo sconforto, perché solo allora ti accorgerai che io ti ho rifilato moneta falsa!

A sua volta il venditore di olio, credendo di essere stato furbo, pensò alle spalle del cliente truffato: “Quanne  früje, a da sènde lu škattüsce!” = Quando andrai a friggere sentirai lo scoppiettio!

Difatti l’olio in padella, se contiene parti di acqua, sfriggola, crepita, scoppietta. Il rapido evaporare dell’acqua a causa delle alte temperature raggiunte dall’olio, provoca pericolosi schizzi e scoppiettii.

Insomma, la morale del detto è: Chi la fa l’aspetti.

Qlcu pronuncia škattüje ritenendo škattüsce un po’ rozzo.

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Addj’ c’ha fatte staggjöne va fé vjirne

Addj’ c’ha fatte staggjöne va fé vjirne

Dove hai trascorso l’estate vai a passare l’inverno.

Un po’ come la storiella della cicala, che ha cantato spensierata per tutta l’estate, mentre la previdente formica raggranellava scorte nel suo granaio.

Al primo gelo la imprevidente cicala chiese cibo alla formica.

La risposta appare nel titolo.

È un monito ad essere previdenti, a risparmiare, a non sprecare il tempo inutilmente: i tempi di magra sono imminenti e immanenti.

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Addjì ca arrevéme, chjandéme ‘u zìppere

Addjì ca arrevéme, chjandéme ‘u zìppere

Dove arriviamo piantiamo uno  stecco, uno zìpolo  (←clicca)

Ossia per oggi basta così.

Si usa citare questo detto per evidenziare che ogni cosa richiede il suo tempo per essere ultimata. Arriviamo dove possiamo. Poi pausa.

Alla fine della giornata se si prevede di non terminare l’opera in corso di esecuzione, figuratamente, si pianta uno stecco, in modo che l’indomani si possa riprendere esattamente da quel medesimo punto.

Si pronuncia questo Detto anche quando uno onestamente mostra i propri limiti, come dire “queste sono le mie forze” o “faccio quello che posso”. Insomma ci si ferma quando le possibilità non permettono di andare oltre.

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Addjì ca fé jàrre, addjì ca fé zàrre

Addjì ca fé jàrre, addjì ca fé zàrre

I due termini jarre e zarre non hanno un loro proprio significato, perché sono associati in questo Adagio solo per la rima.

Il Detto si cita per indicare una persona lunatica che a talvolta abbonda e a talaltra scarseggia nelle sue relazioni con il prossimo.

Insomma il soggetto in certe circostanze si mostra  estroverso e in altre è introverso. Ma anche in generosità e grettezza. Insomma ha spesso due atteggiamenti in antitesi.

Per deduzione si può assegnare a jarre il significato di scarso, ed a zarre quello di  eccessivo

Dice il lettore Francio: «Io me lo ricordavo come: “addjì ca fe jarre, allà fé’ zarre…” E’ una mia storpiatura?»

Mi sono informato.
Se dico come appare nel titolo, specifico che lo sciagurato in un luogo fa lo sciupone, e in un altro luogo il taccagno, ossia due cose in antitesi eseguite in due posti diversi.
Simile al detto: Jàlle de chjàzze e tróvele de chése.(←clicca)

Invece, nel modo in cui lo ricorda Francio – che, a mio avviso, non è nello spirito di questo detto – sembra che le due cose debbano avvenire nello stesso luogo: dove hai scialato là vai a stringere la cinghia.  Un po’ come la cicala e la formica. Dove hai fatto l’estate vai a fare l’inverno.

Grazie per le attenzioni dei lettori. È la finalità di questo lavoro, quello che io cerco sempre!

Non abbiate timori a replicare. Lo ripeto spesso: io esprimo le mie opinioni, che possono essere sempre opinabili.

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Addrìzze vignetjille quann’jì angöre tenerjille

Addrìzze vignetjille quann’jì angöre tenerjille

Raddrizza il virgulto quando è ancora tenero.
Alcuni, invece del verbo addrizzé =raddrizzare, usano il verbo chjeché = piegare, ma ciò non cambia minimamente il significato di questo Detto.

Ossia è meglio correggere subito un difetto, altrimenti non si potrà più eliminare. Rimandare la cosa diventa del tutto inutile.

Il che vale per le persone, gli animali domestici, le apparecchiature, ecc.

Questo proverbio si cita, ad esempio, quando ormai un bimbo è grandicello ed evidentemente mostra segni di cattiva educazione. Insomma i figli vanno educati da piccoli.

Il virgulto, specie quello dell’albero di olivo, è chiamato vinghje  o vignetjille (ant. vignetìdde) Si adoperavano per farne cesti e canestri e robusti panieri.

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Addumànne all’acquarüle: l’acque jì frèške?

Addumànne all’acquarüle: l’acque jì frèške?

Chiedi all’acquaiolo se l’acqua è fresca.

È una domanda oziosa, retorica, di cui si conosce già la risposta.

Questo si dice quando qualcuno vanta se stesso o i propri prodotti.

Sarebbe come se qlcn chiedesse a Tarzan se il pesce che ha sul suo banco al mercatino è fresco: che cosa risponderà il nostro simpatico pescivendolo secondo voi?

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Ajire chésa-chése, e jògge ammizz’a chése

Ajire chésa-chése, e jògge ammizz’a chése

Ieri gironzolava per casa, oggi giace in mezzo alla casa.

Un Detto che evidenzia la caducità della vita.

Ossia: ieri il soggetto era dedito tranquillamente alle sue incombenze in casa, e nulla ne faceva presagire la morte imminente.
Oggi è disteso sul catafalco in mezzo alla stanza più grande della casa, per la veglia funebre in attesa delle esequie.

Mi fa venire a mente il famoso memorabile distico lapalissiano:

Monsieur de Lapalisse à la bataille de Pavie,
un quart d’heure avant sa mort, c’était encore en vie

Il Signor di Lapalisse, alla battaglia di Pavia, un quarto d’ora prima della sua morte era ancora in vita.

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Alì caggéne, ‘u pèsce a mére!

Alì caggéne, ‘u pèsce a mére!

Attento, gabbiano, il pesce è in mare!

Dalla riva i bambini gridavano ai gabbiani, modulando due note discendenti (sol-sol, mi-mi): Alì, caggéne, ‘u pèsce a mére! = Attenzione, gabbiano, c’è un pesce a mare, proprio sotto di te!

Insomma indicavano ai volatili che nei paraggi c’era una preda, come se quelli fossero distratti.

Lo scopo era dell’invito era di vederli in azione mentre si tuffavano. Erano convinti che se non avessero gridato, i poveri animali sarebbero rimasti a pancia vuota…

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Alla lambe…

Alla lambe…

Per questione di spazio trascrivo qui il detto:

«Alla lambe, alla lambe,
e chi möre, e chi cambe,
e chi cambe alla furcjüne
e ze’ mòneche ‘i Cappuccjüne!
»

= Davanti alla lampada votiva del cimitero, (sta) chi muore e chi vive, (c’è) chi vive (pensando sempre) alla forchetta (come lo) zio frate dei Cappuccini.

Era questa la fase iniziale del gioco dei quattro cantoni che si giocava in cinque all’incrocio di due strade.

Era una specie di sorteggio per stabilire chi doveva andare “sotto”, e cercare di conquistare il cantone mentre gli altri quattro se lo scambiavano.

Dunque, un bambino si metteva al centro del crocevia, con un braccio sollevato e la mano piegata in modo che il palmo fosse rivolto verso terra. Gli altri quattro con l’indice toccavano il palmo della sua mano.

Allora si cantava insieme questa specie di filastrocca, sul motivo di giro-girotondo, al termine della quale ognuno lasciava la “lambe” e cercava di raggiungere velocemente uno dei quattro cantoni.

Chiaramente i concorrenti erano cinque e gli angoli quattro: uno restava necessariamente “fuori” e perciò andava “sotto”.

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