Categoria: S

Sante Martüne

Sante Martüne loc.id. = San Martino.

Corretta anche la grafia Sante Martïne

San Martino, dividendo il suo mantello con la spada per darne metà ad un povero, ha compiuto un gesto consolatorio agli occhi del Signore, dei suoi e dei nostri contemporanei.

Si invoca il Santo per augurare abbondanza, perché il giorno della sua commemorazione, l’11 novembre, come si usa dire, ogni mosto diventa vino ed il clima talvolta si mostra meno aggressivo (il fenomeno, quando si manifesta, viene chiamato “estate di San Martino”).

Se entrando in casa propria o di amici si vede che qualcuna è intenta ad impastare la farina per le pettole o per il pane, spontaneamente si dice, come un voto augurale: Sande Martüne!

Agghje mìsse a crèsce, Sande Martüne = Ho messo la pasta a lievitare, San Martino (non permetterà che il pane diventi azzimo, quindi la massa lieviterà nella giusta misura.)

Altra forma abituale è benedüche/benedïche = benedico, dico bene, non per invidia.
Mia nonna diceva:
«Mitte acque e mitte farüne…
e faciüme crèsce ‘u Sante Martüne»

Voleva significare: “aggiungi un posto a tavola”, o “allunga iul brodo”.  Un segno di genuina ospitalità.

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Sapretjille

Sapretjille agg. = Sapore deciso

Si indica specificamente questo aggettivo quando, nell’assaggiare una pietanza, si nota che essa è un po’ troppo ricca di sale o di spezie, e che va perciò corretta.

Quando mio nonno diceva questo, mia nonna lo tranquillizzava, dicendogli: acchessì te pùte azzecché ‘na vèvete de vüne de chjó! = così puoi approfittare per una bevuta di vino in più (per togliere dalla bocca il gusto deciso del sale, o del pepe).

Caso mai mio nonno avesse trovato la pietanza un po’ scarsa di sale, ossia sciapüte, mia nonna lo avrebbe rimbeccato: e chè te vularrìsse ‘mbriaché? = per caso ti vorresti ubriacare?

Assapréte ‘stu süche: accüme jì venüte? = Assaggiate questo sugo: come è riuscito?
Jì nu pöche sapretjille = È un po’ ricco di sale!

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Saprüte

Saprüte agg. = Saporito, gustoso.

Ricco di sapore; che ha un sapore intenso, anche per l’aggiunta di condimenti e aromi.

Te piàcene i fechedìnje? Sì, so saprüte! = Ti piacciono i fichidìndia? Sì, sono gustosi

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Saramènde

Saramènde s.m. = Tralcio, sarmento


Ramo lungo e sottile della vite, usato anche per innesti.

Quelli potati, e quindi secchi, sono utilizzati per innescare il fuoco perché di facile combustione.

Al plurale fa saramjinde.

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Saréche

Saréche s.f. = Salacca, spratto, papalina, saraghina.


È un pesce nordico (Sprattus balticus) che viene pescato principalmente presso le coste Norvegesi, Inglesi, Belghe, Olandesi e Germaniche, del Mare del Nord e del Mar Baltico. Nella specie Sprattus Sprattus, sono diffuse anche nel Mediterraneo e nel Mar Nero.

Appartiene alla famiglia dei clupeidi ed è molto simile alla sardina. La sua lunghezza massima è di 17 cm. Il dorso è di colore scuro e bluastro, i fianchi ed il ventre sono bianchi. Per la commercializzazione le salacche venivano salate, e affumicate, e pressate in un contenitore circolare di legno. Infatti si presentavano con i fianchi giallastri proprio per effetto dell’affumicatura.
Le salacche più piccole erano dette sarachèlle.

Era considerato un cibo povero, tanto è vero che attualmente non ne vediamo più in commercio. Con una “sarachella” e un pezzo di pane a testa riusciva a cenare tutta la famiglia.
Tuttavia era molto apprezzato in quanto ricco di proteine e grassi, ma sopratutto perché reperibile ad un prezzo accessibile.

Figuratamente ‘na saréche designava un colpo secco o nel gioco del calcio, un tiro potente. Indicava anche una persona molto magra come si presentava la salacca affumicata.

Chépe de saréche invece è un eufemismo per indicare una persona dall’intelletto smorto o dal comportamento bislacco.

Chépe de saréche tuttora è usato (come dicono quelli che sanno la grammatica) anche quale “locuzione esclamativa propria” di incredulità, di sorpresa o di ammirazione. Insomma un eufemismo come patecà, usato per non cadere nel volgare.

Generalmente saréche in maniera figurata indicava un discorso o un apprezzamento di scarso valore. Come quando si vuol smentire qualcuno, come per dire che le sue sono affermazioni senza valore, da scartare, si usava a commento: « sì,…. chépe de saréche!»
Similmente, riferendosi ai gusci vuoti delle canestrelle: «Sì, carècchje» = Sì, tu dici parole vuote, senza costrutto.

Parlo al passato perché i ragazzi di oggi non sanno nemmeno che cosa siano queste saréche.


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Sarte

Sarte s.f. e s.m. = Sarta, sarto

1) Sarta – Donna che esercita il mestiere di sarto, confezionando in partic. abiti per donna o per bambino;

2) Sarto – Artigiano addetto al taglio e alla confezione di abiti prevalentemente maschili.

La differenza nella descrizione del mestiere non è eccessiva. variano i destinatari degli abiti.

Come tutti gli artigiani, abilissimi, si appellavano con il titolo di Maste = maestra/o

Maste-Custantüne, Mast’Andunètte, Maste Cenzèlle, Maste Nicöle, ecc.

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Satórne

Satórne agg. = Introverso

L’aggettivo si riferisce a qualcuno di poche parole, piuttosto riservata.

Non è di grande compagnia perché appare spesso pensieroso, assorto e non interviene nella conversazione.

Insomma uno che magari può sembrare scontroso e diffidente, ma che semplicemente non intende mostrare i suoi sentimenti perché di carattere chiuso.

Gli amici lo tollerano nella propria cerchia perché, anche se dà l’impressone di essere scorbutico, non è mai ostile ai loro progetti. Ecco, un è vero “orso”…

Presumo che satórne derivi dall’aggettivo italiano “taciturno”, a causa la desinenza quasi uguale, senza scomodare il pianeta anellato.

Guagliò, ma códde Mattöje quant’jì satórne! Ne’llu spìzzeche ‘na paröle da mmòcche… = Ragazzi, ma quel Matteo quanto è selvatico! Non gli stacchi una parola dalla bocca…

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Savezarjille

Savezarjille s.m. = Salicornia

Questa pianta (Salicornia europæa) ha un’ampia diffusione nella regione mediterranea, ed è  anche ben distribuita in Europa, Asia e America settentrionale, presso acquitrini salmastri o in prossimità di acque stagnanti.
È conosciuta anche col nome di “asparago di mare” ed è dotata di adattamenti peculiari che ne permettono l’insediamento su terreni salini. Viene detta pianta alofita, cioè capace di vivere in presenza di cloruro di sodio (sale marino).
Mentre le altre piante non resistono oltre la concentrazione salina dell’1%, questa sopporta benissimo anche il 2%.  Il che le conferisce un sapore gradevole anche se consumato cruda in insalata.
Per me è stata una sorprendente novità. Pare sia ottima anche lessata o addirittura in frittata. Per questo è degnamente paragonata all’asparago.

Il nome deriva da sàveze nel significato di salmastro.

In alcuni paesi del Gargano è chiamato  savezute.

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Sàveze

Sàveze s.f. e agg. = Salsa; salmastro

1 – Sàveze – s.f. Nel significato comune è la polpa di pomodoro privata dei semi e della buccia e opportunamente trattata, ossia la classica passata di pomodoro industriale.
Generalmente quella fatta in casa – priva di conservanti e di altre sostanze – serve come riserva invernale, previa bollitura a “bagno-maria” in bottiglie o recipienti a chiusura ermetica.

2 – Sàveze – agg. Riferito specificamente al sapore salmastro delle acque sorgive che sgorgano lungo la scogliera. Cito una per tutte l’acqua sàveze della sorgente Acqua di Cristo.

Talvolta dai pozzi artesiani, perforati nei campi allo scopo di intercettare polle d’acqua sotterranee, emerge acqua sàveze = acqua salmastra, se non addirittura salata.

I ragazzi di oggi, avendo frequentati tutti la scuola dell’obbligo, tendono a italianizzare i termini dialettali, e perciò pronunciano salse anziché l’antica dizione sàveze.

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Savezìcchje

Savezìcchje s.f. = Salsiccia

Carne di maiale o di vitello, tritata, insaporita con sale e aromi e insaccata in lunghe budella dello stesso animale, talvolta legate in piccoli rocchi.

Qualche macellaio come aroma usa il vino bianco e semi di finocchietto selvatico. Viene generalmente consumata fresca arrostita o a ragù.

Con lo stesso nome si intende anche il salame stagionato, da mangiare a fette. In questo caso quella resa piccante da grani di pepe (i Calabresi usano il micidiale peperoncino macinato di Soverato) è detta savezìcchja fòrte per distinguerla dalla salsiccia normale, chiamata savezìcchja dòlce.

I Latini la chiamavano salsicia, derivato da salus = salato e insicia = carne tagliuzzata.

Mi fanno ridere i Toscani o quelli che credono di parlare italiano quando dicono “salciccia”, con tutte quelle ci…

Fino agli anni ’50 era rigorosamente “vietato” mangiarla durante il periodo quaresimale. Il Carnevale (Carnevale = carne-levàmen = carne-togliere ) rappresentava l’ultima abboffata prima della Quaresima, fino a Pasqua, una specie di Ramadàn cattolico.

Io presumo che all’epoca l’astinenza dalle carni avesse avuto più una motivazione finanziaria che una religiosa.

C’era un detto: Tó nen nce vjine? E savezìcchje nen n’éje! = Tu non vieni? E salsicce non ve avrai!
La savezìcchja frèške era il trionfo della trasgressione!

Ora, se ce ne priviamo, lo facciamo per motivi di colesterolo.

Savezicchjöne non indica un grosso salume, ma è inteso come sinonimo di ingenuo, che è facile al raggiro, credulone.

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