Tag: sostantivo femminile

Capòcchje

Capòcchje s.f. = Glande

Termine anatomico che definisce l’estremità del pene, costituita da un rigonfiamento del corpo cavernoso, alla cui estremità si apre l’orifizio uretrale, e da un cercine basale.

Insomma non si tratta della capocchia ingrossata e arrotondata di spilli e fiammiferi…

L’etimo è sempre “capo” nel senso di testa.

Fuori dai denti: si tratta di un sinonimo di chépe de cazze, ma solo in senso fisico.

Quando qualcosa non è stata eseguita correttamente si dice: sté fàtte a capòcchje = a vanvera, senza riflettere, a caso, in modo bizzarro, alla carlona

L’amico Lino Brunetti alla voce capòcchje ricorda un tale (clicca qui→) Ferdinando.

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Capèzze

Capèzze s.f. = Briglia, cavezza

Briglia, fune che si mette alla testa dei cavalli o di altre bestie da soma per tenerli legati alla mangiatoia o per condurli a mano.

Può significare anche capestro, fune usata per le impiccagioni.

Mò ce ne vöne p’a capèzza ngànne = Ora se ne ritorna con la corda al collo.

Figuratamente si declamava questo detto per indicare qualcuno che in precedenza si era comportato da scapestrato (ecco che ritorna capestro) e alla fine, come il figliol prodigo della Parabola evangelica, se ne torna da suo padre.

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Capesciöle

Capesciöle s.f. = Nastrino, fettuccia.

Fettuccia di cotone usato per legature di federe di guanciale, di mutandoni lunghi, di sacchetti, di faldoni, di raccoglitori di documenti, ecc.

Vengono cucite ai bordi dei due lembi da legare.

Origine del termine: il grande filologo tedesco Gerhardt Rohlfs ipotizza che il termine possa derivare dallo spagnolo capichola, che indica una specie di  tessuto di seta.

Nel Salento è considerato un diminutivo di capišciu, ossia, cavezza, capestro, legaccio per sostenere le viti.

Con varie inflessioni, troviamo questo sostantivo in Puglia e in molte località della Basilicata.

Al plurale indicano, per estensione, cose di nessun valore. Vènne i capescöle = vendere fettucce di stoffa, fare commercio senza conseguire un apprezzabile margine di guadagno.

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Capellüne 

Capellüne s.f. = Capigliatura

Di solito si intende una chioma, maschile o femminile, ben curata e ordinata, nonché la stessa pettinatura accurata.

Vüte a jìsse che bella capellüne ca töne! = Guardalo che bella pettinatura che ha!

Come neologismo è il plurale di capellöne = capellone, hippy, movimento giovanile degli anni ’60 caratterizzato dalla lunga capigliatura dei maschi.

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Capellöre

Capellöre s.f. = Pettinatrice

Donna che si guadagnava da vivere dedicandosi ad acconciare i capelli a domicilio.

Copriva le spalle della cliente con una tela bianca, scioglieva e lavava i capelli, li pettinava accuratamente col pettine rado (‘a pettenèsse) e poi con quello fine (‘u pèttene) alla ricerca di eventuali focolai di pidocchi. Dopo l’asciugatura, riformava le trecce e le riavvolgeva a crocchia.

I lunghi capelli che restavano fra i denti del pettine e sulla tovaglia posata sulle spalle venivano raccolti accuratamente e inseriti in un sacchetto con chiusura a borsa di tabacco.

Quando il sacchetto era pieno diventava merce di scambio con uno specifico venditore ambulante. Difatti costui dava in cambio due saponette, o un pennello da barba, o una spazzola per abiti, o alcune scatole di lucido per scarpe, o cinque metri di elastico per mutande, ecc.

Presumo che i capelli umani di una certa lunghezza erano molto richiesti dalle fabbriche di parrucche: e se no che se ne facevano?

Il mestiere è passato quale soprannome a indicare una specifica famiglia.

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Ciambotte

Ciambotte s.f. = Zuppa di pesce del Golfo.

I Potentini, che sono montagnari, chiamano pomposamente ciambotta una volgare zuppa di verdure….

Per un integralista come me sentire questo soave nome dato a dei semplici vegetali è una vera eresia.

La ciambotte nostrana si prepara con una nutrita specie di pesci: tràcene, sparrüne, cechéle, tèste, lucèrne, scròfele, sambjitre, caccjüne, siccetèlle, scàmpe, rùnghe, ecc. (eh, eh, mi sembra la formazione di una squadra vincente ai campionati gastronomici mondiali!).

È veramente squisita sia versata sugli spaghetti al dente, sia usata come intingolo per ammollarvi il pane duro, vecchio di qualche giorno.

Un piccolo segreto rende la ciambotte di Manfredonia un po’ speciale rispetto al cacciucco livornese, o alla bouillabasse di Marsiglia, o alla zuppa di pesce di Termoli o di Taranto o di San Benedetto del Tronto (tutte molto buone, per carità…).

Quella fetta di peperone, possibilmente verde, che le nostre mamme pongono nel sughetto è la mossa vincente!

Altro che Vissani, lo chef che si fa vanta di conoscere tutti i segreti della cucina….Vissa’, vàtte cùleche!

Quelli che dicono ‘a zóppe ‘u pèsce = la zuppa di pesce, sono Manfredoniani parlanti un dialetto geneticamente modificato. Si deve dire ‘a ciambòtte!

Scherzosamente nel dire facjüme ciambòtte si usa un parlare figurato. Non si prepara la zuppa di pesce, ma si combina qualcosa di intimo, di delizioso, ma in coppia…

L’amico Ettore Don mi ha fornito l’etimologia di ciambotte.
«Si racconta che i marinai francesi usassero questo termine durante i periodi di scarsità…il significato tradotto dal linguaggio arcaico francese vuol dire : prendiamo ( mangiamo ) tutto quello che abbiamo a bordo»

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Cechéle

Cechéle s.f. = Canocchia

Crostaceo marino (Squilla Mantis) di piccole dimensioni, apprezzato per le sue carni; è detto anche cicala di mare.

Dà profumo e sapore alla nostra prelibata ciambòtte.

Durante il periodo della riproduzione, per effetto della cottura, la parte centrale della cicala si coagula, e forma il cosiddetto “cannùle” = cannelletto, di colore arancione e di consistenza più dura della restante polpa bianca, cannello che è ugualmente commestibile.

Per curiosità riporto le denominazioni regionali (dal web):
DENOMINAZIONI REGIONALI

* Abruzzo: Canocchia.
* Campania: Pannocchia, Spernocchia, Sparnocchia, Šcrefìce
* Friuli-Venezia Giulia: Canocia, Canoccia, Canocchia, Pannocchia.
* Liguria: Balestrin, Sigà de maa, Sighea.
* Marche: Cannoccia, Cannocchia, Panocchia, Nocchia.
* Puglia: Cannocchiella, Cecala, Caraviedde, Canocia.
* Sardegna: Càmbara de fangu, Solegianu de mari.
* Sicilia: Astrea, Cegala de mari, Schirifizu.
* Toscana: Canocchia, Pannocchia, Cicala di mare.
* Veneto: Canocia, Canoccia, Canòcchia, Panocchia.

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Cannöle

Cannöle s.f. = Candela

Asta cilindrica di cera, di varia grossezza e lunghezza, con un’anima di fili di cotone o di lino intrecciati, detta “lucignolo” o “stoppino”, che s’accende per illuminare.

Con l’avvento della corrente elettrica la candela è usata solo per usi liturgici.

Scherzosamente ‘a cannöle indica, il muco pendente dal naso dei bimbi mocciosi.

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Canìgghje

Canìgghje s.f. = Crusca.

Buccia di frumento separata dalla farina mediante il buratto (detto anche staccio).

Era usata dai contadini per fare il “pane canino” (da cui il nome).

Questi pane ammorbidito con brodaglie, era il cibo dei cani domestici, allevati in campagna per la guardia e per la caccia.

Ora la crusca sta tornando inaspettatamente in auge dopo che era stata per tanti anni vilipesa.

Usata in panetti “krusken” per favorire le funzioni intestinali e per confezionare il pane integrale, molto richiesto dalle signore che intraprendono la dieta dimagrante.

Deriva dal sostantivo maschile latino canicæ, che significa proprio crusca.

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Cangèlle

Cangèlle s.f. = Biscotto salato

Si tratta di una variante dei scavetatjille. 

Gli scaldatelli sono dei cerchietti, dal cannello di cm 1,5 di diametro.

Invece i gambi delle cangèlle non superano il centimetro di diametro, sono incrociati come una grata, un cancelletto ( # ) e si saldano al cerchio del biscotto, formato anch’esso dal cannello più sottile, della stessa misura.

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