Tag: sostantivo femminile

Bufanüje

Bufanüje s.f. = Epifania

Dal latino epiphanìa, a sua volta derivato dal greco ἐπιϕάνεια, epiphàneja = apparizione, comparsa, manifestazione.
Il nome completo della ricorrenza è “Epifania del Signore”. Più specificamente significa manifestazione agli uomini della divinità di Cristo, riconosciuta per prima dai pastori e dai Magi recanti doni.
Difatti essi riconobbero in Lui il Messia, il Figlio di Dio venuto sulla Terra.
Il Vangelo di Matteo (Mt 2.1,2) è molto stringato:  Alcuni Magi giunsero da oriente a Gerusalemme e domandavano: «Dov’è il re dei Giudei che è nato? Abbiamo visto sorgere la sua stella, e siamo venuti per adorarlo».

I nostri nonni chiamavano questa Festa Pasqua-Bufanüje per distinguerla dalla Pasqua più solenne, la Pasqua di Resurrezione, nonché dalla Pasque-i-crüce = Pasqua delle croci, che celebrava forse un’altra ricorrenza cristiana della quale, veramente, mi sfugge la collocazione nel calendario cattolico, per quanto abbia frugato nella mia memoria storica.

Le persone ultrasettantenni ricordano che la sera della vigilia, il 5 gennaio, dopo cena, si accendevano dei lumini ad olio davanti ai ritratti dei defunti e si lasciava il desco apparecchiato.

Era credenza che durante la notte passassero le anime degli antenati a farci visita e bisognava spazzare con cura il pavimento per evitare che briciole di pane o noccioli di olive caduti accidentalmente potessero recare disturbi al loro lieve camminare per casa.

Mia nonna, nata nel 1878, dopo il cerimoniale dei lumini, si metteva a letto e annunciava, in modo che noi nipotini potessimo sentire, il Titolo delle sue preghiere: “Cjinde crüce e cjinde Avemmarüje per saluté la Pasqua-Bufanüje” = Cento segni di Croce e cento Ave Maria per salutare la Pasqua-Epifania. E cominciava la sua lunga preghiera.

Sono sicuro che soccombeva stramazzata per il sonno dopo poche poste….

Vuoi vedere che questo rito dei cento segni di Croce abbia dato il nome alla succitata Pàsque-i-crüce, ed era semplicemente un sinonimo di Pasqua-bufanüje?

Qualche sua coetanea più vivace raccontava che esisteva un trucco per rendere visibili le anime dei defunti che in processione scendevano sulla Terra. Ossia bisognava raccogliere nel corso di un anno tutto il cerume secreto dalle orecchie e farne una pallina.  In essa si doveva conficcare un minuscolo lucignolo e dargli fuoco. Alla luce fioca di questa schifezza usata come candela si sarebbero viste le anime vaganti dei propri cari.

Io credo che era questo semplicemente un invito a tenere pulite le orecchie – in assenza di cotton-fioc, inventato decenni dopo – magari “scavando” con uno di quei ferrettini per capelli. Puah

Il lettore Domenico Palmieri, che ringrazio di cuore, mi riferisce che i suoi genitori in questa ricorrenza solevano ripetere: «Tutt’i fèste jèssere e venèssere ma före d’a Pasqua Bufanüje», ossia “tutte le feste andassero e ritornassero, ma all’infuori della Pasqua Epifania”.

Questo lo avrebbero esternato  con rammarico le anime dei defunti, le quali, pur avendo ricevuto il permesso  di rientrare nelle case dei propri cari per questa Festa, non avrebbero potuto restarvi più a lungo, né abbracciarli e parlare con loro.

A proposito di doni vogliamo parlare della amatissima Befana? La gioia dei nostri bimbi!
Il lettore Matteo Borgia 2° ha composto questa graziosa filastrocca:

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Bubbüje 

Bubbüje s.f. = Bua, ferita

Nel linguaggio infantile indica il dolore fisico, un’escoriazione, o una contusione.

Uuuh!, quedda fìgghje, c’jì fatte ‘a bubbüje! Tèh, tèh, dàlle mazzéte alla pòrte! = Uh, quella figlia si è fatta la bua! Tiè, tiè, colpisci lo stipite della porta che ha causato il dolore!

Insegnamento edificante sulla necessità di ricorrere alla vendetta: occhio per occhio, dente per dente.

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Bomméce 

Bomméce s.f. = Filo ritorto

Il termine bomméce può far pensare a bambagia. Invece si tratta di filo di cotone ritorto alla grossa.

Era venduto  a matasse di varie colorazioni, e veniva usato dalle magliaie per lavorarlo a macchina, e dalle nostre nonne per sferruzzare e ricavarne calzettoni.

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Bendèlle

Bendèlle s.f. = Metro a bindella

 

La bendèlle (da benda, striscia, nastro) è quella striscia di tela plastificata, segnata con tante tacche distanziate di un cm, lunga 20 m, avvolta a rotella in una custodia di cuoio, provvista di manovella per il richiamo.

Usata prevalentemente in edilizia per misurazioni manuali estese.

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Bascóglje

Bascóglje s.f. = Bilancia a bàscula

Bilancia per merci molto dotata di ampio piano di carico e sbarra graduata. Quella della foto è spostabile, ed ha una portata di massima 200 kg per pesata

In pratica, ha lo stesso principio fisico della stadera, solo che invece che per sollevamento, il peso viene determinato per gravità che sposta il piano di pesa in giù.
Mediante un sistema di leveraggio la merce posta sul piano fa sollevare il braccio oscillante graduato. Scorrendo il ‘romano’ a forma di botticella fino ad ottenerne l’equilibrio, si centra la tacca e si riscontra il peso.

Lo stesso accade con la “pesa” per gli autotreni (bilancia fissa a ponte modulare), detta erroneamente “bilico”

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Babbósce

Babbósce s.f. = Babbuccia, ciabatta

Pantofola morbida e leggera, chiusa anche nella parte posteriore. È una calzatura usata principalmente dalle donne e solo in casa. Per uscire ricorrono alle scarpe o agli stivali o ai sandali, a seconda della stagione.

Le babbósce chiuse, come da foto, vengono usate generalmente dalle persone anziane e solo d’inverno perché tengono caldi i piedi.
Quelle aperte, estive, si chiamano al maschile ‘i chjanjille = ciabatte o pianelle, perché senza alcun cenno di tacco.

Simpaticamente ‘u chjanjille era oggetto di lancio verso i frugoletti troppo vivaci e fuori dalla portata di un affettuoso ceffone educativo. Il bello era che dopo il lancio di una precisione incredibile, la montessoriana mammina pretendeva che il colpito le riportassero indietro la ciabatta usata come proiettile!

Il termine babbósce è ormai in declino. Esso deriva dall’arabo babush passato attraverso lo spagnolo babucha e il francese babouche.

Stranamente, con suono molto simile,  è un vocabolo usato anche in Romania (papuči), Croazia  (papuče), Serbia (папучa=papuča).

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Bèlla ‘ndeniške (La)

Bella ‘ndeniške (‘a) s.f. = La bella odalisca

Negli anni ’30 la Mira Lanza lanciò la prima campagna pubblicitaria in Italia per la raccolta delle figurine a punti. Raggiunto un certo punteggio si aveva diritto ad un premio. Insomma un ingegnoso sistema di fidelizzazione tuttora in auge.
In quegli anni la Liebig e la Perugina-Buitoni avevano anch’esse sponsorizzate le loro figurine. Tutti ricordano l’introvabile ” feroce Saladino” della Perugina (vedi figura a lato)

Tra le varie figurine circolanti ce n’era una intitolata “La Bella Odalisca”. Siccome la descrizione è stata riportata “a orecchio” senza sapere bene di chi si trattasse, il fatto stesso che indicava una “bella” il pensiero associa a “bella-ggiòvene” intendendo una procace ragazza di facile abbordaggio.

Non c’è una spiegazione più plausibile.

Quindi la “Bella odalisca” diventa in dialetto presumo prima “‘a bèll’adelìsche” e poi ‘A bèlla ‘ndeniške.

Era usata dalle nostre nonne in modo canzonatorio: Avì, mo vöne ‘a bèlla ‘ndenìške = Eccola, ora viene la donna irresistibile, la bella fatalona.

Un po’ come quando paragonava qualcuna che si atteggiava in modo eccessivo alla (clicca→)Regina Caitù.

Ringrazio Tonia Trimigno per l’imbeccata recepita da sua madre, la lettrice Angela la Torre che si è premurata addirittura di interpellare il poeta Franco Pinto, e Franco Zerulo per la chicca finale delle figurine Mira Lanza.

Questa è la dimostrazione lampante di come funziona questa pagina. Grazie alla collaborazione di tutti.

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