Tag: sostantivo maschile

Cambanére

Cambanére s.m. = Campanile

Torre che affianca o sovrasta una chiesa e che contiene nella parte più alta le campane. Nella foto d’epoca, il “nostro” speciale amato campanile dell’Orsini, uno dei pochi staccato dal corpo dell’edificio della chiesa.

Con questo termine una volta si designava anche la corata, a curatèlle di agnello o di capretto (trachea, cuore, polmoni, fegato), appesa con gancio all’interno delle macellerie in esposizione.

Era la carne dei poveri, con cui le nostre brave nonne preparavano un gustoso soffritto o dei piccoli deliziosi turcenjille.

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Calzatüre

Calzatüre s.m. = calzatoio

In italiano ottocentesco  era chiamato anche “corno” perché ricavato dall’appendice ossea dei bovini.

Si può chiamare anche cavezascarpe

Piccolo oggetto di metallo, o di plastica che aiuta ad indossare le scarpe, facilitando con un’azione a scivolo, l’alloggiamento del tallone all’interno di esse.

Quando ero giovinotto qlcu lo chiamava ‘u calzànde, ma forse era preso a prestito da altri dialetti che si sentivano durante il servizio militare, a contatto con gente di tutta Italia.

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Calüche 

Calüche s.m. = Caligine, nebbia, bruma.

È un termine prettamente marinaresco forse in disuso, soppiantato nel linguaggio corrente dal più snello nègghje, bisillabo comprensibile anche dalle popolazioni terricole (professionisti, artigiani, pastori, contadini, carrettieri, ecc.).

Probabilmente deriva dal tardo latino caligare = oscurarsi, annebbiarsi.

Provo a dedurre un’altra etimologia: ritengo che possa derivare da “calare”, nel senso che cala la visibilità. In italiano si dice anche: cala la nebbia.

Ecco la definizione di Wikipedia:
“La nebbia è il fenomeno meteorologico per il quale una nube si forma a contatto con il suolo. È costituita da goccioline di acqua liquida o cristalli di ghiaccio sospesi in aria. A causa della diffusione della luce solare da parte dell’acqua in sospensione la nebbia si manifesta come un alone biancastro che limita la visibilità degli oggetti”.

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Calefaténe 

Calefaténe (o calefatéres.m. = Calafato.

Il termine viene dall’arabo qualfat e qualafa

Operaio dei cantieri navali specializzato nel calafataggio, cioè nell’impermeabilizzazione dello scafo dei natanti.

Per calafatare si inseriva forzatamente della stoppa nella connessione del fasciame e si ricopriva con pece o catrame fuso.

L’eventuale minima infiltrazione faceva gonfiare la stoppa che così turava qualsiasi altro passaggio di acqua

Il termine calefaténe ha assunto una valenza negativa, perché il mestiere di per sé comporta un annerimento degli abiti da lavoro, e della faccia e delle mani dell’operaio.

Tutto ciò fa sembrare sporco l’operaio, anche se costui si lava accuratamente.

Vattì, assemìgghje a ‘nu calefaténe! (Va’ via, somigli ad un calafato!)

Si tratta anche di un soprannome

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Calecasse

Calecasse s.m. = Carcassa   (←clicca),  bomba pirotecnica.

Il termine “calecasse” deriva dal greco antico “Kalkòs” che significa “rumore secco, forte”.   

Anticamente nel sec. XVII era una bomba incendiaria di ghisa lanciata con obici e mortai anche da navi da guerra.

Il nome (francese carcasse, inglese carcass  (←clicca)  si è tramandato in dialetto di generazione in generazione fino ai nostri giorni col suo significato originario di bomba.    In lingua italiana ha assunto anche un altro significato di carcame, carogna di animale, intelaiatura, ossatura.

Ai giorni nostri in dialetto designa una potente bomba-carta lanciata durante lo spettacolo pirotecnico.

Nel finale di una serata di giochi pirotecnici l’artificiere, ‘u sparapjizze (←clicca)=  di solito lancia tre calecasse, a intervallo di circa dieci secondi l’uno dall’altro, di potenza crescente. L’ultima potentissima deflagrazione annuncia agli astanti che lo spettacolo pirotecnico ha avuto termine.

Per estensione calecasse significa una stoccata, una battuta con un secondo significato, noto solo agli interlocutori presenti.

Nnüh! Ho menéte ‘nu calecàsse! = Oooh! Ha lanciato una botta!

Ringrazio Sator (Salvatore Rinaldi) per la precisa consulenza balistica.
Ringrazio altresì il prof.Michele Ciliberti per avermi fornito l’etimologia di questo sostantivo.

Leggete i commenti e le varie congetture formulate fino a quando non è saltato fuori l’etimo giusto.

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Calecàgne 

Calecàgne s.m. = Calcagno, tallone

In anatomia così è detto l’osso più voluminoso del tarso. Comunemente e per estensione del termine, così viene identificata tutta la parte posteriore del piede.

M’ho muzzechéte ‘a scarpe e me döle tutte ‘u calecagne
 = Mi ha ferito la scarpa (stretta) e ora mi duole tutto il tallone.

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Lambasciöne

Lambasciöne s.m. = Muscaro

Pianta delle liliace (Muscaro comosum). I Botanici la chamano anche con il sinonimo Leopoldia comosum.

Lambasciöne (al plurale fa lambasciüne) probabilmente deriva dal tardo latino lambadionem.

In italiano si dovrebbe chiamare “Mùscaro” o “Cipollaccio selvatico”, ma ormai tutti lo conoscono con questo “nostro” nome regionale, entrato trionfalmente nel prestigioso Vocabolario Zingarelli.

Termine talora usato in modo spregiativo per indicare qlcn un po’ fessacchiotto. ‘Stu lambasciöne! = Questo sempliciotto!

Contesto vivacemente perché il “lampascione” ha un bulbo dalle proprietà straordinarie.

Molto apprezzato nella gastronomia pugliese, è ritenuto addirittura un potente afrodisiaco. I lambasciüne sono eccellenti lessati e conditi col olio e aceto, conservati sott’olio, fritti o in “tielle” con l’agnello o le verdure

Forse non tutti sanno che provoca anche dirompenti effetti indesiderati che…  sono nocivi per l’ambiente a causa degli abbondanti gas d’intestino. Roba da buco nell’ozono!

Nel Salento sono detti pampasciuni o in un italiano antico vampagioli. In Campania vampasciuolo.

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Calasciöne

Calasciöne s.m. = Calascione

Antico strumento musicale a corda, simile ad un liuto dal lungo manico e a tre sole corde, usato nel napoletano nel ‘700 assieme al mandolino.

Ma in dialetto, più che per indicare lo strumento, è usato questo sostantivo per descrivere, per indicare una persona goffa, un po’ allampanata.

Insomma è piaciuto il suono della parola (non dello strumento), un po’ come dire lambascione, o maccaröne, nel senso di fessachiotto.

Mò vöne Giuànne, assemegghje a ‘nu calasciöne = Ora arriva Giovanni. Sembra un spaventapasseri (non che il termine calasciöne significhi spaventapasseri, ma perché descrive la fugura allampanata e dinoccolata di Giovanni).

Ringrazio il lettore Salvatore Rinaldi per il suggerimento.

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Calèscìnne

Calèscìnne s.m. = Saliscendi

Sbarretta di ferro per chiudere porte e altri infissi, che si inserisce, mediante la rotazione della maniglia, nelle apposite feritoie o in apposite staffe. Si tratta di un termine tecnico, come (clicca →) zeremìnghe.

Credo che il termine derivi da calé e scènne = calare e scendere, e si dovrebbe dire “chéle-e-scìnne”. Io l’ho sentito proprio da un falegname pronunciata nel modo con cui l’ho riportato.

È chiamato generalmente anche ‘u ferrètte, almeno quello più semplice, con pomello, che si aziona a mano, senza maniglia, facendo scorrere l’asta, sia quella verso l’alto, sia quella verso il basso.

Con lo stesso termine calescìnne si designava un antico sistema per abbassare, secondo necessità, il lampadario a sospensione.
Il cavo elettrico passava, con un ingegnoso sistema di pulegge, attraverso un contrappeso che consentiva di calare il piatto luce all’altezza voluta.

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Zeremìnghe

Zeremìnghe s.m. = Chiavistello

È accettata anche la forma zeremìcchje.

Si tratta di un’asta metallica scorrevole, fissata verticalmente dietro l’anta di una porta, in modo che possa essere manovrata dall’interno.

In alto il chiavistello termina con un gancio piegato di 90° rispetto all’asse scorrevole.

Detto gancio, manovrato dal basso, si solleva e ruotando sul suo asse si inserisce in un occhiello piantato al soffitto in modo da tenere l’infisso nella posizione voluta (tutto aperto o tutto chiuso).

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