Collocarsi in postazione strategica, in un posto di osservazione per spiare, sorvegliare, tallonare qlcu.
Me sò mìsse au ‘mbùste pe ‘ntuppàrle a tutte e düje = Mi sono messo in postazione per sorprenderli tutti e due.
Deriva dal verbo pustjé = appostarsi, mettersi a far la posta, nascondersi per spiare, per un agguato.
Esiste la locuzione sté ‘mbustéte = essere appostato, appostarsi.
Alla lettera significa: mandare qlcu a comprare il prezzemolo. Ossia, non propriamente mandare una persona a quel paese, ma figuratamente e con eleganza – non ritenendola idonea, degna, meritevole – classificarla una nullità, come un infante cui non si può affidare un incarico impegnativo.
La pittoresca locuzione si pronunciava in risposta, ad esempio, a chi chiedeva se davvero una ragazza avsse ricevuto profferte d’amore da un giovinotto, non ritenuto proprio il principe azzurro:
E che fazze? ‘U manne accatté ‘u petrusüne? = Che me ne faccio di un soggetto così?
Come per dire: non è il mio tipo, non mi piace, non sento attrazione vero costui, non mi è simpatico, è ancora un ragazzino, può fare solo il garzone di bottega, andasse a proporsi a qualcun’altra, ecc..
Mangiàrece ‘u péne tùsteloc.id. = Fare esperienza, pratica, tirocinio.
Ce n’uà mangé de péne tùste! Ecco una bella locuzione idiomatica per additare un pivello che vuole atteggiarsi a matacöne, scafato, scaltro, esperto.
La locuzione, alla lettera, significa: se ne deve mangiare di pane duro.
Insomma, mangiàrece ‘u pene tùste, figuratamente, significa: ne deve passare di tempo per fare esperienza, di vita e di lavoro per arrivare ad un buon grado di conoscenza del proprio mestiere.
Dovranno passare anni e anni prima di essere all’altezza di questa situazione. Il soggetto additato dovrà nutrirsi di pane e stenti, e poi forse potrà parlare con cognizioni di causa.
Quando una volta il pane si faceva in casa, doveva durare minimo una settimana, e perciò – dal momento della sfornatura – ogni successivo giorno diventava sempre più duro e bisognava mangiarlo così fino alla prossima panificazione. Si mangiava praticamente pane duro quasi tutti i giorni.
A proposito di pane duro, mi è stato raccontato che quando arrivava il pane fresco, un papà accorto lo chiudeva a chiave nello “stipone”, e non lo faceva mettere a tavola fintantoché non fosse terminato quello della settimana precedente.
Ho chiesto incuriosito la ragione, oggi incomprensibile, di questo severo atteggiamento paterno. Ebbene la risposta è stata sorprendente: quando è fresco si consuma in quantità maggiori rispetto alla quota giornaliera prefissata, e perciò la provvista di farina si sarebbe esaurita anzitempo.
Il pane è sacro. Se sbadatamente ne facevo cadere un pezzo sul pavimento, mia madre mi obbligava a raccoglierlo e a baciarlo prima di mangiarlo.
Questo è un detto liberatorio e di ammirazione e di gratitudine verso qlcu che merita ogni lode per il suo atteggiamento favorevole o per la sua disponibilità.
Si usa dire anche quando si è ricevuto un dono, una raccomandazione, un consiglio, ecc. molto gradito.
Usato anche riferito ai soldi spesi bene per l’acquisto di qlcs di veramente utile e di cui si è pienamentre soddisfatti, come ad esempio scarpe comode, busto ortopedico, climatizzatore efficiente, ecc.
Ròbbe de pröta pòmece e fjirre de cavezètte Loc.id. = Roba di scarso pregio, fasulla,
Alla lettera: roba di pietra pomice e ferri da calza.
Materiale di scarso pregio, o inadatto.
Credo che si riferisca anche ad un lavoro fatto male.
Invece di usare pietrisco di varie pezzature (gli ingegneri parlano di Curva granulometrica di Fuller) per l’impasto del calcestruzzo si è adoperata la pietra pomice, porosa e friabile.
Così pure, al posto del tondino di ferro nervato dal diametro di mm 8 o maggiore, nel pilastro si sono inseriti ferri lisci e sottili come quelli usati per i lavori a maglia.
Insomma con i materiali scadenti non si possono ottenere buoni risultati.
La locuzione vale per cose, azioni ma anche persone, approssimative e scadenti e perciostesso inaffidabili.
Figuratamente indica la valutazione di un fatto insignificante o di un’opera, magari tanto decantata, ma rivelatasi di scarso pregio.
Pigghjé ìi pìsce trjimete loc.id.= Esporsi al freddo.
Un simpatico Detto, che tradotto alla lettera, significa: prendere (pescare) le torpedini.
Il vero significato è quello di esporsi al freddo (pigghjàrece ‘na friddjéte), uscire di casa nonostante il tempo gelido, rinunciare al calduccio per dedicarsi a cose ritenute futili.
Che c’entrano le torpedini? Si sa che questo pesce per contatto dà delle scariche elettriche per tramortire le sue prede. Anche l’uomo, toccandoli, avverte come un tremito (da cui il nome dialettale trjimete).
Add’jì ca jéte? Pe ‘su tjimbe jéte a pigghjé ‘i pìsce trjimete! = Ma dove andate? Con questo tempaccio andrete a buscarvi un’infreddatura!
Jogge jéte a vedì ‘a partüte? Sì, avüta pigghjé ‘i pìsce trjimete = Oggi andate allo stadio? Sì avrete da soffrire per la temperatura gelida.
Per estensione può significare anche tremare per lo spavento o per una sgradevole sorpresa. Insomma una sensazione per nulla piacevole.
Fé ‘ndröte ‘ndröte accüme ‘i funére loc.id. = Regredire
Procedere all’indietro, come fanno i cordai = indietreggiare anziché avanzare.
È un modo di dire locale per indicare o constatare che le cose non vanno bene.
Ossia invece di progredire, com’è aspirazione di tutti (salute, benessere economico, ecc.), si va all’indietro, proprio come fa il fabbricante di funi nell’espletamento del suo lavoro.
Au poste di jì ‘nanze, faciüme ‘ndröte ‘ndröte accüme ‘i funére = Invece di fare progresso, andiamo all’indietro, come fanno i funére = cordai.
In italiano si dice “fare come i gamberi”, andare all’indietro, quindi peggiorare, regredire in generale.
Accunté ‘a storje ‘u Cecerètte loc.id. = Raccontare le peripezie di Ceceretto.
Accunté ‘a storje d’u Cecerètte viene citato come modo di dire.
Significa raccontare per filo e per segno una lunga vicenda fin dal principio, e ricca di particolari a qualcuno che magari non le vuole nemmeno ascoltare.
Jì venüte m’ho cuntéte tutte la storje d’u Cecerètte. Nen la fenöve cchió! = E’ venuto e mi ha raccontato tutte le sue peripezie. Non la smetteva più!
Vüje nen sapüte tutte ‘i fàtte: mo’ ve l’accònde jüje tutt’a storje ‘u Cecerètte! = Voi non conoscete completamente come si sono svolti i fatti: ora vi racconto io tutta la vicenda dettagliatamente, così come si è svolta.
Cecerètte chi era costui? Era il protagonista di una interminabile e ingarbugliata fiaba per bambini.
Non la ricordo più nemmeno io, che per le cose della mia infanzia ho il buzzo buono, perché mi addormentavo sempre prima della fine…
In mio soccorso è intervenuta la lettrice MariaPia – che ringrazio di cuore – narrandomi la lunga storia di Cecerètte:
«Era una filastrocca montanara, me la raccontava mia nonna,che era originaria di Monte Sant’Angelo.
In poche parole un uomo, povero, aveva solo un cece per mangiare (il ciceretto ) e, dovendo andare a Messa, non voleva portarselo per paura che glielo rubassero; così lo volle lasciare ad una donna, che lo rassicurò del fatto che, al ritorno dalla messa, glielo avrebbe restituito.
Senonché, quando l’uomo fa per riprendersi il ciceretto, la donna, tutta addolorata, gli confessa che il suo gallo aveva trovato il ciceretto e l’aveva mangiato. L’uomo, annusato l’affare, chiede alla donna: “o mi dai il ciceretto, o mi dai il tuo galletto!” (detto a mò di cantilena); la donna alla fine gli dà il galletto per scusarsi e l’uomo va via.
L’uomo si fa furbo e continua la storia, lasciando il galletto da un’altra donna con la scusa della Messa, ne ricava un maialetto, che aveva ucciso a pedate il galletto. Lascia il maialetto e ricava una mucca che aveva preso a cornate il maialetto; lascia la mucca a casa di due poveri coniugi con le figlie malate (erano solo affamate), che tagliano due fette di carne dalla zampa della mucca (viva!). Quando l’uomo fa per riprendersi la mucca,si accorge che zoppica. Torna dalla famiglia e chiede o la mucca indietro o una delle figlie. Dopo un po’ di battibecchi, il padre acconsente allo scambio, ma propone di mettere la figlia in un sacco, perché altrimenti non sarebbe mai andata di sua volontà. L’uomo è d’accordo e così si prende questo sacco. Mentre se ne va, contento degli affari della giornata, il sacco inizia a muoversi sempre più forte, costringendo l’uomo a fermarsi e ad aprirlo. Appena aperto, salta fuori un cagnaccio che gli strappa via il naso a morsi e scappa via. L’uomo lo rincorre e propone uno scambio: ”tè,tè pane e caso (cacio) e dammi il mio naso!”…»
Epiteto spregiativo che definisce colui che approfitta dalla fiducia altrui.
Quando in una bottega artigianale i lavoranti ricevevano una mancia, ponevano il denaro raccolto in comune e poi, successivamente lo dividevano in parti uguali a fine settimana.
Capitava spesso che qualche furbo si portava via una parte del malloppo..Ecco perché si definiva mangiajòrze, colui che mangiava anche la parte altrui.
Mangé péne e curtjilleloc. id. = Mangiare solo pane
Una locuzione fantasiosa per dire che si vive in ristrettezze.
È un parlare figurato. Quando non si ha nemmeno il companatico, si taglia una fetta di pane a bocconcini e lo si gusta un pezzo per volta, masticandolo a lungo e sperando che riesca a calmare la fame.
Ho sentito racconto di prigionieri di guerra perennemente affamati, nutriti quel tanto per non farli morire di inedia. La fame è una brutta bestia. Noi che badiamo alle diete non abbiamo nemmeno l’idea di che cosa significhi patire la fame.
Ringrazio la Redazione di GreenVision Production per il suggerimento.