Tag: sostantivo femminile

Vèsce

Vèsce s.f. = Teredine

Con il nome di “Vèsce” (o vèscje) in marineria si indicano le Teredini (Teredo navalis), dette dai pescatori manfredoniani anche “mange-e-chéche” = mangia e caca, tutto un programma.
 
Dal nome di questa insaziabile creatura che attacca anche il legno delle imbarcazioni, per similitudine, si è passati a definire la voracità di certe persone ingorde.
 
Il legno attraversato dalle gallerie causate dalle Teredini dicesi “vescéte” [pronunciato con doppia “sc” (come pescéte)] perde qualsiasi consistenza e può essere frantumato come un biscotto con la pressione di una sola mano.
 
Leggo in rete:
«Le Teredini, uno degli organismi xilofagi (voraci mangiatori di legno) che vivono e proliferano nelle acque salmastre, rosicchiavano le palificate degli antichi porti che costituivano sostegno dei moli e delle bocche di porto. Stessa sorte toccava al fasciame delle imbarcazioni, traforate in breve tempo dai molluschi. Le teredini eleggono come loro habitat naturale i legni infissi o galleggianti in acque salmastre portuali, li erodono dall’interno nutrendosi della fibra legnosa formando una cannula calcarea interna al legno dove alloggiano. In poco tempo sono in grado di distruggere le caratteristiche dei maggiori legni conosciuti.»

Oh! Tjine ‘sta sorte de vèsce! = Ehi!, Hai questa insaziabile voracità!

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Vesazze

Vesazze s.f. =Bisaccia

Sacche accoppiate di stoffa pesante o di cuoio, di identica capacità e opposte, che i viaggiatori si mettevano sulla spalla o sulla groppa della cavalcatura.

Usata anche dai frati questuanti (i mùnece cercatöre) per raccogliere vettovaglie per la loro comunità.

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Verzèlle

Verzèlle s.f. = Vergella, verghetta

Deriva da verga, al vezzeggiativo vergella = verzèlle.

In metallurgia si intende il semilavorato di ferro “dolce”, laminato a caldo, a sezione piatta o rotonda, usato per fabbricare ringhiere, staffe, stipiti ecc.

Ferro dolce significa che ha basso contenuto di carbonio, e perciò lavorabile anche a freddo. Il ferro duro è l’acciaio lavorabile dopo forgiatura a caldo. La ghisa non è forgiabile e si usa dopo averne ottenuto le forme per colatura dalla fusione.

Ho sentito mio padre fabbro che la chiamava verzellüne = vergellina. Evidentemente di dimensioni minori. Quella che ricordo io, ‘a verzèlle, era di larghezza di cm 5, e di spessore di cm 0,5 ed è tuttora usata per i corrimano delle balconate e delle ringhiere.

‘A verzellüne larga cm 2 e spessa cm 0,3 cm. è usata per le decorazioni arricciate del ferro battuto, ad es. come tante “C” affiancate e sovrapposte in una intelaiatura, quale finestra per separare due ambienti.

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Versüre

Versüre s.f. = Versura

Unità di misura di superficie agraria, in uso nell’Italia meridionale fino al 1860, con valore diverso da luogo a luogo, il più diffuso è di 123,45 are, ossia di 1,2345 ettari, pari a 12345 mq.

Per trasformare la versura in ha (ettaro) dividere per 0,81004. Per il contrario, moltiplicare l’ettaro (ha) per 0,81004 e si ottiene la versura.

Sottomultiplo: il tomolo (1/4 di versura)

Con l’unificazione dell’Italia fu adottato in tutto il Regno il sistema metrico decimale, ma in agricoltura praticamente era adoperato solo negli Atti notarili di compravendita o di successione e nelle scritture del Catasto: i coltivatori ancora per un secolo hanno continuato a intendersi sulla base delle antiche misure.

Per indicare una persona dotata di intelligenza e cultura, si diceva che costui aveva quàtte versüre de cervjille = quasi cinque ettari di cervello. Come se il sapere e l’intelligenza si potessero misurare come un terreno seminativo.

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Verdèsche

Verdèsche s.f. = Ghiozzo testagialla

Si tratta di un pesce di mare dalle dimensioni fino ad un max di 12 cm, della categoria pìsce de prote = pesci di “pietra” (di scoglio), della stessa famiglia dei “Gobiidei”, ossia dei “cuggioni”e dei “maccaroni“.
Questi pesci vivovno su fondali fino a 15 m. o fra le praterie della Posidonia oceanica.

Il nome dialettale si riferisce al loro colore vivace, giallastro tendente al verde.
Linneo, il grande botanico naturalista, gli attribuì il nome scientifico Gobius xanthocephalus che significa proprio “ghiozzo dalla gialla testa”.

Fra i pesci “di pietra” – ossia di scoglio – va annoverata anche la “landrosa” e la vavosa o bavosa.

Viene catturata con la lenza dai pescatori dilettanti. Difficile trovarla sulle bancarelle dei mercati. Carni squisite in umido.

Per curiosità in lingua italiana per verdesca si intende uno squaletto venduto a tranci e spacciato per pesce-spada, di cui è meno pregiato.

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Vènghe

Vènghe s.f. = Campana

Questa campana non è quella che suona per invitare i fedeli alla Funzione religiosa…

È il gioco infantile che consiste nell’avanzare, saltellando su un piede solo uno schema disegnato per terra.

Nelle altre parti d’Italia è una specie di scacchiera. Quella giocata a Manfredonia era formata da cinque linee rette parallele, e da una linea ad arco tracciata come una lunetta. Negli spazi fra le due linee si scrivevano le cifre da 1 a 5, e nel semicerchio terminale il numero 6.

Per tracciare la vènghe sul marciapiede si usava un pezzetto di carbone della fornacella di mamma, ma andava bene anche un mozzicone di gessetto sottratto alla scuola.

Si lanciava un tacco di gomma – detto ‘u salva-tàcche o ‘u söpa-tacche – staccato da qualche vecchia scarpa destinata alla spazzatura, ma sarebbe andato bene anche un sasso piatto, nella “casa”, cominciando dalla casella più vicina al lanciatore (prima la n.1 poi la 2 la 3 ecc.).

Dopo aver raggiunto la meta n. 6, si faceva il percorso a ritroso (5, 4, 3, ecc.). Se l’oggetto lanciato si arrestava sulla linea divisoria, il gioco passava di mano all’altro contendente.

Chi percorreva tutto il tragitto senza commettere errori aveva diritto a “comprare la casa”, scegliendo la casella con il lancio del salva-tacco dietro le sue spalle.

La casa acquistata non poteva essere più toccata dall’antagonista, costretto letteralmente a scavalcarla , ma solo dal proprietario. Il problema sorgeva quando le case acquistate erano contigue.

Si giocava promiscuamente, maschietti e femminucce perché era un gioco tranquillo, durevole ed avvincente.

Juché alla vènghe = Giocare alla campana

Il gioco della campana è documentato fin dai tempi dell’antica Roma allorché era chiamato gioco del “claudus”, cioè dello zoppo. Uno schema di campana è tuttora presente sul lastricato del foro romano a Roma.

La vènghe indicava anche il tracciato circolare che delimitava l’area di gioco della trottola di legno, detta (clicca→) ‘u córle.

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Vavöse

Vavöse s.f. = Bavosa

Pesce di scoglio della fam. dei Perciformi (Blennius trigloides/Lipophrys trigloides ) che vive in fondali bassi. Lunghezza max cm 18. Corpo striato, carni sode.

Viene raggruppato, assieme ad altri pesci, in un generico pìsce de pröte = Pesci di pietra, ossia pesci che vivono su fondali rocciosi.
Da Wikipedia ho appreso che questo pesciolino riesce a  vivere fuori dal mare anche per alcune ore.

Esiste il sinonimo landröse (←clicca) forse più antico per indicare lo stesso pesciolino.

Dal nome del pesce si è passato ai soprannomi: Vavüse e Vavusöne

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Vàrde

Vàrde s.f. = Basto

Specie di sella, grossa di cuoio e legno, per asini e muli, che serve per caricarvi la soma (sacchi, legna, ceste e altro).

Varda vecchje = per similitudine è così chiamato un grosso oggetto in disuso, inefficiente, polveroso, che dà intralcio.  Forse per il fatto che venisse usata raramente, il basto rimaneva lungamente in un angolo della stalla a prendere polvere.

Jettàtale ‘sta varda vecchje = Buttatela questa robaccia.

Anche riferito a persona distesa sulla sabbia, sul divano, ecc. da lungo tempo e non dà segni di volersi rialzare.

Jàvezete da llà, c’assemìgghje a ‘na varda vècchje
 = Alzati da lì, ché sembri un basto logoro.

Termine che deriva dall’arabo bardaah. (بردى) che indica una specie di sella senza arcioni.

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Vanne

Vanne s.f. = Parte, lato, luogo, sito, posto

Posto, località, luogo, zona.

In letteratura (e tuttora anche nel Salento) è stato usato il termine “banda” nel significato di parte, lato: es. la folla arrivava da ogni banda. Etimo albanese Banda, Benda, Bendi.

Credo che da questo termine derivi il nostro vanne.

Add’jì ca vé? A nescjüna vanne = Dove vai? In nessun posto.

A quala vanne ha viste fé acchessì? = Dove (in quale posto) hai visto fare così? = Non comportarti più in questo modo riprovevole.

Se a ‘na vanne nen sì stéte ‘nvetéte ne t’appresentanne = Se in qualche luogo non sei invitato non ti presentare.

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Vandöre

Vandöre s.f. = Grembiule

Grembiule di tela grossa e a volta addirittura di cuoio come quello dei fabbri, usato dagli artigiani per proteggere i loro abiti da lavoro da bruciature o da vernice, o da colla, ecc.

Credo che derivi da “avanti” o “che si pone sul davanti”.

Il grembiule (che copre il grembo), usato tuttora dalla brave massaie, è di tela non troppo grossa, ed è chiamato con forma maschile ´u senéle, che protegge il seno o che si mette ´nzüne, addosso.

Quando una ragazza –  della quale le pettegole conoscevano le precorse  “battaglie” –   andava all’altare vestita di bianco, mascherando una perduta illibatezza, le malelingue dicevano che “n’ho fatte cjinde e jüne e mo ce mètte  ‘a vandöra bbianghe” = Ne ha combinate tante, ed ora si mette il grembiule bianco (ma noi sappiamo….).

Ora nessuno ci fa caso se la sposa ha il pancione sotto l’abito bianco..

 

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