Tag: sostantivo femminile

Pèttele

Pèttele s.f. = Pèttola, frittella

Il nome “pettola” è la versione italianizzata del sostantivo albanese petullat,  passato a noi dai numerosi centri arbëreshë del Sud Italia (Casalvecchio di Puglia, Chieuti, Barile, Ginestra, Maschito, Ururi, San Costantino Albanese, Frascineto, Carfizzi, Pallagorio, Piana degli Albanesi, ecc.)

Si tratta di una frittella di pasta morbida di pane, ben lievitata, cotta in abbondante olio d’oliva. Risulta croccante all’esterno e morbida all’interno.

Qualche massaia incorporava nella pasta, prima di friggerla, dei filetti di alici salate o di baccalà spugnato. Le mamme più abbienti addirittura vi ponevano dei chicchi di uva passa.   Ora sono vendute già pronte nei panifici,  ma solo nella versione base.

Se dopo qualche giorno, le rimanenti pettole si indurivano, bastava riscaldarle, avvicinandole in punta di forchetta, al fuoco del braciere per farle ammorbidire.

Proverbio: I pèttele ca nen ce màngene a Natéle, nen ce màngene ‘chió = Le pettole che non si mangiano a Natale non si mangiano più.    Ossia afferra l’attimo, il giorno (Carpe Diem in versione manfredoniana).

Talvolta viene usato il termine pèttele per designare la (clicca→) pechèsce

Filed under: PTagged with:

Petìscene

Petìscene s.f.= Empietìgine

Malattia della pelle, caratterizzata da sfaldamenti e chiazze.

Petìscene erano chiamate anche quelle chiazze che restavano sulla pelle quando era guarita la scabbia.

Per estensione si definiva “petìscene” anche l’attaccatura di due pagnotte di pane infornate affiancate.

Lievitavano per effetto del calore, si dilatavano e si “attaccavano”. Quando il fornaio a fine cottura le separava, le due panelle presentavano una crosta molto più sottile. Talora restava una crosticina staccata, ottima perché croccante.

Filed under: PTagged with:

Petècchje

Petècchje s.f. = Concia

Ho indicato ‘concia’ come traduzione. Avrei fatto meglio (forse) s designare  “tintura”. Altri intendono, per una simpatica sineddoche (una parte per il tutto)  il solo pentolone usato per tale procedura.

Si tratta di un’operazione che i pescatori facevano alle loro reti, all’epoca costituite da fibre di canapa o di cotone, cioè di materiali del tutto naturali, prima che fossero inventate le  immarcescibili (che bèlla paröle!) fibre artificiali, ossia il rayon e il nylon. Ora non si fa più.

Consisteva nella bollitura delle reti in acqua dolce con corteccia di pino. Il trattamento tannico serviva principalmente per renderle più resistenti  e anche di colore rossiccio scuro, in modo che fossero mimetizzate alla vista dei pesci.

L’operazione si svolgeva generalmente all’aperto, su un’area alla sinistra di Cala Diomede scendendo le scale del Pertüse ‘u Mòneche.

Durante la bollitura dal pentolone si sprigionava un profumo che si spandeva per tutta la marina. Ai terricoli sembrava puzza… ma alla gente di mare era familiare e gradito, come lo è il profumo naturale dell’olio fresco o del mosto.

Figuratevi che un mio caro amico, figlio di pescatori, usava solo un particolare tipo di tè perché gli ricordava l’aroma della petècchje!

Ringrazio Gino Talamo per il suggerimento.

Filed under: PTagged with:

Pesciüne

Pesciüne s.f. = Cisterna

Sarebbe stato preferibile scrivere pešüne, perché si pronuncia allo stesso modo, ma non voglio fare il linguista cattedratico e pedante: va bene così com’è.

Contrariamente al significato dell’italiano “piscina”, cui assomiglia, il nostro termine non designa quella grande vasca che, riempita d’acqua, è usata per nuotare.

Nella nostra “Puglia sitibonda”, allanghéte, indicava un locale sotterraneo adibito ad accumulo di acqua piovana, che raccoglieva mediante un sistema di incanalatura, la pioggia che cadeva sui tetti delle abitazioni.

Dopo un breve periodo di decantazione, necessario al fine di far depositare sul fondo della cisterna le parti polverose, le cacche dei volatili, ecc. trascinate dalla pioggia, l’acqua veniva attinta col il secchio attraverso una porticina posta sulla parete esterna dell’edificio per uso potabile e domestico.

Ovviamente il tifo era endemico in tutta la popolazione, e falciava i soggetti più deboli che necessariamente usavano quell’acqua per dissetarsi.

Il fango depositato sul fondo periodicamente veniva tolto, un secchio alla volta, da una persona che vi scendeva con la vanga e un’altra che lo issava per buttarlo per strada, naturalmente. La cisterna alla fine veniva lavata e disinfettata con grassello di calce, in attesa delle piogge benefiche.

Filed under: PTagged with:

Pesciàcchje

Pesciàcchje s.f. = Urina

Accettabile anche la forma pisciacchje.

Sentite che cosa dice il prof. De Mauro: “prodotto finale dell’escrezione renale costituente la principale via di eliminazione dei rifiuti provenienti dal metabolismo endogeno, che si presenta normalmente come un liquido di colore giallognolo a reazione acida, che contiene elementi inorganici, come sodio, potassio, calcio, fosforo, ecc., e organici, come urea, ammoniaca, amminoacidi, ecc.”

Mamma mia! non immaginavo che con la minzione si potessero espellere tutte queste sostanze!

Adesso i bambini ben educati dicono: pipì…

Tandabbèlle tutte jìnd’a ‘na paröle: pesciacchje! = Tanto semplice esprimere tutto con una sola parola: pipì.

Le persone anziane usavano il termine pisciacchje per indicare l’ammoniaca in polvere per dolci, a causa del suo  odore penetrante che fortunatamente scompare con la cottura.

Pisciacchje era anche un soprannome in uso fino alla prima metà del secolo scorso, affibbiato ad un operaio che abitualmente mingeva dall’alto della tufara, senza mai accertarsi se al livello inferiore ci fossero altri colleghi intenti all’estrazione dei conci di tufo.

Filed under: PTagged with:

Pertöse

Pertöse s.f. = Asola

Significa principalmete asola, occhiello, o altra piccola apertura dove si può infilare un bottone, un orecchino, o qualsiasi altra cosa.

Deriva da pertüse = “pertugio”

Filed under: PTagged with:

Perchjàcche

Questa pianta commestibile appartiene alla famiglia delle Portulaceæ (Portulaca oleracea) si dava ai porci mescolata ad altri alimenti nel pastone di svezzamento, nel Medioevo era chiamata erba porcaccia o porcacchia.

Nelle regioni italiane è conosciuta con nomi diversi. Soltanto per citarne alcuni:   porcellana o erba grassa in Lombardia;    porcacchia nel Lazio e nelle Marche;   precacchia in Abruzzo;   pucchiacchella in Campania.   Da noi viene chiamata anche precchjàzze.

E’ un’erba infestante, comunissima. La si ritrova negli orti, vicino alle macerie, lungo le strade e i sentieri delle regioni calde. Fiorisce in estate fino alla fine dell’autunno.

È ritenuta popolarmente come antielmintica (che distrugge i parassiti intestinali), depurativa, diuretica. Può essere usata cruda in insalata, sola o insieme alla rucola o ai pomodori, oppure cotta per preparare frittate o nelle minestre.

I rametti più carnosi si possono tagliare a pezzetti e, messi sotto aceto, consumati al pari dei capperi.

Il termine perchjàcche anche sinonimo di pecciöne nel senso di apparato genitale femminile.

Perciò la domanda sorge spontanea:

Cum’jì ca quest’èreve ce chjéme ”a perchjàcche?” = Perché quest’erba si chiama così?

La risposta è lapalissiana:
Pecché jì saprüte! = Perché è gustosa!!!

Filed under: PTagged with:

Pendüre

Pendüre s.f. = Polmonite

Infiammazione che colpisce i polmoni e comporta febbre alta, dolori nella zona toracica, dispnea, tosse, espettorato.

Fino all’avvento della penicillina la malattia purtroppo dava scarse possibilità di sopravvivenza, specie se era localizzata a entrambi i polmoni.

Ne soffrivano particolarmente i fabbri, i fornai e i fornaciai per le esalazioni del carbone, e per gli sbalzi di temperatura dovuti al contatto con fonti di calore.

Pendüra ‘ngascéte = Broncopolmonite. Aggravante della polmonite.

L’aggettivo ‘ngcascéte = incassata, chiusa (nella cassa toracica), dava l’idea che la pendüre non poteva “aprirsi”, nel senso che la gravità della malattia non permetteva più di espettorare i muchi accumulati all’interno dei bronchi e dei polmoni e che perciò causava una insufficienza respiratoria molto spesso letale.

Filed under: PTagged with:

Pelöse

Pelöse s.f. = Favollo

Si tratta di una specie di granchio più grande e robusto di quelli descritti alla voce “ràngeche”

Favollo (Eriphia verrucosa) appartiene alla famiglia delle Xanthidae. Si riconosce facilmente per le dimensioni, la forma robusta con le chele asimmetriche.

È particolare la dentellatura fine e frastagliata del bordo anteriore del carapace.

Viene catturato perché faccia da esca, legato vivo ad una pertica, per stanare i polpi in modo che il cacciatore possa arpionarli.

E pensare che per stanare la pelosa c’è voluto un pezzo di polpo!

Era noto un certo “Frìsche-Pàvele ‘i pelöse”, (Francesco-Paolo “le pelose”), un anziano ex pescatore che d’estate si aggirava per le scogliere dedicandosi alla cattura delle “pelose”. Ricordo anche che d’estate sotto il Castello di fronte allo Stabilimento di Titta c’era una persona che le vendeva ai bagnanti, già lessate e allineate sopra un piatto bianco.

A Vasto sono chiamati al maschile: i pelosi con cui condiscono, cotti nel sughetto di pomodorini, un tipo di pasta fatta in casa.

Filed under: PTagged with:

Pelòsce

Pelòsce s.f. = Pene fanciullesco

Uno dei tanti modi fanciulleschi di chiamare (con nome femminile) il pene dei maschietti. Ho già ricordato la cicjille, la cillòtte, la vucjille..

Stranamente l’apparato delle femminucce era chiamato con un termine maschile: ‘U pecciöne, ‘u cianne, ‘u pelósce, come la stoffa dal pelo lungo che in francese si dice pelouche.

Misteri linguistici!

Pelósce, al maschile, significa anche piumino da cipria

Filed under: PTagged with: