Tag: sostantivo femminile

Feleppüne

Feleppüne s.f. = Vento freddo, Spiffero

Non è un’abitante delle Filippine, né il diminutivo di Filippo/a….
Si tratta di un vento secco di tramontana o più semplicemente di uno spiffero freddo e pungente, che provoca una sgradevole sensazione di gelo tra capo e collo.

Sono certo che quasi tutti i dialetti del Sud Italia usino questo termine.
Non so se il nome ha origine dalle Isole Filippine, ove soffiano gli impetuosi Monsoni.
Il termine, a prescindere da questo, è molto simpatico.

Qualcuno asserisce che si tratti di un prestito Lucano.  A Tursi (comune collinare della provincia di Matera, patria del grande poeta Albino Pierro)
con riferimento al vento particolarmente pungente che spira colà dal rione della Chiesa di San Filippo Neri, il punto più alto della cittadina, sia stato coniato  il termine fələppinə. 

Ahó! Chiudüte quedda pòrte, ca möne ‘na feleppüne! = Ehi, chiudete quell’uscio, ché arriva uno spiffero!

Il verbo soffiare, spirare, come azione del vento si traduce con vutté = spingere (vòtte ‘u vjinde) o mené = colpire, lanciare, scagliare (möne ‘u vjinde).

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Felafanghe

Felafànghe s.f. = Moltitudine

Gran numero di persone, o anche animali, e cose, radunate o allineate.

Ossia una gran folla, una massa di gente, un gregge di pecore, ecc.

Presumo, ma forse sbaglio, che felafanghe – a volte pronunciata falafanghe fülafande – derivi da “fila lunga”, come dei soldati, dei fanti che marciano allineati, o una processione che procede lentamente. La storpiatura è fisiologica quando un termine non è usato con molta frequenza.

Ajire söre stöve ‘na felafanghe de crestjéne abbascia mére a vedì ‘i fùche = Ieri sera c’era una gran ressa di persone sul lungomare a guardare i fuochi pirotecnici.

Sté ‘na felafanghe de uagnüne abbasce ‘u càmbe a vedì ‘a partüte = C’è una massa di ragazzini allo stadio a vedere la partita (di calcio).

Da noi lo stadio (l’odierno “Miramare”, una volta chiamato “Fossa dei Leoni”) è in posizione più bassa rispetto all’abitato, e perciò si dice “abbàsce ‘u cambe” = giù al campo (sportivo).

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Fazzatöre 

Fazzatöre s.f. = Madia.

E’ una specie di cassa come un grosso tiretto di comò, con o senza coperchio, nella quale si impastava il pane, si lasciava a lievitare.  Una volta cotto il pane veniva riposto nel ripiano inferiore, generalmente chiuso da due ante, o nella parte superiore se provvista di coperchio a ribalta, come nella foto.

Il termine è usato nel Sud Italia, dall’Abruzzo alla Sicilia. Presumibilmente è di origine latina ed ha a che fare con il verbo fàcere = fare.

Sto rimuginando…mumble…mumble

Mi convinco sempre più che derivi dal verbo latino fàcere = fare.
In italiano un po’ ottocentesco esiste il sostantivo Facitore = che fa, che produce, che opera, che lavora.
Insomma una persona davanti a questo mobile fa qualcosa: impasta, lavora la massa, la copre, la fa riposare perché lieviti, la mozza per farne pagnotte…..

Sì, sì, face, ossia che fa qualcosa.
Facitore prevede anche il femminile facitora. Ecco, ci siamo. Facitora = fazzatöre
Esiste anche il femminile facitrice…sono verbi desueti, come è desueta la madia: nessuno più fa il pane in casa, a colpi di 10 o più kg di farina per volta.

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Fàvece

Fàvece s.f. = Falce

Attrezzo agricolo con manico di legno e lama affilata e ricurva per tagliare gli steli delle piante erbacee.

Metaforicamente tenì ‘na fàvece non significa possedere una falce ma un formidabile appetito, che fa piazza pulita di ciò che si mette sul desco, come fa la falce nel prato.

L’accrescitivo faveciöne designa la falce con manico a stelo e dalla lama lunga e leggermente arcuata, detta in italiano falce fienaia.

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Fatüje

Fatüje s.f. = Lavoro

Il termine, per affinità al duro dei campi, si confonde con la parola italiana fatica.
Lavoro si identifica con fatica perché generalmente si riferiva solo a quello manuale. Quello intellettuale non era considerato una fatica vera e propria…

Comunque il lavoro consiste nell’impiego di energia diretta a un fine determinato. Attività propria dell’uomo, volta alla produzione di beni o di servizi. E questo a prescindere dalla sua forma, cioè che sia lavoro manuale, o di concetto.

Jì a fatjé = Andare a lavorare (nei campi, in mare, in sartoria, in falegnameria, ecc.).

Addjì ca fatüje? = Dove lavori?

Si intende con fatüje anche il complesso dei lavori riguardanti un’attività nei diversi settori (edilizia, agricoltura, pastorizia, pesca, artistica).

Sàbete amma jì a Ceregnöle a fé ‘na fatüje = Sabato dobbiamo andare a Cerignola a fare un lavoro.

Mi piace ricordare questa massima:riguardante il lavoro:

«Chi lavora usando le mani è un operaio;
chi lavora utilizzando le mani e il cervello è un artigiano;
chi lavora adoperando le mani, il cervello e il cuore è un artista.»

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Fattüre 

Fattüre s.f. = Fattura,

1) Fattüre = Fattura. Documento che contiene l’indicazione analitica delle merci fornite da un venditore al compratore, o dei servizi prestati da un professionista, e il corrispondente importo.

2) Fattüre = Stregoneria, malia, incantesimo.

In clima di agnosticismo, oggi quest’ultimo significato fa un po’ sorridere.

Esistevano anche allora maghi e streghe, che agivano in gran segreto, per i creduloni che volevano farsi spennare.

Gli stregoni erano capaci di “legare” o “sciogliere” la fattura, sempre dietro compenso. Addirittura facevano credere di essere capaci di fare una fattüre a mòrte!

Tuttavia credo che qlco doveva esserci, perché la fattüre aveva delle conseguenze fisiche incomprensibili: tremori, sudorazione, smanie, urla, isterismo, abulia, svenimenti, deliquio.

Probabilmente facevano ingurgitare alla persona presa di mira un po’ di stupefacenti a sua insaputa. La crisi di astinenza pareva ingigantita agli occhi dei parenti sbigottiti, i quali, per evitare sofferenze al loro congiunto, allentavano volentieri i cordoni della borsa.

Esistevano feticci, limoni pieni di spilli, e altra cose che sembravano prese dalla stregoneria  woo-doo (vudù afro-americana).

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Fasse

Fasse s.f. = Fascia

Striscia di stoffa spessa, larga almeno 20 cm e lunga più di un metro, con uno dei terminali munito di due laccetti per l’annodatura, usata una volta per fasciare i neonato

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Farréte

Farréte s.f. = Farrata (Calzone ripieno di farro).

Il farro (Triticum dicoccum) è una pianta erbacea della famiglia delle graminacee.

Praticamente è il progenitore del grano. Ebbe successo fin dai tempi antichi perché cresce anche nei terreni poveri resiste alle basse temperature.

Gli antichi romani usavano per preparare una specie di piadina di farro, detta offa.

La farrata è un prodotto da forno, tipico di Manfredonia. Si tratta di una sfoglia di pasta non lievitata con un ripieno di farro cotto, ricotta, sale, pepe, maggiorana.

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Fanöje

Fanöje s.f. = Falò, pira, rogo.

Fuoco acceso all’aperto per segnalazione, come manifestazione festosa o per bruciare cose inutili.

Era usuale accendere  falò la vigilia delle grandi feste religiose: Natale, S.Lucia, l’Immacolata, ecc. Questa fanöje è stata ripresa da casa mia nella Festa di San Giuseppe 2018 a Matera.

Quando non era ancora diffuso il gas per uso domestico, tutti avevano in casa della legna da ardere per la cucina.  Allora i marmocchi facevano la questua casa per casa: Bellafé, Me vù dé ‘na legne a San Gesèppe? = Signora, mi vuoi dare una legna (per il falò che stiamo preparando per la festa dedicata) a San Giuseppe?

Partecipava generosamente tutto il vicinato e tutta la legna veniva accatastata all’incrocio delle vie.

All’accensione dei falò c’erano solo i ragazzini: poi man mano si avvicinavano anche gli adulti. Alla fine, intorno al fuoco si raccontavano ‘nduvenjille, frecàbbele e sturièlle.= indovinelli, barzellette e storielle fino tarda ora, quando il fuoco si consumava del tutto.

Con l’avvento del gas in bombole nel 1950 questa bella usanza è quasi cessata per mancanza di materia prima da bruciare, almeno nelle città.

Mi piace ora riportare integralmente ciò che ha scritto il prof. Ferruccio Gemmellaro sull’etimologia del termine:

«Il lemma Faro deriva giusto dall’isolotto di Faro dove era situato il faro di Alessandria d’Egitto. Poi, dall’incrocio greco di PHAROS “faro” con PHANOS “lanterna” fu coniato il termine Falò e la mutazione di N in L s’è attestata per preferenze locali (pisana).
In versione volgare meridionale si ha Fanoje che mantiene la N originale, direttamente quindi dal gr PHANOS, che vale Falò quale proseguo dei riti pagani, attizzato nelle vigilie delle feste cristiane più importanti.
La prova che la creduta esclusiva discendenza dei roghi mistici dalle pratiche celtiche, così come affermano certi intellettuali della padania, è un sonoro falso storico.»

L’amico Prof. Michele Ciliberti aggiunge:

«I “fuochi” e i “roghi” in greco antico hanno tutt’altra radice che è “pir”. Il Pireo è sì il porto di Atene, ma si chiama così perché vi sorgeva un ‘ara per sacrificare alla divinità del fuoco. In italiano abbiamo pure “Pira”.
La radice “fa” invece significa illuminazione, manifestazione ecc. Lascerei stare pure “Faros” che è un toponimo.
Per quanto riguarda “fanöje“, vedo un diretto calco della terza persona plurale del presente ottavo “fanoien“, del verbo “Fano” accendo, illumino, risplende, appaio ecc.»

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Fainèlle

Fainèlle s.f. = Carruba

Frutto del carrubo (Ceratonia siliqua), albero sempreverde con tronco corto e largo, foglie di colore verde scuro, fiori rossi a grappolo, frutto commestibile a siliqua.  Una volta essiccato il frutto  diventa di colore scuro e lucido.

Le nostre nonne ponevano una carruba secca in ogni cassetto del comò allo scopo di profumare la biancheria.

Utilissima per preparare beveroni contro il raffreddore. Si facevano bollire nel pentolino pezzi di carruba, fiori di malva, di camomilla, un paio di fichi secchi come dolcificante. Il famoso decòtte.

Le carrube, spezzettate e bollite a lungo producevano uno sciroppo denso e dolcissimo chiamato vünecùtte = vincotto che usavano nella preparazione di dolci e sorbetti.

Nei lavori campestri, per dare maggior energia al cavallo che trainava l’aratro, assieme alla biada si ponevano nel sacchetto di tela con due bretelle legate alla sua testa, anche dei pezzi di carruba.

Il cavallo con la bocca immersa nel sacchetto mangiava durante le ore di lavoro. L’uomo faceva una sosta solo per bere lui e per far dissetare l’animale.

In erboristeria le carrube tritate vengono usate quale astringente contro la diarrea.

C’è da dire un ultima cosa sulle carrube. I suoi semi più grossi erano usati, perché duri e lucidi, da qualche artigiano ingegnoso per fabbricare i grani della corona rosario ad uso delle bizzoche.

In altri Comuni di Capitanata, del Barese e di Basilicata si pronuncia fascenèdde.

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