Tag: sostantivo femminile

Cubbüje

Cubbüje s.f. = Cubìa, occhi di cubìa.

In italiano si pronuncia, con l’accento sulla ‘i’ come in fobia. Altri dicono cùbia, come come in rabbia.

In dialetto lo usano solo gli uomini della marineria perché è un termine specifico dell’arte navale.

Si tratta di due rilievi decorativi poste sulla murata delle imbarcazioni a proravia, vicini ai due fori creati per consentire lo scorrere della catena quando si cala o quando si salpa l’ancora.

Essi tecnicamente sono e si chiamano “occhi apotropaici” (dal greco ἀποτρόπαιος apotròpaios, derivato di ἀποτρέπω che significa allontanare), cioè che allontanano gli influssi malefici.

Questi antichissimi fregi furono usati da Egizi, Romani, Fenici e Greci in tutto il bacino del Mediterraneo. Fino agli anni ’60 erano in uso sui natanti della costa Adriatica, dalla Puglia alla Romagna, sia sui battelli da pesca, sia su quelli da carico.
Le imbarcazioni moderne, ahimé, non si fregiano più di questi simboli del passato, ritenuti forse troppo “primitivi”.

I cubbüje…il termine ha un suono che mi piace.  Le  cubie a forma di occhi, in rilievo, colorati di rosso, e fissati sulla prua dei nostri trabaccoli, esercitavano su di me adolescente un’enorme attrazione. Dopo la Messa mi concedevo una passeggiata in esplorazione o all’interno del Castello o sul Molo di Levante. Restavo a lungo a mirare questi misteriose e affascinanti cubie.

Il lettore Mario Brunetti, che ringrazio, mi scrive:
«L’occhio di cubìa è un capolavoro di funzionamento: la catena dell’ancora deve scorrere nel giusto verso senza accavallare le maglie e viceversa in risalita. In pratica è lo sviluppo di un’elica. E’ una piccola medaglia per il carpentiere che la realizza.»

Nella foto (dal wb) un antico trabaccolo restaurato all’ancora nella laguna veneta.
Le cubìe sono diventate l’emblema della città adriatica di Cattolica.

 

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Crumatüne 

Crumatüne s.f. = Cromatina. Cera per lucidare le scarpe.

Va bene anche scritto crumatïne.

La denominazione commerciale “Cromatina” dal greco χρμα –ατος = colore) diventò un nome comune per indicare il lucido per scarpe, ed era largamente usato anche in italiano.
Ora si preferisce adoperare l’aggettivo sostantivato “lucido” per designare questo prodotto.
Fino agli anni ’70 era commercializzato in pasta piuttosto solida, contenuta in scatolette metalliche rotonde, con il coperchio rimovibile.  Ricordo le varie marche dell’epoca: le più diffuse Tana e  Marga; quindi Brill, Emulsio, Ebano, Lion noir, Guttalin e Sutter, nei vari colori: nero, testa di moro, marrone, rosso, giallo.
Si applicava sulle calzature mediante una specifica spazzola

Poi fu distribuito in forma cremosa in comodi in tubetti, come quelli del dentifricio.
Ora si vende in flaconcini dotati di un pratico tampone a spugna, sotto forma di liquido speciale autolucidante.

Da non confondere con cré-matüne = domani mattina

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Crjànze

Crjànze s.f. = Creanza

Correttezza di comportamento, rispetto, buona educazione, buone maniere.

Mala crjanze = atto di cattiva educazione, da villano screanzato.

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Cresòmmele

Cresòmmele s.f. = Albicocca

Frutto dell’albicocco (Prunus armeniaca), albero con foglie a cuore, fiori precoci bianchi o rosati, frutti saporosi di colore arancione. Il colore della buccia cambia a seconda delle varietà: si va dal giallo chiaro all’arancione intenso. Il frutto è carnoso, con seme osseo e forma ovoidale.

Il nome cresomme o cresòmmele è derivato dal greco “Chryso-milo” (χρυσό μήλο) ossia “oro-mela” = frutto d’oro.

Taluni per brevità, dicono cresòmme, ugualmente corretto. Sono più propenso a usare il termine cresòmmele, specie riferito al plurale.

‘Sta cresòmme jöve sciapüte = Quest’albicocca era insipida.

Mangiàteve ‘sti cresòmmele de Màcchje = Mangiate queste albicocche macchiaiole.

Esistono numerose varietà di albicocca. Da noi è molto conosciuta un’albicocca piccola,  detta nanàsse, ben colorita e molto zuccherina, i cui semi contenuti all’interno del nocciolo duro sono dolci come quelli le mandorle; sono invece amari i semi delle altre varietà di albicocche, quelle di dimensioni maggiori.

Questi noccioli, ‘i caccianózzele, erano oggetto di numerosi giochi fanciulleschi.

L’albicocco, originario della Cina, si diffuse fino all’Armenia, da dove venne introdotto in Occidente da Alessandro Magno. Tuttora una varietà è chiamata Albicocca Alessandrina.

In epoca borbonica nel Napoletano era una delle piante più diffuse. Un botanico napoletano del 1583 evidenziò le due varietà più pregiate, chiamandole “bericocche” e “crisomele”.
I due nomi sono entrati da quattro secoli nella parlata del Sud Italia. A Monte S.Angelo si chiama tuttora vernecòcche (da bericocche). Invece a Manfredonia, nella Puglia Piana, in Molise, nel Teatino e in Campania,  è chiamata cresòmme, e con le varie lievi varianti crisòmele, cresommele.

Il frutto matura a fine maggio-metà giugno, una stagione piuttosto breve.

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Crépe

Crépe s.f. = Capra

È un animale ovino apprezzato per la delicatezza delle sue carni in giovine età (‘u crapètte il capretto) e l’ottima digeribilità del suo latte. La carne della capra adulta è più coriacea, ma indicata nella preparazione in umido, non arrosto.

Una volta si usava la sua pelle per farne guanti e otri per il vino e l’olio.

La capra (Capra hircus) riesce a nutrirsi anche si vegetali duri, spinosi, coriacei, e per questo allevato prevalentemente in zone montane di tutto il mondo.

Il maschio della capra, l’irco o il capro, in dialetto dicesi crapöne s.m. anche nel significato di testone, cocciuto e poco propenso all’apprendimento. Sì ‘nu crapöne.

Il nome dialettale subisce, come tanti altri, la metatesi, ossia lo spostamento di una consonante all’interno del nome. come accade anche per frabbecatöre, stròppje, frummàgge, premmanèndeecc.

Andate a leggervi il Detto: Salüte e frasche,

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Cragne

Cragne s.m. = Cumulo

Ammasso, mucchio, tumulo, accumulo.

Un insieme di legna, pietre, ghiaia, sabbia, fieno, ecc.

Figuratamente significa risparmiare, raggranellare un gruzzoletto.

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Còzzele 

Còzzele s.f. = Mitilo, cozza

La parlata moderna abbrevia il nome da còzzele in cozze. Personalmente preferisco la prima forma, quella tradizionale.

La cozza (Mytilus edulis o Mytilus galloprovincialis) è un mollusco dalla conchiglia nera e approssimativamente triangolare, molto ricercato per alcune specialità gastronomiche: zuppa di cozze, cozze alla marinara, impepata di cozze, cozze gratinate, ecc.
Quelle poste in commercio devono provenire da allevamenti specializzati. Diffidare dalle cozze vendute alla rinfusa nei mercatini. A Manfredonia si usa chiamarla Còzzele de Tàrende = Cozza di Taranto, città ove esistono da sempre estesi allevamenti di mitili.

E questo per distinguerla dalla locale pregiata “cozza pelosa”, una volta considerato cibo dei poveri, perché acquistata a prezzo vile. Assieme al pane costituiva la cena per tutta la famiglia.

La cosiddetta cozza pelosa (Modiolus barbatus) per via delle alghe attaccate al suo guscio, è un prodotto locale, a mio avviso molto più pregiato della sia pur buona cozza nera tarantina.

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Coške 

Coške s.f. = Scoreggia (o scorreggia)

Nulla a che fare con le cosche mafiose! Si tratta tuttavia ugualmente di un problema molto serio.

Emissione rumorosa di gas intestinali.

Fé ‘na coške = cuškjé = scorreggiare.

Non sempre l’emissione può dirsi rumorosa.

In silenzio dicesi ‘a loffe
Dal suono flebile dicesi ‘a stòdeche
Dall’emissione normale è la vera e propria ‘a coške
Se sale un po’ di tono edicesi chjìreche
Se il tono è più alto e prolungato si tratta di un chjirecöne
Se si tenta, sforzandosi, di emetterne una più fragorosa, si rischia la zelléte ossia l’emissione non è solo gassosa ma anche un po’ solida.

Credo di aver percorso tutta la scala cromatica dei suoni possibili da quello strumento “a fiato” (‘u cüle)

Se mi è sfuggito qualche termine…mi correggerete! (scusate l’accostamento irriverente a Sua Santità, ma il verbo correggere si sposa egregiamente a quello trattato in questa “voce”).

Lino Brunetti mi manda questa simpatica scenetta:

«Era riunito a Palazzo il Gran Consiglio, con il Re di Napoli a capotavola, e si discuteva di tutto.
Ad un certo punto il Primo Ministro, piuttosto anziano, chiese: “Con licenza di Vostra Maestà!” Si alzò dalla poltrona ed andò a scorreggiare con le spalle alla finestra e poi ritornò a sedersi. La stessa procedura per altre due volte.
Quando stava per alzarsi ancora una volta, il Re lo fermò dicendo: “Eccellenza, ‘sta volta facitéle accà, e po’ purtataville ‘llòco!”»

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Contramalùcchje

Contramalùcchje s.m. = Amuleto, talismano, portafortuna

Contramalùcchje = contro il malocchio.

Piccolo oggetto da portare sulla persona, creduto, per superstizione, capace di proteggere da mali o da pericoli e per propiziarsi la fortuna.
Da noi specificamente ha la funzione di difenderci dall’altri invidia.

Per esempio:
-il sinuoso cornetto rosso usato come ciondolo o quello mignon d’oro attaccato alla collanina (che è blasfemo quando viene messo assieme ad un’immagine sacra);
-la mandorla doppia “siamese”, cioè attaccate alla base e somigliante a un paio di mammelle appuntite;
-un rostro mobile della chela di favollo (‘a pelöse);
-un paio di corna di ariete fissato sull’architrave dell’ingresso principale delle case di campagna;
-il ferro di cavallo attaccato all’uscio di casa;
-il vistoso corno di vacca, fissato a una base di legno che fa bella mostra di sé nelle case antiche, con un nastrino rosso annodato a fiocco alla sua base o a metà lunghezza; ecc. ecc.

In emergenza, in assenza di questi oggetti, per contramalucchje bastava “fare le corna” con una mano nascosta.
I maschietti ricorrevano ad una veloce grattatina sui “paesi  bassi”, capisci a me.

Quando si riceveva un complimento, temendo che costui o costei  lo facesse per invidia, prontamente si facevano le corna con la mano.   Sapendo l’andazzo, la pesona cerimoniosa terminava il complimento con un bel “benedüche“. dimostrando la buona fede. 

La nostra generazione è smaliziata e non corre più dietro a queste sciocchezze (almeno spero!).

Mi scompisciai dalle risate quando all’età di otto anni, razionalmente, chiesi a mia madre che cosa significasse quel corno lucido e nero che faceva in bella mostra di sé sopra il bordo dell’intavolato divisorio. Ella con un bell’italiano, impensabile per l’epoca pre-televisiva, citò un distico endecasillabo assonante che mi si è attaccato nella memoria, e che mi fa sorridere tuttora quando ci penso:
“Contro l’invidia della mia fortuna,
prendo ‘sto corno: glielo ficco in cu…..!”

Chissà dove lo aveva appreso!

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Conghe

Conghe s.f. = Tinozza, mastello, bagnarola, conca.

Recipiente di ferro zincato, o di legno o di altro materiale usato generalmente per fare il bucato a mano o anche per fare il bagnetto ai bambini.

In dialetto era usato anche il termine tüne = tina.

Tènghe da fé ‘na conghe de pànne = Ho da lavare un’intera tinozza di biancheria.

Da jogge ca stéche ‘mbacci’a ‘nna conghe de panne = È da questo pomeriggio sono impegnata su un mastello di panni (da lavare)

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