Categoria: Proverbi e Detti

La carne döle all’ùsse

La carne döle all’ùsse

La carne duole all’osso.

Il significato del proverbio è chiaro. Solo a me che sono molto vicino al soggetto interessato può far male una maldicenza, una calunnia, una malignità ecc. e non a un estraneo, per quanto possa mostrarsi partecipe e rammaricato.

Ossia gli estranei non possono mai compenetrarsi nel dolore quanto possano farlo i familiari più stretti.

Così come il dolore è più lancinante se ad essere colpita è la parte del tessuto muscolare aderente l’ossatura.

Sì, a vüje ve despjéce…ma la carne döle all’ùsse! = Sì, vi dispiace…ma non potete mai provare il dolore che provo io (che sono parente).

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La carne jì morte e ‘u bröde ce jètte a li chéne

La carne jì morte e ‘u bröde ce jètte a li chéne

La carne è morta e il brodo si butta ai cani.

I più anziani pronunciano: A carne jì morte e ‘u bröde ce scètte ai chéne.
Essi usano il verbo scètte, dall’infinito scetté, più simile al francese jéter

Questo proverbio indica una situazione molto triste.
Succede spesso che al decesso di una persona i familiari si contendano i suoi beni, ancorché divisi secondo la legge o secondo il testamento eventuale. C’è sempre chi non è soddisfatto, ritenendosi leso nei propri interessi.
Così passa in secondo ordine la persona e si mettono in primo piano le cose.  Ormai il poveretto è morto, e non è degnato nemmeno di un senso di gratitudine, tanto conta solo quello che ha lasciato…

Conosco casi in cui, tra contestazioni e liti giudiziarie, l’eredità si è dissolta per pagare gli avvocati e le spese giudiziarie, così come è scomparso l’affetto fraterno.

Lo studioso mattinatese Francesco Granatiero intende così lo stesso proverbio: “Morto un familiare, si dimenticano i parenti acquisiti tramite lui”.  Secondo me sono calzanti e valide entrambe le interpretazioni.

Nota linguistica:
Molti termini si sono evoluti, diciamo che si sono “ingentiliti”, perché erano ritenuti troppo cafoneschi:
Scetté = gettare, buttare è diventato jetté
Desciüne = digiuno, si è mutato in dejüne
Furciüne = forchetta, ora è furchètte
Cavadde = cavallo, cavalle
ecc.

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La catàrre mméne ai cafüne

La catàrre mméne ai cafüne

La chitarra in mani ai villani.

Non che i contadini non possano suonare questo strumento, per carità…

Si cita questo Detto quando si vuole evidenziare che non tutti meritano o mostrano di saper apprezzare un dono, un oggetto, un servizio che viene loro offerto.

Addjì ca süme jüte a fenèsce: a catarre mméne ai cafüne = Dove siamo andati a finire…La chitarra in mano ai cafoni.

Nota linguistica.
I giovani di oggi dicono ‘a chitarre, quasi come in italiano. Ma è un termine modificato perché essi hanno frequentato la scuola dell’obbligo e sono portati a italianizzare tutto il lessico… (dicono furchètte, al posto di furciüne‘u pomerìgge invece di ‘u jògge, preferiscono ‘u lucchètte all’antico catenàzze, e serratüre al genuino maškatüre, ecc.)

Io propendo per catarre e catarröne invece di chitàrre e controbbasse.

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La chió sendènzja gròsse me pàsse pe’sòtte ‘a còsse.

La chió sendènzja gròsse me pàsse pe’sòtte ‘a còsse.

La più grande maledizione (diretta a me) mi passa sotto la gamba.

La sendènzje, intesa come maledizione, era molto temuta, specie se lanciata nel corso di un furioso litigio.

C’era però qualche tipo spavaldo non temeva la maledizione, e la ‘schivava’ facendola passare sotto la gamba.

Ora queste cose ora fanno sorridere, ma una volta si temevano davvero.

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La cöse a fòrze, nen véle ‘na scòrze

La cöse a fòrze, nen véle ‘na scòrze

Un’azione (compiuta) per foza non vale (nemmeno) una buccia.

In italiano si direbbe che non vale un fico secco.

Aggiungo che nemmeno quelle fatte controvoglia riescono bene.

Insomma un po’ di passione in tutte le cose non fa pesare un lavoro, per quanto gravoso.

Per esempio io sto compilando questo vocabolario da tre anni ormai, e il lavoro non mi pesa minimamente, perché lo sto facendo con entusiasmo: e nessuno mi sta obbligando a farlo! Spero che esso valga più di un fico secco ?

Ringrazio Michele Murgo di avermi imbeccato questo Detto, pronunciato or ora da sua madre.

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La cumbedènze jì ‘a mamme d’a mala crianze

La cumbedènze jì ‘a mamme d’a mala crianze

La confidenza genera maleducazione.

I genitori e gli educatori in genere devono saper mantenere il distacco dovuto al proprio ruolo. Se un insegnante entra in confidenza con l’allievo, cade il rispetto reciproco, e il giovane non sa distinguere più i limiti entro cui può muoversi.

Mi viene a mente il notissimo mazza e panelle….

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La fatüje ce chiéme checòzze…

La fatüje ce chiéme checòzze…

Detto completo: ‘A fatüje ce chiéme checòzze, a me nen me ‘ngòzze, a me nen me ‘ngòzze.

Il lavoro si chiama “zucca”, e non mi sollecita, non mi attrae, non mi stuzzica la voglia.

Poteva chiamarsi in mille altri modi, purché in rima con ‘ngozze.…
Un verbo un po’ strano. Altrove usano la locuzione “non mi azzecca”, o “non mi attira”, oppure “non mi invoglia “…

In italiano corrisponde un altro proverbio: «Voglia di lavorare, saltami addosso, e fammi lavorar meno che posso.»

E’ un ritornello rivolto verso qualcuno che non inizia mai un lavoro  manuale che deve comunque eseguire. Guarda qua, osserva là, deve organizzarsi, meglio aspettare, ci vogliono gli attrezzi adatti, domani se ne parla, ci vuole un aiuto,….ecc.

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La fatüje vé annànze e jìsse scàppe addröte

La fatüje vé annànze e jìsse scàppe addröte  

Il lavoro va avanti e lui corre dietro.

Si pronuncia questo Detto quando si parla di qualcuno poco propenso a lavorare.

Voglia di lavorare saltami addosso, e fammi lavorare meno che posso.

Da noi il lavoro, anche quello intellettuale è detto fatica. È in effetti stanca notevolmente sia quella muscolare, sia quella cerebrale.

Gli anziani recitano il Detto con una lieve variante sostituendo “dietro” con “appresso”:
La fatüje vé ‘nnànze e jìsse scàppe apprjisse. 

 

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