Categoria: Proverbi e Detti

Fìgghje de jatte angappa sórge.

Fìgghje de jatte angappa sórge. = Figlio di gatta acchiappa topi

Si tratta di linguaggio figurato. Il figlio del gatto/a proprio per la sua natura felina ha tendenza a catturare i topi. Generalmente si ereditano le qualità familiari.

I Latini usavano il Detto: «Qualis pater, talis filius» per evidenziare la somiglianza caratteriale o fisica tra padre e figlio.
La regola ha valore anche in senso negativo.
Se una persona cresce in ambiente familiare delinquenziale, è difficile che diventi un frate francescano…

Però da un campo di pietre o di letame può sempre nascere un fiore.

Mio padre ribadiva, per evidenziare lo stesso concetto di ereditarietà: Pétre e fìgghje: stesse tappe, stèsse legnéme = Padre e figlio stesso tappo, stesso legname.  Noi diciano che sono fatti della stessa pasta.
Oppure Pétre e fìgghje, vedènne, facènne = Padre e figlio, vedendo facendo.
Come dire che il figlio agisce imitando spontaneamente l’atteggiamento dei genitori che sono i suoi modelli di vita: come vede così fa, nei buoni e nei cattivi esempi.

Esiste un altro proverbio simile che afferma l’abilità del gatto anche al buio (clicca→ qui)

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Fìgghje de vjicchje malembaréte

Fìgghje de vjicchje malembaréte

Figlio di vecchi maleducato.

Se un bambino nasce da una coppia di persone un po’ avanti negli anni, certamente è amatissimo, coccolato, vezzeggiato. Questo inevitabilmente porta a dargliele vinte tutte. Perciò il pupo cresce viziato, capriccioso, abituato ad agire da despota anche fuori delle mura domestiche.

Ed ecco che allora si attribuisce, giustamente, ai genitori la colpa di non avergli saputo dare una buona creanza, e solo per il fatto che sono attempati, quindi di manica larga.

Alcuni dicono, con la stessa valenza sopra descritta: fìgghje süle malembaréte = Figlio solo (unico) maleducato..

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Figghje e marüte, cüme li jé te l’àdda tenì !

Figghje e marüte, cüme li jé te l’àdda tenì !

Figli e marito, come li hai li devi tenere.

Ovviamente esiste anche la versione per l’altro coniuge: Fìgghje e megghjöre, cüme li jé te lì àdda tenì.

Era un obbligo imprescindibile per i coniugi, sopportarsi a vicenda fino al massimo umanamente possibile, non essendoci la possibilità di ricorrere al divorzio.

Diciamo anche che la donna non poteva mai essere economicamente indipendente, e gravava inevitabilmente sulle spalle del marito, sua unica risorsa. Forse sopportava meglio le sua mascalzonate [perché gli uomini di una volta relegavano le loro mogli a “fare la calzetta”, a non partecipare alle decisioni familiari].

Quando la convivenza era proprio impossibile, allora tó a càste e jü a chése = tu a casa tua e io a casa mia, intendendo con ‘tu’ e ‘mia’ quella dei rispettivi genitori. Una dolorosa separazione consensuale.

I figli comunque, come dicono i Napoletani, so’ piezze ‘e core = sono pezzi di cuore, anche quando diventano insensibili verso i genitori.

In questo caso, l’ho sentito con le mie orecchie, scompisciandomi dalle risate: ‘e figlie sò pièzze ‘e mèrda!

Grazie all’inesauribile Enzo Renato per il suo prezioso suggerimento.

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Fìgghje müje, mangéte e bevüte….

Fìgghje müje, mangéte e bevüte….

Fìgghje müje, mangéte e bevüte,
péne rótte, nen tucchéte,
péne séne nen rumbüte,
fìgghje müje, mangéte e bevüte!

Figli miei, mangiate e bevete,
mi racomando, non toccate quella pagnotta che è già dimezzata,
né affettate quell’altra che è ancora intonsa!
Tuttavia, figli miei, mangiate e bevete!

Un detto simpaticissimo, pronunciato scherzosamente dal padrone di casa agli ospiti inaspettati invitandoli ad accomodarsi, prima di offrire loro una bibita o un pasticcino.

L’ho sentita dire da mio zio ultranovantenne quando io e mia moglie siamo andati a fargli visita. Poi ho scoperto che lo sanno molti anziani, appena accennavo loro l’incipit di questo Detto, nato sicuramente in epoca di ristrettezze.

Quando il pane scarseggia davvero, sia quello “rotto” sia quello “sano” non si può offrire nulla, se non una battuta di spirito, accettata d’altronde con buonumore dalla controparte.

Si narra di una coppia che si presentava a far visita agli amici proprio all’ora di pranzo. Era inevitabile l’invito: “Favorite!” e quasi scontata la loro accondiscendenza per “scroccare” qualcosa da mangiare.

Un mio cugino, mangiava sistematicamente per prima cosa – quando c’era – la pietanza del “secondo”, e successivamente i maccheroni del “primo” per minimizzare i danni causati dai possibili visitatori incursori di questo tipo. Tutt’al più avrebbe ceduto il piatto della minestra…
Parlo dell’immediato dopoguerra quando solo poche volte si beneficiava del “secondo”, perché abitualmente si usava il piatto unico di sola pasta e “scarpetta”: tempi duri!

Impensabile al giorno d’oggi perché tutti noi abbiamo problemi di sovralimentazione e combattiamo per eliminare i chili di troppo!

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Finghè la bbèlle jì pprjéte, ‘a bbrótte c’jì ggià cuchéte.

Accettabile l’avverbio fin’a cchè  =fintantoché, nel mentre.
“Nel mentre che la (donna) bella viene pregata (corteggiata), quella brutta si è già (sposata e addirittura) coricata (col marito).

La donna che sa di essere bella si crea delle illusioni e temporeggia nello scegliere!”.

Ringrazio infinitamente il dott. Matteo Rinaldi per avermi fornito questo bellissimo proverbio, con tanto di spiegazione, anticipandomelo dalla sua raccolta di oltre 1600 di prossima pubblicazione.

In altri termini ai dice che “si tira la calzetta” e in questo caso la fatalona resta con “un pugno di mosche” in mano, mentre le altre “fanno i fatti”.

Notare il raddoppiamento fono-sintattico di pprjéte, bbèlle, bbrótte, ggià.

Il parlante locale lo pronuncia  anche se lo si scrive con la consonante singola.

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Frìške de rècchje …

Frìške de rècchje …

Proverbio completo:

Frìške de rècchje a dritte, cöre afflitte e sacca ricche.
Frìške de rècchje a manghe,cöre franche e sacca vacande.

Fischio di orecchio destra: cuore afflitto e tasca ricca. Fischio di orecchio sinistra, cuore libero e tasca vacante.

Questo proverbio si snocciola quando qlcu si lamenta di sentire un sibilo nell’orecchio.

L’interpretazione degli acufeni (scusate il termine tecnico) è un tentativo di dare una spiegazione per coloro che si accontentano: tanto o il cuore libero da tribolazioni, o la tasca piena di soldi vanno sempre bene.

Previsione ben circostanziata. Oroscopo delle nonne.

Frìške de rècchje significa presentimento o timore, prontamente smorzato dall’amico/a che snocciola il nostro proverbio.

Pò te fàzze ‘nu frìške alla rècchje = Ascolta quello che ti dico adesso. Dopo, a cose fatte, quando le mie previsioni ponderate si riveleranno azzeccate, verrò a confermarti di aver visto giusto!

C’era la credenza che se qualcuno in quel momento stava pensando a noi o parlando di noi, si manifestava l’acufeno (o anche un singulto).

Grazie al lettore Michele Murgo, che mi ha riferito la filastrocca di sua madre, vado a documentare l’antidoto contro l’ansia:

Chi me nòmene? Chi me nòmene
putèsse avì ‘na palla ‘mbrònde!
Före da pàteme, före da màmme
före da ‘u müje ‘nnamurète:
se jì de bùne putèssa durè,
se jì de mèle putèssa crepé.

Ossia: Chi mi nomina, chi mi nomina, potesse avere una palla in fronte! All’infuori di mio padre, all’infuori di mia madre, all’infuori del mio innamorato, se è di bene che possa durare, se è di male che possa crepare.

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Frìške e tüse

Frìške e tüse

Alla lettera significa freschi e tesi. Si puà tradurre lindi e pinti.

E’ un modo di dire che descrive delle persone che si presentano a qlc festa, compleanni, battesimo, ecc. con le mani in mano, ossia senza regalo.

Ce so’ appresendéte frìşke e tüse = Si sono presentati lindi e pinti.

Il nome è stato adottato da buontemponi per le scorribande di carnevale. Credo sia una “socia”.

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I cafüne : mànghe li chéne: attörne a lu fùche ce vènnene püre i carne d’i megghjöre

I cafüne : mànghe li chéne: attörne a lu fùche ce vènnene püre i carne d’i megghjöre

I cafoni, nemmeno i cani sono terribili: attorno al fuoco sono capaci di fare maldicenza anche delle proprie mogli. Ovviamente dopo aver dato fondo al boccale del vino.

Questo detto (grazie a Enzo Renato per averlo proposto) rispecchia ciò che si è sempre pensato dei cafoni, lavoratori della terra, ex servi della gleba di feudale memoria.

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