Categoria: Proverbi e Detti

Quanne ‘a jatte nen pöte arrevé au larde…

Il proverbio completo recita:
Quanne ‘a jatte nen pöte arrevé au larde düce ca jì ràncede = quando la gatta non può arrivare al lardo dice che è rancido.

Mi viene da paragonare questo Detto alla Favola di Esopo sulla volpe che, non riuscendo a ghermire l’uva, disse che era acerba.

Il significato della metafora è lampante: Quando gli uomini non riescono a ottenere ciò che desiderano, o a superare le difficoltà della vita, per incapacità o per scarso impegno, inventano le più svariate scuse o accusano le circostanze sfavorevoli per nascondere le proprie manchevolezze.

C’è di peggio. Quando (ad esempio in politica) l’avversario o contendente ha più frecce al suo arco, si ricorre alla denigrazione. Come se coprendo l’altro di fango si ha automaticamente maggiori possibilità di emergere. Una cosa meschina.

Il lettore Manfredi Renzullo a proposito di lardo, dice:
«Si aveva anche l’abitudine, specie nelle case di campagna, di tenere un pezzo di lardo di maiale salato appeso [a stagionare]. Poi si tagliavano delle fette per mangiale tra due fette di pane, di solito a colazione.»

Ovviamente il lardo era appeso fuori della portata dei gatti!

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Quanne ‘u ciócce nen völe böve, evògghje a frešché

Quanne ‘u ciócce nen völe böve, evògghje a frešché

Quando l’asino non vuole bere, è inutile fischiare.

Figuratamente si cita questo Detto quando i consigli elargiti, gli incarichi assegnati  o gli ordini impartiti non ottengono l’esito cercato.

Origine del Proverbio, diffuso in tutto il mondo rurale del Sud Italia:

Il contadino che si serviva dell’asinello per i suoi lavori, durante le pause conduceva l’animale presso un abbeveratoio per consentirgli di rifocillarsi.

Per impartirgli i vari comandi, l’uomo  emetteva brevi  segnali vocali (àaah, ìiih, èrre-gghjàa) o anche dei fischi, brevi o lunghi che erano ben recepiti dalla bestiola.

Ma talvolta, davanti alla pila, nonostante i ripetuti e pecifici fischi invitatori, l’asino caparbiamente non si china a bere.

Nel Potentino il Detto conclude: riscë ca r’acqua è trobbla.= dice che l’acqua è trobida.

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Quanne ‘u grasse arrüve ‘nganne, u pùrche völ’èsse acciüse.

Quanne ‘u grasse arrüve ‘nganne, u pùrche völ’èsse acciüse = Quando il grasso arriva alla gola, il porco vuole/deve essere ucciso.

Si cita questo proverbio per esecrare l’atteggiamento di taluni che non badano a spese, o fanno i gradassi ostentando ricchezze o che vogliono apparire superiori agli altri.

Alberto Sordi ne “Il Marchese del Grillo” in modo altero si rivolge ai popolani dicendo: «Io so’ io, e voi nun siete un cazzo!» Ecco, il Marchese a questo punto meriterebbe in risposta la citazione del grasso alla gola…


A volte lo dicevano le nostre mamme quando facevamo gli schizzinosi davanti al cibo.

Mia madre diceva: «La mangiatöre jì vasce!» = la magiatoia è bassa, facilmente raggiungibile.
Mio padre invece era più diretto: «La grascia putténe!»

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Quanne ‘a fèmene völe, fé chjöve e neveché

Quanne ‘a fèmene völe, fé chjöve e neveché

Quando una donna vuole una cosa, è capace di tutto pur di ottenerla.

Alla lettera significa: quando una femmina vuole fa piovere e nevicare. È chiaro che si tratta di linguaggio figurato.

Il Proverbio evidenzia la capacità, la caparbietà, l’ostinazione della donna, che trova sempre il modo di raggiungere il suo obiettivo, per l’indiscussa capacità di essere sempre persuasiva.

Una donna assennata usa questo carisma per evitare dissidi, e rancori. È operatrice di pace. Da premio Nobel.

Talvolta – fortunatamente in casi rari – questa sua peculiarità viene messa al servizio di una causa sbagliata. Non ci sono mezze misure: quando la donna ama oppure odia lo fa in maniera estrema!

È un’arma insidiosa capace di fomentare discordie e dissapori tra suo marito e la famiglia di lui. E il malcapitato si trova fra l’incudine e il martello….

Vince ovviamente la moglie che è capace di “far piovere e nevicare”!

Mi piace ricordare qui, a conferma della mie asserzioni, quello che recita il proverbio sui bastimenti a mare.

Ringrazio la lettrice Carmen Sovereto per il suo suggerimento.

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Quanne ‘a jatte nen ce sté, ‘u sòrge abballe

Quanne ‘a jatte nen ce sté, ‘u sòrge abballe

topi ballanoQuando la gatta non c’è, il topo balla.

Un vecchio Detto che evidenzia il fatto che, senza alcun deterrente o controllo, l’uomo si lascia andare ad eccessi, stravizi, malefatte, soprusi, ecc.

L’Italiano che è insofferente a qualsiasi coercizione o alle regole del vivere civile (codice civile, codice della strada, codice etico, regole comdominiali, rispetto del bene pubblico, ecc.), in mancanza di controllo si lascia andare senza pensarci un momento.

Disse un giornalista che a fianco di ciascun Italiano ci dovrebbe essere un Carabiniere per controllarne il comportamento. Poiché questo non è possibile, assistiamo purtroppo a scempi, vandalismi di ogni genere, tazze rotte di WC e vecchi frigoriferi lasciati nei punti più impensati, eccessi di velocità dei veicoli, rumorosità insostenibile dei motorini, rifiuti sparsi fuori dall’apposito raccoglitore, bottiglie vuote di beveraggi lasciate sui muretti, a pochi metri della “campana”, inosservanza delle file agli sportelli, ecc. ecc. L’elenco è troppo lungo per continuare. Perché se percorriamo in auto qualche strada extraurbana e vediamo in lontananza una pattuglia della Polizia Stradale rallentiamo istintivamente? In quel momento noi siamo i topi che temiamo la gatta…

Mi piace associare l’immagine di questo Detto ad una classe di scolari. Che succede se la Maestra dovesse lasciare l’aula per qualche minuto? Pensate che i marmocchi se ne stiano fermi, zitti e composti ognuno nel proprio banco?
Quanne ‘a jatte nen ce sté, ‘u sòrge abballe!

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Quànne ‘nu puverjille l’uà pegghjé ‘ngüle, a cammüse ce jàveze söla-söle.

Quànne ‘nu puverjille l’uà pegghjé ‘ngüle, a cammüse ce jàveze söla-söle.

Quando un poveretto lo deve prendere nel culo, la camicia si solleva da sé.

Scusate la volgarità del proverbio, ma forse proprio per questa ragione il concetto è reso più immediato e comprensibile.

Si tratta ovviamente di parlare figurato.

Credo che il povero, essendo la parte più debola del consorzio umano, è quello soggetto a essere colpito dalla malasorte, dalla quale non ha possibilità di difendrsi in alcun modo.

Già ho citato altri proverbi in queso senso (cliccare sulle parole in blu):

1 – L’infortunio della fuliggine

2 – Il cane e lo straccione

3 – L’acqua bollente

Navigando in internet ho trovato una frase interessante abbastanza comprensibile nonostante fosse scritta in spagnolo

«Si la mierda tuviera valor, los pobres nacerían sin culo»

Provo a passarla in dialetto:
Se la mèrde tenarrüje valöre, i puverjille nasciarrìjene senza cüle=
Se la merda avesse valore, i poveri nascerebbero senza culo.

Forse ci sono anche altri proverbi sulla malasorte che si accanisce sul misero. Si accettano suggerimenti!

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Quànne ‘u càzze mètte l’ògne e la fèsse mètte ‘a zampògne…

Quànne ‘u càzze mètte l’ògne e la fèsse mètte ‘a zampògne…

Scusate la trivialità di questo Detto. Credetemi non l’ho inventato io.

La traduzione è folgorante, cioè: “quando il membro virile genererà l’unghia e l’apparato genitale femminile originerà pene e scroto di dimensioni zampognesche…”

Questo Detto è pronunciato da qlcu spazientito per le richieste di un postulante, richieste che non possono essere eseguite perché esose o fuori della portata di chiunque. Il significato è lampante: cioè mai!

Domanda: Quann’jì ca m’ ha da dé ‘a màchene ‘mbrjiste? = Quando mi presterai l’automobile?
Risposta: Quànne ‘u càzze mètte l’ògne e la fèsse mètte ‘a zampògne. Cioè mai.

In questo caso è stato scelto zampogne solo per questioni di rima.

Viene pronunciato anche nel fare previsioni pessimistiche.
Tó tànne t’ha da laurié quànne ‘u càzze mètte l’ògne e la fèsse mètte ‘a zampògne! = Tu allora conseguirai la laurea quando accadrà un evento impensabile.

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Quànne ‘u cüle möna vjinde..

Quànne ‘u cüle möna vjinde, u spezzjéle ce annètte ‘i djindeCioè:

Quando il culo lancia “vento” il farmacista rimane disoccupato (tanto da occupare il tempo per pulirsi i denti).

È in uso dire sia möna vjinde, sia möne ‘u vjinde, con l’articolo ‘u = il.

Io veramente avrei detto “vòtte ‘u vjinde” perché lo trovo più appropriato al dialetto attuale.

Ma la frase è antica – difatti parla di spezjéle, roba del ‘700.

Ora si dice farmacìste e non si usa più il verbo annetté al posto di pulezzé.

Ci è stata tramandata così come riportata nel titolo.

L’essenziale è che sia chiaro il monito. Mangiate fagioli! È tutta salute.

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