Tag: sostantivo femminile

Pastöravacche

Pastöravacche s.m. = Cervone


Il cervone (Elaphe quatuorlineata) è il più lungo serpente italiano ed uno tra i più lunghi d’Europa. La sua lunghezza può variare dagli 80 ai 240 cm, anche se raramente supera i 160. È di colore bruno-giallastro con le caratteristiche quattro scure barre longitudinali (da cui il nome scientifico). Vive nel sottobosco fino a 1000 m di altitudine. Non è velenoso.
Il nome deriva dalla “pastoia”, un legaccio che si pone alle zampe anteriori o posteriori dei quadrupedi per impedirne il movimento. Per esempio era usato per immobilizzare le mucche durante la mungitura.

Curiosità da Wikipedia:
“Secondo alcuni il nome cervone deriva dal fatto che i pastori che lo vedevano durante la muta scambiavano la pelle secca della testa per delle corna. Per altri il nome è dovuto alle piccole escrescenze presenti sul capo. Per altri ancora le corna sono virtuali ed indicano la nobiltà di questo serpente, tra i più grandi d’Europa.

È anche chiamato Pasturavacche in quasi tutte le regioni del centro-sud, in quanto la credenza popolare voleva che fosse attirato dal latte delle vacche e delle capre al pascolo, e che per procurarselo si attaccasse alle mammelle degli animali, o addirittura lo leccasse dalle labbra sporche dei lattanti.”

Insomma, fungeva esso stesso da pastoia per tenerli fermi, allacciandosi alle loro zampe posteriori.

Tutti ci credevano e gli anziani giuravano che era la verità!

Addirittura mia nonna mi raccontava che il serpente usasse penetrare di notte nelle case di campagna attratto dall’odore del latte e, una volta infilatosi nel letto, si attaccava al seno della donna per succhiarne a volontà. Per evitare che il pupo si svegliasse, gli poneva perfino in bocca l’estremità della sua coda… Giurava che era vero!

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Passarèlle

Passarèlle s.f. = Passera di mare, o passera pianuzza

A volte viene chiamata rennenèlle = rondinella.
Si tratta di un pesce di mare (Platichthys flesus) che con i passeri (passarèlle significa passerina) ha  in comune forse il solo colore cangiante del mantello.
Appartiene alla specie delle Platesse atlantiche.

Come tutti i pesci congeneri (sogliola, suacia/cianchetta/zanghetta, platessa, limanda, ecc…) ha  il corpo appiattito di forma ovaleggiante e gli occhi su un solo lato della testa.
Possiede notevoli capacità mimetiche.  Spesso  per sfuggire ai predatori o per praticare la caccia, si copre della sabbia del fondale, da cui spuntano solo i suoi occhi protuberanti.
Si nutre di invertebrati e di piccoli pesci, soprattutto ghiozzi.

La lunghezza massima è di 40 cm. Vive anche in Adriatico.
Carni apprezzate.

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Pàrte

Pàrte s.f. = Parte, porzione

Un termine  poliedrico!

1) La pàrte, ciascuna delle frazioni o degli elementi in cui può essere suddiviso o scomposto un intero.  In dialetto esiste un significativo proverbio con questo termine: Chi sparte jéve ‘a megghja parte

Quèst’jì ‘a parta töve. Fàttele abbasté = Questa è la tua porzione. Fattela bastare. Evidentemente il poverino è a dieta e riceve le porzioni ridotte!

2) Fé alla pàrte = Fare alla parte. In dialetto significa associarsi al 50% (fifty-fifty)in qlc impresa commerciale, o anche semplicemente per spartirsi amichevolmente a metà la posta in gioco in una partita a carte.

Credo che sia tuttora in uso fé alla parte nel raccogliere le olive nei piccoli oliveti. Il proprietario delle piante chiama qlc conoscente che provvede alla raccolta. Le olive vengono portate al frantoio e l’olio ricavato si suddivide a metà tra il proprietario delle piante e colui che le ha raccolte.

3) ‘A pàrte = Lo spartito musicale scritto per ognuno degli strumenti di un’orchestra, ricavato dalla partitura (generale) ad uso del Direttore. .

4) ‘A parte a ssöle = L’esecuzione musicale del solista.  Aspettéte ca mò ‘a trombe uà féje ‘a parte a ssöle = Aspettate che ora la tromba eseguirà un pezzo da solista.

5) Parte =  partire, verbo declinato al presente (Giuanne parte jogge = Giovanni parte oggi) o all’infinio (Mattöje nen völe parte = Matteo non vuole partire).

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Parocche

Parocche s.f. = Bastone, vincastro

Sorta di bastone usata dai pastori nel menare al pascolo le loro greggi.  Taluni pronunciano paròcchele.

Ha spesso l’impugnatura era grossa, a pomello, per la nodosità del ramo da cui era stato ricavato, il bastone era proprio un randello, una clava.  Spesso termina a uncino.

In Abruzzo, Terra di pastori, è chiamata molto similmente pirocche, a conferma della secolare transumanza delle greggi verso la Capitanata che poneva gli Abruzzesi a lunghi contatti con le nostre genti del piano.

Esiste una forma di naso “importante”: ‘u nése a paròcche.

I Romani lo chiamano tortòre, forse perché non proprio dritto.

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Papèlle

Papèlle s.f. = Ciglio

Ciascuno dei peli ricurvi disposti sul bordo della palpebra a protezione dell’occhio.

Era usato quasi sempre al plurale.

Per non creare equivoci da quale organo spuntassero questi peli, si specificava sempre ‘i papèlle de l’ùcchje = le ciglia degli occhi.

Papèlle forse deriva da palpebra.

Con un termine più moderno si usa chiamarle ‘i cègghje.

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Paparèlle

Paparèlle s.f. = Ochetta, ghianda, pepiera.

1) Nel significato di ochetta, fig. designa anche quelle adolescenti che si comportano da sciocchine.

2) Designa la ghianda, frutto secco delle querce, protetto alla base da un caratteristico involucro a forma di scodellino, utilizzato per l’alimentazione animale e in alcune applicazioni conciarie.

Perché a Manfredonia le ghiande sono chiamate paparèlle?

Racconto quello che emerge dai miei ricordi: quando uscivo dalla Chiesa Stella (età 7-8 anni) passavo dalla villa e raccoglievo alcune ghiande, le più grosse, perché servivano a fabbricare un modesto “giocattolo”.
In pratica si tagliava orizzontalmente la parte superiore della ghianda, compreso il suo cappellino. La parte inferiore termina a punta e il seme è pieno e sodo. Si conficcava nella polpa il gambo già bruciato de uno zolfanello (puzzolente fiammifero da cucina, chiamato anche “fulmenànde” o “aspjitte nu pöche”) in modo che si formasse una piccolissima trottola, cui si imprimeva il movimento della rotazione passando lo stecco del fiammifero tra i polpastrelli del pollice e del medio.

Si gareggiava con gli altri bambini, e vinceva colui che la faceva girare più a lungo.

Quando ci eravamo stufati di questo gioco, si prendeva un’altra ghianda grossa, decapitata della parte superiore, e si piantava uno stecco più lungo nel suo fianco.

Avevamo così costruito una miniatura di pipa, e la tenevamo a lungo tra i denti come faceva il nonno o Braccio di Ferro/Popeye. Questo atteggiamento ci faceva sentire adulti!

Siccome la pipetta era piccola, veniva chiamata “pipparella”. Il nome si è variato ed è poi diventato “paparella”.

Ripeto sempre, questi sono i MIEI ricordi, e non pretendo di pontificare ed essere infallibile sull’origine dei nomi.

3) Forse per una deformazione fonetica, si usava chiamare paparèlle il contenitore del pepe macinato, in italiano “pepiera”, al posto del piu´ corretto pöparèlle, da pöpe = pepe.

Quella in uso a casa mia, prima dell´avvento della plastica, era tutta di legno tornito, a forma di calice, il cui gambo si svitava per consentire di caricare questo contenitore.
Anche il “top” si svitava per mostrare il “tetto” bucherellato attraverso il quale si poteva spargere il pepe sulle pietanze. Un piccolo capolavoro dell´artigianato locale.

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Papàgne

Papàgne sf = Papavero.

Precisamente erano così chiamati i semi del papavero, perché il fiore (in italiano detto anche ‘rosolaccio’) era chiamato “škàcche” o “škàppe” o “škòppe”).

L’ infuso di semi del papavero in acqua calda e zucchero, era somministrato ai lattanti irrequieti che non volevano prendere sonno, come se fosse stata una semplice e innocua camomilla soporifera.

In pratica i poveri bambini venivano “drogati” con la papaverina, un oppiaceo che si trova nella pianta del papavero!

Volevo vedere se non si addormentavano con quella sostanza in corpo!!

Quando qualche adulto “cascava” dal sonno diceva: “me sté venènne ‘a papàgne”.

Quando ha già fatto un sonnellino: Me so’ appapagnéte.

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Panzètte

Panzètte s.f. = Polpastrello

Piccola parte carnosa interna della estremità delle dita delle mani.

Me sò tagghjéte ‘a panzètte du djitöne = Mi sono ferito accidentalmente al polpastrello del dito pollice.

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Pandaške

Pandaške s.f. Tozzo

Specificamente indica una parte del pane, cotto o crudo, strappato con le mani o per mangiarlo avidamente o per formare una pagnottella più piccola o una focaccina da infornare.

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Palummèlle

Palummèlle s.f. = Farfalla, farfallina.

Anche in napoletano si dice palummella per indicare la farfallina. Ricordate i versi di Salvatore di Giacomo “palummella, zompa e vola….vattènne a loco, vattenne pazziella….io m’abbrucio ‘a mana pe te ne vulé caccià (dalla fiammella della candela).

Anche le falene, molte specie di farfalle crepuscolari o notturne, sono chiamate palummèlle.

Pure le farfalline che si levano dai cereali lungamente conservati in ambiente non idoneo.

Quando uno dice di avere le palummèlle nella pancia vuol dire che è affamato..

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