Tag: sostantivo femminile

Fàcce 

Fàcce s.f. = Viso, volto, faccia.

Parte anteriore del volto umano, dalla fronte al mento.

I modi con cui è combinato il termine porta a numerosi significati, a varie sfaccettature (a proposito di faccia), perché si presta a una ricca polisemia.

Per esempio:

  • Pèrde ‘a facce! = Essere sfacciato, senza ritegno.
  • Nen tenì a facce ‘mbacce = Non vergognarsi.
  • Mètte ‘a facce ‘ind’u ruagne = Provare profonda vergogna.
  • Faccia möje! = Sentire profondo imbarazzo o disagio.
  • Che facce ca tjine! = Ma non hai ritegno a fare certe richieste?
  • Alla faccia töje = Detto a dispetto verso un invidioso.
  • Fàcce-a-pröve = Confronto diretto per verificare una divergenza
  • Tenì fàcce = Essere sfacciato
  • Nen tenì fàcce = Non agire per timidezza
  • Fé döj fàcce = Essere falso
  • Jèsse faccia storte = Mostrarsi ambiguo
  • Fé a faccia storte = Non nascondere un insuccesso, un’umiliazione.
  • ‘Mbàcce = In faccia, di fronte, a cospetto
  • Menarece ‘mbàcce = Inveire, reagire con improperi anche per una inezia.
  • Fé ‘mbacce ‘u nése = Eufemismo, per un sonoro vaffa..
  • Tenì ‘a facce de càzze = Essere privo di ritegno nelle richieste esose o reiterate.

Chissà quante “facce” mancano ancora all’appello!

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Èrve 

Èrve s.f. = Erba

Erba in genere.

Si intende principalmente quella spontanea dei prati sulla quale si mandano a pascolare le bestie o per ricavarne biade.
I pascoli coltivati a scopo foraggiero, producono l’èrva mèdeche = erba medica(Medicago sativa)

Le erbe campesti raccolte per uso commestibili (rucola, bietoline, cicorie, borragine ecc.) sono chiamate genericamente fògghje (non fronne) = foglie.

Il termine generale include anche le alghe che finiscono nella rete a strascico nelle batture di pesca.

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Djasìlle

Djasìlle s.f.= Dies irae

La solita storpiatura del latino da parte di orecchie non avvezze.

Si tratta di una famosissima sequenza latina. Veniva declamata in chiesa durante le orazioni funebri.

Specialmente nel periodo di Ognissanti e della Commemorazione dei Defunti, un sacerdote (io ricordo don Furio e don Cuccia) con la cotta bianca, con la stola viola e un libro nero in mano, accompagnato dal chierichetto che gli reggeva il secchiello dell’Acqua Santa e l’aspersorio, girava nel cimitero, pregando e salmodiando davanti ai loculi questo canto pietoso, come una nenia straziante  in tonalità “minore”.

Lo chiamavano i familiari di qualche morto fresco e lo invitavano a recitare qualche orazione vicino alla tomba del congiunto.

Il prete cantava ovviamente in latino (mi riferisco all’epoca pre-conciliare, e la lingua locale non era ancora entrata nella liturgia ufficiale) il Libera me Domine o il Dies Irae.

Il primo verso Dies irae, dies illa era difficile da ricordare, ma non il dies-illa che invece è rimasto nella memoria, da cui viene la richiesta di cantare la djasille.

La djasìlle è anche sinonimo di tiritera, discorso lungo e noioso in cui si ripetono sempre le stesse cose.
Mò l’uà fenèsce per ‘sta djasìlle? = Ora la finisce con questa tiritera?

Ah Madònne, mò accumènze arröte pe ‘sta diasjlle! = O Madonna, ora ricomincia daccapo con questo discorso assillante e insopportabile.

Siccome mi piace andare in fondo alle questioni, ho trovato in rete il testo del “Dies irae”. Sono parole solenni che nel corso dei secoli sono state messe anche in musica da grandi artisti come Verdi, Pizzetti, Dvorak, Berlioz, Cherubini, Mozart, ecc.

Ecco il testo biblico: Libro di Sofonia 1,15-16
Dies irae, dies illa, dies tribulationis et angustiae, dies calamitatis et miseriae, dies tenebrarum et caliginis, dies nebulae et turbinis, dies tubae et clangoris super civitates munitas et super angulos.

Giorno d’ira quel giorno, giorno di angoscia e di afflizione, giorno di rovina e di sterminio, giorno di tenebre e di caligine, giorno di nubi e di oscurità, giorno di squilli di tromba e d’allarme sulle fortezze e sulle torri d’angolo.

È diventato sinonimo di latùne, lagna tediosa, lunga, deprimente.

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Cutegnéte 

Cutegnéte s.f. = Cotognata
Ammessa anche la pronuncia chetugnéte e cutugnéte.

La cotognata è la marmellata di mele cotogne, tipica preparazione italiana.
La polpa della mela cotogna ha un sapore molto acido e poco gradevole, ma è molto profumata, e per questo non è adatta al consumo fresco.
Risulta invece molto indicata per la preparazione di marmellate, conserve e gelatine, anche per l’alto contenuto di pectine e tannini, che servono ad addensare.

La cotognata ha la consistenza di una gelatina, e si presta ad essere realizzata in mille forme diverse, grazie all’uso di stampi e formine di varie fattezze e misure.

Quella che ricordo volentieri era di marca “La Rocca” di Bari, ed era venduta in mattoncini, dalle dimensioni di quattro dadi da brodo, avvolti in cellofan, dal color nocciola-rossastro, e dal profumo delizioso. Non la spalmavo sul pane, ma la addentavo con avidità: uno due e tre bocconi. Alla prossima volta!

Come per ‘u chetògne = la mela cotogna, anche per ‘a cutegnéte c’era una specie di breve conta:
Chépe e cutegnéte
a chépa töve
jìnd’a pegnéte

Trattandosi di poche sillabe questa conta si attuava con pochi bambini.

Traduzione: Testa e cotognata, la testa tua dentro la pignatta. Solo per questioni di rima, per carità!

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Curröje

Curröje s.f. = Correggia

Cinghia, striscia di cuoio, usata sia per bardare gli animali da sella o da soma, sia per sorreggere i pantaloni. In questo caso si chiamava anche cendurèlle = cinturina

Sinonimo cìnde sf = Cinta, cintura

Quella grossa ad anello (‘u cendöne=la grande cinghia) larga fino a 20 cm e lunghissima, si usava per trasmettere il movimento dal volano del locomobile fisso alla trebbiatrice ancorata nell’aia.

Da bambino ricordo di aver visto anche una correggia che trasmetteva il movimento dal motore elettrico, situato in alto, quasi al livello del soffitto, al tornio a pavimento. Attraverso una serie di pulegge di vario diametro si otteneva la velocità di rotazione voluta sul mandrino facendo scalare il cendöne.
Ora il motore è incorporato nella stessa macchina utensile.

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Cupratüve 

Cupratüve s.f. = Cooperativa

Società fondata sul contributo comune in capitale e in lavoro dei soci allo scopo di ottenere beni o servizi a prezzo inferiore a quello ordinario.

L’unica Cooperativa funzionante a Manfredonia fino agli anni ’60 era quella ubicata sulla Piazzetta del Mercato ed era di proprietà dei fratelli Mondelli.

Era un notissimo negozio di generi alimentari, sicuramente il più fornito di Manfredonia. Figuratevi che nel 1957, tornato da Torino, cercai in tutti i negozi il formaggio stracchino perché lo avvevo apprezzato quando dimoravo al nord.

Nemmeno a Foggia reperii ‘sto benedetto stracchino. Lo trovai invece solo da Nicola Mondelli, socio fondatore della Cooperativa, detto perciò Neculüne ‘a Cupratüve.

Il soprannome corretto sarebbe stato Neculüne d’ ‘a Cupratüve (Nicolino della cooperativa). Ma conoscete già la capacità di sintesi del nostro dialett

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Cupöte

Cupöte s.f. = Torrone

Con il nome “Copeta” si individua un tipo di torrone molto compatto, bianco, con nocciole o mandorle, a volte pistacchi, che viene prodotto in grosse lastre che sono spaccate all’atto della vendita.

Ancora oggi è presente sulle bancarelle durante lo svolgimento le sagre paesane.
La tradizione vuole che la patria del torrone sia Cremona (la città delle tre “T”: Torrùn, Torràsso, Tettùn. 1-Torrone, 2-Torrazzo-torre simbolo della città, e 3-Tettone-abbondante seno delle sue abitatrici…), dove questo dolce sarebbe stato preparato per la prima volta nel 1441, in occasione del banchetto nuziale di Bianca Maria Visconti con Francesco Sforza.

Tuttavia le tracce di preparazioni similari nel Sud d’Italia (Campania e Puglia) sono ben più antecedenti al 1441, e si riferiscono ad un dolce detto appunto ‘copeta’ o ‘cubata’ che deriva evidentemente dall’arabo qubbaita-Kubaba che significa dolce.

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Cunzarüje

Cunzarüje s.f. e top. = Conceria

1 – cunzarüje s.f. = conceria, stabilimento che si occupa della conciatura delle pelli degli animali per trasformale in cuoio.

2 – Cunzarüje = toponimo di Manfredonia che indica una zona costiera, caratterizzata da scogliera, che va dalla prima cala prospiciente l’Hotel Gargano e fino all’Acque de Crìste. Tutti sappiamo dov’è! Evidentemente in passato vi si conciavano le pelli, dato che l’abitato si fermava molto prima, diciamo prima di Via Pulsano (Chiusa di Ze Chìcchje) e Via Monfalcone.

Ricordo io che negli anni ’50 già arrivare in coppia alla Rotonda era considerato una trasgressione perché, quel luogo era appartato e fuori mano. Essendo frequentato da coppiette, era ritenuto un luogo di perdizione…

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Cundassènze

Cundassènze s.f. = Culmine, fondamento, nocciolo di una questione, significato intimo, intrinseco. Anche nel senso di evento inusuale, eccezionale

I nostri nonni spesso ricorrevano a questo sostantivo, a mio parere bello, musicale, e talvolta pronunciavano quìndassènze.

Ho fatto qualche ricerca perché in italiano esiste il sostantivo ‘quintessenza’. Oltre che come termine di filosofia (che in questa sede non voglio e non so spiegare), esso designa una sostanza, un’essenza purissima, ottenuta mediante cinque distillazioni, che gli alchimisti ritenevano fosse la sostanza intima e fondamentale di un corpo. Quindi l’estratto, il succo della questione, quello che resta alla fin fine.

I nostri nonni inconsapevolmente la usavano in senso figurato per indicare l’elemento fondamentale, la caratteristica essenziale, l’intima natura l’anima, lo spirito, il cuore, il grado massimo di qualcosa.

Jà vedì pròprje ‘a cundassènze = Debbo vedere proprio l’epilogo, il finale.

Il grande Totò diceva: “Voglio proprio vedere dove vuole arrivare…”

Chiarisco che per la definizione di “quintessenza” mi sono avvalso del Vocabolario della lingua italiana on line. Io non sono professore e quindi non posseggo una ricchezza di termini così variegata.

Ringrazio l’amico lettore Michele Granatiero per il prezioso suggerimento di questo termine.

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Cumöte

Cumöte s.f. = Aquilone

Struttura formata da due listerelle di canna palustre, una curvata ad archetto teso da un filo, per il sostegno orizzontale e l’altra diritta, verticale, ricoperta di carta, munita di lunga coda formata da anelli di carta concatenati (‘a cöte = la coda, o ‘a catenèlle).

La “cometa” (forse chiamata così, come il corpo celeste, a causa dalla lunga coda), tirata per gioco con uno spago contro vento, si può librare in aria e volteggiare.

Ai miei tempi, in assenza di nastro scotch che non era stato ancora inventato, per fissare la carta alla struttura di cannucce e per formare la coda con anelli di carta, si usava la colla di farina: un cucchiaio di farina e un cucchiaio di acqua. Si metteva tutto ad asciugare sotto il letto, cumöte, füle e cöte= aquilone, filo e coda.

In italiano è ammesso chiamare l’aquilone anche cometa e cervo volante.

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