Tag: sostantivo femminile

Caröte

Caröte s.f. = Barbabietola

Pianta erbacea che presenta due varietà, una a radice carnosa e tondeggiante di colore rosso scuro e di sapore dolciastro, commestibile, (Bieta vulgaris esculenta) e una a radice bianca, dalla quale si estrae lo zucchero (Beta vulgaris crassa)

Non tragga in inganno la somiglianza di caröte con il sostantivo italiano carota.

Quest’ultima, gialla, in dialetto è chiamata pastunéche.

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Cariöle 

Cariöle s.f. = Carriola

Generalmente con questo sostantivo si intende quel carrettino a mano con una ruota e due stanghe, usato dai muratori e dai contadini per spostare piccoli carichi entro piccoli spazi. Una volta erano di legno, ruota compresa. Ora sono di acciaio con il ruotino pneumatico, come appare nella foto di Wikipedia.

Fino agli anni ’50, dicendo cariöle invece si intendeva tutta un’altra cosa: il frutto del nostro fervido ingegno!

Noi ragazzini compravamo dal rigattiere, o da qualche officina, tre cuscinetti a sfera “sballati”, ossia logori e non più adatti ai congegni meccanici.  Possibilmente uno più grande per lo “sterzo”, e due più piccoli e di egual diametro, per l’asse posteriore. Poi delle assi di legno e chiodi.

Si smanicava, magari facendoci aiutare dagli adulti per ottenere il prodotto finito che potete ammirare nella foto di Matteo Borgia. Notate la parte anteriore snodata che opportunamente manovrata dava la direzione voluta al “veicolo”.

La usavamo per andare a caricare un paio di secchi d’acqua al fontanino pubblico, o a portare 30 kg di grano al mulino per la macinazione. In questo caso era un vero e proprio mezzo di lavoro.

Più spesso era un gioco. Ai due bracci del “manubrio” si legava una funicella per trainarla e scarrozzare i fratelli più piccoli. Ossia noi settenni portavamo a spasso i bambinelli di quattro-cinque anni.

Quando fummo più grandicelli, verso i 10 o 11 anni, facevamo un gioco decisamente pericoloso giù per la discesa del Seminario. Ci ponevamo tre o quattro “piloti”, ognuno con la sua carriola, ritti sul pianale, reggendoci alla funicella che fungeva questa volta come un paio di redini.

Al “via!” ci lanciavamo nel nostro “Gran Premio” spingendo all’indietro con un piede il manto stradale  – tipo monopattino – per dare più accelerazione alle ruote.

Da allora mi sono fermamente convinto dell’esistenza dell’Angelo Custode, posto dal Signore a fianco di ciascuno di noi per proteggerci dai pericoli.

Difatti, nonostante gli inevitabili ruzzoloni, siamo usciti illesi da questa follia, anche perché, all’epoca dei fatti raccontati, il traffico automobilistico era pressoché inesistente.

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Carècchje 

Carècchje s.f. = Capesanta, Canestrello, Pettine.

Mollusco bivalve (Pecten jacobeus), con valva destra convessa e sinistra piatta. Ha due ali anteriori poste marginalmente alla cerniera e numerose coste radiali sulle valve. Vive sulla costa atlantica.

I pellegrini di ritorno dal Santuario di S.Giacomo (Santiago di Compostela), in Galizia (ecco l’origine del nome pècten jacobèus = Pettine giacomeo) ne portavano alcune cucite sul copricapo e sul mantello, e una più grande, quella convessa, appesa in vita. La usavano per raccogliere cibo dagli abitanti dei villaggi attraversati nel far ritorno a casa.

Quelle rosa (Aequipecten opercularis) ha dimensioni minori e le valve entrambe convesse, come la carècchja comune (Chlamis varia o flexuosa) hanno la stessa forma, cambia solo il colore, e la parte edule più tenera.

Vivono nei fondali bassi e sabbiosi del Mediterraneo.

A Manfredonia le capesante, o meglio le carècchje sono consumate crude o ammollicate, ossia con mollica di pane, olio, aglio prezzemolo e pepe e cotte al forno.

Quando si vuol smentire qualcuno, come per dire che le sue sono affermazioni senza contenuto, come i gusci vuoti delle canestrelle, si usa la locuzione: Sì, ‘i carècchje = Sì, tu racconti balle! Parole vuote, chiàcchjere mòrte.

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Caraffe

Caràffe s.f. = Caraffa, boccale, brocca.

Oltre al significato di recipiente per liquidi, come vuchéle = boccale, la caraffe era unità di misura nel Regno delle due Sicilie usata fino all’avvento dell’unità d’Italia nel 1860.

Guardate le notizie le ho trovate in rete:

Caraffa: Antica unità di misura di capacità per i liquidi, in uso nel Napoletano. Era di due tipi: caraffa di botte e caraffa di vendita al minuto.
La caraffa di botte, utilizzata nei traffici mercantili, era corrispondente a:

* 0,7270266 litri, dal 1480 al 1811;
* 0,7270270 litri, dal 1811 (legge del 19 maggio) al 1840;
* 0,7270838 litri (= 0,725539 Kg. di acqua distillata), dal gennaio 1841.

La caraffa di vendita minuto, usata nel commercio minuto valeva:

* 0,6609333 litri, dal 1480 al 1811;
* 0,6604190 litri, dal 1811 al 1840;
* 0,6609853 litri, dal gennaio 1841.

La legge del 6 aprile 1840 stabilì che 60 caraffe di botte o 66 caraffe di vendita a minuto costituivano un barile (di vino o di acquavite).

Nella nostra città, la caraffa era utilizzata come unità di misura di capacità per il vino e valeva 0,7277029 litri (= 0,7261627 chilogrammi).

Più o meno quanto l’attuale capacità delle bottiglie bordolesi e renane usate per i vini DOC.

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Capuzzèlle 

Capuzzèlle s.f. = Testina, capoccetta

Testa di agnello o agnellone divisa a metà per la sua lunghezza.

La due metà della capuzzèlle, opportunamente condite (con aglio, prezzemolo, formaggio, olio, sale e pepe),  e passate al forno su un letto di patate a tocchetti, costituiscono una pietanza “povera”, ma molto, molto profumata e gustosa.

Non ho voluto includere la foto delle testine scuoiate perché ho ritenuto che siano inquietanti, più di quelle visibili nelle macellerie, quelle ancora attaccate agli ovini, macellati e appesi per le zampe posteriori.

Etimo: dimin. di testa, capo.

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Capòcchje

Capòcchje s.f. = Glande

Termine anatomico che definisce l’estremità del pene, costituita da un rigonfiamento del corpo cavernoso, alla cui estremità si apre l’orifizio uretrale, e da un cercine basale.

Insomma non si tratta della capocchia ingrossata e arrotondata di spilli e fiammiferi…

L’etimo è sempre “capo” nel senso di testa.

Fuori dai denti: si tratta di un sinonimo di chépe de cazze, ma solo in senso fisico.

Quando qualcosa non è stata eseguita correttamente si dice: sté fàtte a capòcchje = a vanvera, senza riflettere, a caso, in modo bizzarro, alla carlona

L’amico Lino Brunetti alla voce capòcchje ricorda un tale (clicca qui→) Ferdinando.

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Capèzze

Capèzze s.f. = Briglia, cavezza

Briglia, fune che si mette alla testa dei cavalli o di altre bestie da soma per tenerli legati alla mangiatoia o per condurli a mano.

Può significare anche capestro, fune usata per le impiccagioni.

Mò ce ne vöne p’a capèzza ngànne = Ora se ne ritorna con la corda al collo.

Figuratamente si declamava questo detto per indicare qualcuno che in precedenza si era comportato da scapestrato (ecco che ritorna capestro) e alla fine, come il figliol prodigo della Parabola evangelica, se ne torna da suo padre.

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Capesciöle

Capesciöle s.f. = Nastrino, fettuccia.

Fettuccia di cotone usato per legature di federe di guanciale, di mutandoni lunghi, di sacchetti, di faldoni, di raccoglitori di documenti, ecc.

Vengono cucite ai bordi dei due lembi da legare.

Origine del termine: il grande filologo tedesco Gerhardt Rohlfs ipotizza che il termine possa derivare dallo spagnolo capichola, che indica una specie di  tessuto di seta.

Nel Salento è considerato un diminutivo di capišciu, ossia, cavezza, capestro, legaccio per sostenere le viti.

Con varie inflessioni, troviamo questo sostantivo in Puglia e in molte località della Basilicata.

Al plurale indicano, per estensione, cose di nessun valore. Vènne i capescöle = vendere fettucce di stoffa, fare commercio senza conseguire un apprezzabile margine di guadagno.

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Capellüne 

Capellüne s.f. = Capigliatura

Di solito si intende una chioma, maschile o femminile, ben curata e ordinata, nonché la stessa pettinatura accurata.

Vüte a jìsse che bella capellüne ca töne! = Guardalo che bella pettinatura che ha!

Come neologismo è il plurale di capellöne = capellone, hippy, movimento giovanile degli anni ’60 caratterizzato dalla lunga capigliatura dei maschi.

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Capellöre

Capellöre s.f. = Pettinatrice

Donna che si guadagnava da vivere dedicandosi ad acconciare i capelli a domicilio.

Copriva le spalle della cliente con una tela bianca, scioglieva e lavava i capelli, li pettinava accuratamente col pettine rado (‘a pettenèsse) e poi con quello fine (‘u pèttene) alla ricerca di eventuali focolai di pidocchi. Dopo l’asciugatura, riformava le trecce e le riavvolgeva a crocchia.

I lunghi capelli che restavano fra i denti del pettine e sulla tovaglia posata sulle spalle venivano raccolti accuratamente e inseriti in un sacchetto con chiusura a borsa di tabacco.

Quando il sacchetto era pieno diventava merce di scambio con uno specifico venditore ambulante. Difatti costui dava in cambio due saponette, o un pennello da barba, o una spazzola per abiti, o alcune scatole di lucido per scarpe, o cinque metri di elastico per mutande, ecc.

Presumo che i capelli umani di una certa lunghezza erano molto richiesti dalle fabbriche di parrucche: e se no che se ne facevano?

Il mestiere è passato quale soprannome a indicare una specifica famiglia.

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