Tag: sostantivo maschile

Chjanghjire

Chjanghjire s.m. = Macellaio, beccaio.

Sinonimo di Vuccjire.

Persona addetta al taglio e alla vandita di carne al minuto.

Presumo che il termine derivi da chjanghe, la base, in questo caso di legno, chiamato ceppo in italiano, su cui il beccaio appoggia il pezzo di carne prima di usare i vari coltellacci e le mannaie per spezzettarne le ossa.

Il termine è antico, ora non si usa più nemmeno vuccjire, ma si dice ‘u macellére= il macellaio…

Questo è dialetto che scompare!

Alcune persone anziane mi hanno  fatto sapere che il sostantivo ‘u chjanghjire, oltre al beccaio, indicava anche la persona addetta alla posa e alla manutenzione delle chjanghe.

Oserei tradurre scalpellino o basolatore, ossia addetto alla basolatura delle strade.

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Chjànda-chjande

Chjànda-chjande s.m. = Piagnisteo.

Sconforto, afflizione, cordoglio , lamento, ecc. ecc.

Madò, so stéte au funeréle: e che chjanda-chjande! = Madonna! Sono stato al funerale: e che piagnisteo!

Chjànda-chjande: il termine dà la sensazione che il pianto sia diffuso, corale, anche se non è espresso.

A volte usato figuratamente per indicare devastazione, abbandono, rovina, desolazione, ad esempio una coltivazione finita in malora per siccità o alluvione.

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Chjamjinde

Chjamjinde s.m. = Fenditura, giuntura, fuga

Si usa generalmente al plurale. Questo termine indica fra gli Artigiani l’interstizio tra due o più elemento omogenei (dello stesso tipo di materiale).

In edilizia, ad esempio, indica la fuga fra le piastrelle della pavimentazione o del rivestimento. Talora, mediante opportuni distanziatori, le fughe sono volute ed evidenziate da una colorazione più marcata per ottenere un gradevole effetto cromatico. Ora con termine tecnico preso dalla lingua italiana, si chiamano ‘i füghe = “le fughe”.

Chjamjinde sono anche le giunture “aperte” – questa volta indesiderate – fra le basole di pietra lavica di Corso Manfredi, causa di inconvenienti ai tacchi delle scarpe femminili…

Anche nei cantieri navali le giunture nelle assi di legno del fasciame sono chiamate chjamjinde.
Per quanto si montino il più possibile accostate, lo spazio tra di esse si può colmare solo con l’operazione di calafataggio.

Si riempiono le fessure con stoppa pressata e poi si ricoprono con bitume o pece in modo che lo scafo diventi impermeabile.Operazione detta calafataggio.

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Chjamatöre 

Chjamatöre s.m. = Chiamatore

Fino a pochi decenni fa, i pescatori anziani si rendevano utili – data la scarsa propensione verso una sana e lunga dormita, a causa della carenza di sonno dovuta all’età avanzata – andando a svegliare di buon’ora quelli più giovani, invitandoli a prendere il mare e rassicurandoli sulle favorevoli condizioni meteorologiche.

Meh, fìgghje, meh, ca jì tàrde! Jàvezete e va a mére ca ‘u tjimbe jì bùne! Uhé scìttete före!

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Chjalètte

Chjalètte s.m. = Tarallini con glassa ( a occhialino)

E’ un prodotto dolciario casareccio.

Sono delle ciambelline composte di farina, zucchero, uova e ricoperte di glassa. Di dimensioni minori delle scarièlle.

Sono chiamati anche taralle ‘ngeleppéte , ossia ricoperti di giulebbe (glassa di albume e zucchero).

Si può scrivere come spesso viene pronunciato, col rafforzativo iniziale: cchjalètte.

Questi dolci fanno parte della tradizione culinaria di Pasqua di tutto il Sud Italia. Alcuni, in fase di preparazione, li cospargono di confettini colorati

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Chiapparüne 

Chiapparüne s.m. = Càppero

Etimo di origine arabo-persiano Al-qâbar.

Il cappero (Capparis spinosa) appartenente all’ordine delle Brassicacee, fam. Capperacee, è coltivato fin dall’antichità ed è diffuso in tutto il bacino del Mediterraneo.

Cresce spontanea solo sulle rupi calcaree, nelle falesie (coste rocciose con pareti a picco sul mare), su vecchie mura, formando spesso cespi con rami ricadenti lunghi anche diversi metri. Necessita di sole e di pochissima acqua.

Della pianta si consumano i boccioli, detti capperi, e più raramente i frutti, detti cucunci, a forma di piccolissimi cetriolini. Entrambi si conservano sott’olio, sotto aceto o sotto sale.

In dialetto si usa chiapparüne sia al singolare, sia al plurale.

Io ricordo anche un Montanaro con la voce squillante che, fino a pochi anni fa, vendeva i capperi per le vie di Manfredonia: “Chiapparìne, chiapparìiiiine!”

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Chetògne

Chetògne s.m. = Mela cotogna

La frutta, come la mela cotogna è linguisticamente parlando, sempre al femminile (la pera, la banana, la pesca, l’albicorra, la ciliegia, ecc.) In dialetto invece è maschile ‘u chetògne. Al plurale la ‘ó’ ha un suono acuto ‘i chetógne.

Il cotogno, qui inteso come pianta (Cydonia oblonga) appartiene alla famiglia delle Rosaceae

La polpa del frutto, che è praticamente immangiabile anche in fase di maturità, pochissimo dolce, dura, e piuttosto acre, subisce con la cottura, una trasformazione drastica degli zuccheri “a lunga catena” contenuti ( quindi “poco dolci”) in zuccheri decisamente “dolci”, con uno spiccato profumo di miele.

‘I chetógne erano nominati in una sorta di filastrocca che si recitava per fare la conta (al posto di “Ah, nghi. ngò, tre civette sul comò…):
Chépe chetógne
‘u möse d’ajóste
e la cucchjére
e la furcjüne
e la scu-tèl-la.

Il bambino che faceva la conta, sillabava la filastrocca toccando con la punta delle dita – ad ogni accento tonico –  gli altri disposti in cerchio. Ogni sillaba ad un bambino. Le ultime tre sillabe venivano pronunciate rallendando il ritmo in modo che chi era toccato per ultimo con la sillaba -la di scutèlla era il designato.

Ah stavo dimenticando la traduzione: Testa di mela cotogna, il mese di agosto, e il cucchiaio, e la forchetta e la scodella.

Quel chépe chetógne può significare “una delle più grosse mele cotogne”, o anche “una delle prime che cadono dalla pianta”.

Comunque non c’è alcuna logica nelle filastrocche.  Difatti quale logica ci sarebbe nell’accertare che le tre civette sul comò facevano l’amore con la figlia del dottore?

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Chésecavalle

Chésecavalle s.m. = Caciocavallo

ll caciocavallo è un formaggio stagionato a pasta filata tipico dell’Italia meridionale di forma tondeggiante, a “sacchetto”, prodotto con latte particolarmente grasso di mucche podoliche, con l’aggiunta di solo caglio, fermenti lattici e sale.

Mio padre lo chiamava chésecavadde, come cepodde, martjidde, curtjidde, passarjidde jaddüne, e tutte le parole che in italiano contengono la doppia elle, specie come desinenza. La lingua si evolve perché certe pronunce erano ritenute rozze.

Torniamo a noi: questo formaggio viene detto così perché, per la stagionatura, legato in coppia, viene posto “a cavallo” di una pertica orizzontale. Se la stagionatura supera i dieci mesi il formaggio assume una sapore leggermente piccante, apprezzatissimo dai buongustai.

Curiosamente esiste un formaggio largamente usato in Turchia e nei Paesi balcanici (Bulgaria, Macedonia, Serbia, Romania), chiamato quasi come il nostro chésecavalle, il Kaşkaval кашкавал ma prodotto con latte di pecora e consumato dopo una brevissima stagionatura.

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Chése-recòtte

Chése-recòtte s.m. = Cacioricotta

Il Cacioricotta è un formaggio tipico del Sud Italia. Prodotto ibrido della lavorazione del latte.

È usato come pietanza e anche grattugiato sui maccheroni al sugo.

Io preferisco la ricotta dura grattugiata col sugo di pomodori freschi al basilico.

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Chése 

Chése s.m. e s.f. = Cacio, casa

1) Chése s.m. (dal latino càseus): latte di pecora, di capra, di mucca o di bufala cagliato, salato, cotto e preparato nelle forme, da cui dicesi anche formaggio. Curiosità i tedeschi dicono Käse (pron. chése, come la nostra).

2) Chése s.f. = edificio di muratura che serve da abitazione.

A chése = a casa mia. Infatti l’agg. mia è sempre sottinteso. Se voglio dire a “casa tua” dico: a càste.

Jüje a chése e tó a càste = Io a casa mia e tu a casa tua.

Al plurale gli articoli ‘u ‘a diventano ‘i, mentre il sostantivo resta invariato.

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