Si tratta di linguaggio da carrettieri. Alla lettera significa: Ciuchi al timone e muli al bilancino.
Di solito al timone, ossia tra le stanghe del carrettone, di poneva un cavallo, più obbediente e sveglio del mulo, e al bilancino, ossia al tiro affiancato, un altro equino che eseguiva più l’andamento del carro che i comandi del carrettiere.
Gli asini e i muli sono considerati più animali da soma che da tiro. Messi a trainare il carro non sono proprio l’ideale per il corretto andamento del trasporto.
Figuratamente il proverbio si cita quando si vuole evidenziare che al vertice, al “comando” della casa, di un’Azienda, di un’Impresa, di un’Amministrazione, ecc. ci sono delle persone inadatte, incapaci, inefficienti e/o incompetenti (succede, succede…)
Gianni era nato e la mamma lo vedeva già grande, sposato, affermato, realizzato.
L’amore di ogni mamma vede già nella sua creatura una persona di grande successo.
Il nome assegnato frugoletto, secondo le tradizioni di famiglia, è diverso: qualcuno lo chiama Tatte, altri Giuànne. Mia suocera, che era molto sfottente, lo aveva “battezzato” con un termine impertinente, e aveva coniato il verso finale: ho avüte ‘nu fìgghje e l’avöve misse a nöme Dunéte.
Il proverbio vuole frenare coloro che, in termini temporali e nella foga del discorso, si proiettano in un futuro che va molto al di là del proposito attuale, il quale, proprio perché progetto, non stato ancora realizzato. Un passo per volta! Step by step.
Ad esempio, parliamo della patente di guida che nostro figlio intende conseguire, e già uno o l’altro dei genitori parla dei diversi modelli di automobile che potrebbe acquistare, del colore della carrozzeria, del tipo di assicurazione, di quanto costa l’uso dell’autorimessa o la sostituzione dei pneumatici dopo 40 mila km… ecc. ecc.
Calma! Vediamo prima se il ragazzo riesce a superare gli esami!
Chjàcchjere e tabbaccöre de lègne, ‘u Banghe de Nàpele nen l’imbègne
Chiacchiere e tabacchiere di legno il Banco di Napoli non le impegna.
È un Detto molto antico.
Per capirne il significato bisogna rammentare i tempi di miseria, allorquando – allo scopo di frenare lo strozzinaggio – sorsero come Enti caritativi, i Monti di Pietà.
Uno di questi, qui al Sud, era il Banco di Napoli.
Ricordiamo che non esistevano né la Cassa Integrazione, né l’indennità di malattia, né alcuna altra forma previdenziale. Quando il capo famiglia si ammalava ad esempio di malaria, non percepiva né salario, né indennità. Purtroppo c’era la fame, quella vera….
Per provvedere al sostentamento della famiglia costui faceva ricorso ad usurai spietati. Per evitare questa angheria, i Monti di pietà elargivano piccole somme dietro garanzia di un bene (‘mbegné = impegnare). Ad esempio un anello della mamma, una collanina, una chitarra, una coperta di seta, ecc. Quando il ricominciava a lavorare, restituiva al Monte di Pietà la somma ottenuta, senza versare interessi, per riottenere (spegné = disimpegnare) il bene ceduto a garanzia.
Ovviamente se un oggetto valeva 10 la somma ottenuta nun superava 5, per evitare “furbizie”.
Chiaramente in Banco dei Napoli (citato in questo Detto, e generalmente il Monte di Pietà) non prendeva in pegno le tabacchiere di legno, perché non avevano alcun valore, ma accettava solo quelle d’argento in uso nel secolo XIX. Ossia in valore del pegno, come ho detto sopra, doveva essere superiore alla cifra prestata. Esattamente come l’ipoteca che nella nostra epoca le Banche accendono su un immobile al momento di stipulare un Mutuo immobiliare.
Ora torniamo al nostro Detto. Viene sentenziato quando, al termine di un discorso, di una discussione, di un ragionamento, non si realizza una soluzione pratica. Ossia non si passa dalle parole ai fatti..
Quanto più siamo in pochi, tanto più appariamo belli.
Un proverbio un po’ consolatorio. Difatti se si prepara una festa, uno spettacolo, un incontro, ecc. e alla fine il numero dei partecipanti è piuttosto striminzito rispetto su quanto preventivato, allora un’anima buona fa questa sortita.
Siamo pochi? OK, ma siamo i migliori.
Renzo Arbore ha intitolato un suo programma “Pochi siamo e meglio siamo”
Piove e soffia il vento! Fai pipì e vieni a coricarti.
Un contadino si alza all’alba, d’inverno, per andare a lavorare nel suo campo. Si avvicina all’uscio di casa per osservare le condizioni meteoreologiche e da quelle decidere se è il caso di uscire.
La moglie si accorge del movimento e, dal letto caldo, chiede al marito: – Cum’jì ‘u tjimbe? = Com’è il tempo?
Lui risponde: – Chiöve e möne ‘u vjinde. = piove e soffia il vento.
Lei, rendendosi conto che non è giornata per lavorare, ribatte prontamente: – Pìsce e vjinte cùleche! = Fai pipì e torna a coricarti, così non prendi freddo.
La conclusione pragmatica della moglie è inaspettata, e perciò induce al sorriso.
Notte serena di gennaio è come il giuramento di una puttana.
Insomma non è credibile, non è affidabile.
Proverbio meteorologico che mette in guardia i naviganti dal fidarsi delle serene notti invernali, perché in questa stagione esse possono presentare un repentino peggioramento.
Notate come il proverbio abbia otto sillabe nella prima parte e altre otto nella seconda, molto ben cadenzate. Probabilmente erano nate come testo di un motivo musicale.
Ringrazio il dott. Matteo Rinaldi per il suo prezioso e calzante suggerimento di questo proverbio stagionale.
Proverbio completo: Chiànghere de lavannére, rutjidde de marenére = Pietre di lavandaia, capannello, raggruppamento di pescatori.
Dove ci sono gruppi di donne, è inevitabile che attorni vi ronzino i maschi.
In questo caso si riferisce alle lavandaie che sbattono i loro panni sulle lastre di pietra naturale alle sorgenti di acqua salmastra del Mandracchio o di San Pietro (dietro l’ex Istituto Nautico, ora Liceo Classico)
Attenzione: la parlata moderna preferisce (clicca→) rutjilleall’autentico antico termine dialettale rutjidde.