Mettìrece’u völe ‘nanze a l’ucchje.

Mettìrece’u völe ‘nanze a l’ucchje.

Alla lettera significa: mettersi in velo davanti agli occhi.

1 – Metaforicamente indica l’accecamento dovuto alla collera e alla stizza.

Esempio:
M’agghje mìsse ‘u völe ‘nanze a l’ucchje, nen agghje capüte cchjó njinde e l’agghje menéte ‘nu recchjéle
= Mi sono accecato dalla collera, non ho capito più nulla e gli ho mollato un ceffone.

2 – Corrisponde anche, sempre metaforicamente, all’espressione italiana di “turarsi il naso” o “tapparsi le orecchie” nel senso di non voler accettare in cuor proprio di eseguire un’azione ritenuta riprovevole, ma di essere costretti a compierla ugualmente.

I Latini dicevano Obtorto collo = Malvolentieri, a malincuore, forzatamente.

Esempio:
M’agghje mìsse ‘u völe ‘nanze a l’ucchje e l’u so’ jüte a truéje alla chése
 = Mi son coperto gli occhi e sono andato a fargli visita.

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Mètte au lìbbre ‘i mùrte

Mètte au lìbbre ‘i mùrte

Mettere nel libro dei morti

Questa locuzione viene riferita a un oggetto smarrito o a un credito irricuperabile. Ossia non fare più affidamento sul suo ritrovamento o ricupero.

Come se esistesse un libro dove annotare queste perdite (una improbabile contabilità).

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Mètte ‘u zuppe a ballé e ‘u sciàlepe a candé

Mètte ‘u zuppe a ballé e ‘u sciàlepe a candé

Alla lettera significa ordinare allo zoppo di ballare e al bleso di cantare.

Ossia, dare ordini sballati, cervellotici, inopportuni.

Tuttavia mi permetto di dire un paio di cose: i balbuzienti o i blesi, miracolosamente, se li metti a cantare – ammesso che non siano stonati – se la cavano egregiamente. E anche lo zoppo, arrancando, magari dà dei punti a coloro che si sentono normodotati.

Fanno bene, i portatori di handicap, a protestare: “Siamo diversi? Diversi da chi?!”

Non sottovalutate mai nessuno.

Allora è meglio usare la frase: urdené a papòcchje = dare ordini senza discernimento.

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Mètte ‘u pèsce mocca alla jatte

Mètte ‘u pèsce mocca alla jatte

Mettere il pesce in bocca alla gatta.

Questo simpatico proverbio ci ammonisce di non agire troppo ingenuamente, di non offrire il fianco agli altri che potrebbero colpirti o criticarti. Ovviamente si tratta di linguaggio figurato.

Parlando sempre figuratamente, se metto un pesce in bocca alla gatta non posso certo attendermi che lo sputi fuori. Quella se lo mangia senza indugi perché ne è ghiotta.

Se lascio un’automobile con la chiave nel cruscotto e lo sportello aperto, invito un malintenzionato a farmela rubare.

Se lascio il fornello del gas acceso e me ne vado in un’altra stanza, devo aspettarmi un disastro.

Se in spiaggia mi metto al sole senza protezione vedrò alzarsi le bolle sulla pelle.

Se esco a torso nudo in pieno inverno mi buscherò una polmonite.

I nostri nonni si guardavano bene di lasciare soli in casa i nostri giovani genitori durante il periodo del loro fidanzamento, proprio per evitare sorprese da lì a pochi mesi!

Insomma la prudenza non è mai troppa.

Se non usiamo la prudenza qualcuno potrebbe agire secondo una sua logica non secondo le nostre attese.

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Mené l’acjüte ‘ngüle ai chéne

Mené l’acjüte ‘ngüle ai chéne

Significato letterale: fare delle perette di aceto ai cani randagi.

Cosa che nessuna persona di buonsenso si sognerebbe mai di fare.

Significato reale: non aver altro da fare, perché si è perditempo, sfaccendati, annoiati, fannulloni.

Ma che mestjire che töne Pasquéle? Uhm, vé menànne l’acjüte ‘ngüle ai chéne! = Ma che mestiere ha Pasquale? Uhm, è un perditempo, un fannullone, che non ha né arte né parte..

Cioè: “Ma, va fatüje, va!” = Ma vai a lavorare

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Mène e manuzzèlle…

Mène e manuzzèlle…

Questa filastrocca è la colonna sonora di un giochino che le amorose mamme facevano con il loro bimbetto, accavallando alternativamente una sua mano a quella del figlioletto, allo scopo di farlo familiarizzare con la parlata:

Méne e manuzzèlle
preparéme ‘a zuppetèlle:
mettüme péne e vüne,
facjüme ‘a zóppe a Gesó Bambüne.

Gesó Bambüne anghjéne anghjéne
e vé a sunéje li cambéne.
‘I cambéne so’ stéte sunéte
e tutte lu mónne ce jì salvéte!

Mano e manina, prepariamo la zuppetta: mettiamo pane e vino, facciamo la zuppa a Gesù Bambino. Gesù Bambino sale, sale e va a suonare le campane. Le campane sono state suonate e tutto il mondo si è salvato.

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Mené ‘a fàcce de Gése Crìste pe’ ‘ndèrre

Mené ‘a fàcce de Gése Crìste pe’ ‘ndèrre

Buttare il volto di Gesù Cristo per terra.

Scartare, eliminare, gettare via qcs. di eccellente, anche figuratamente, in quanto rutenuto inservibile.

Non avere il nimimo segno di rispetto verso un benefattore, essere ingrati, o non apprezzare le proprie condizioni, ritenendole inadeguate alle attese.

E questa sottovalutazione riguarda sia la propria salute, sia la propria agiatezza economica.

Succede infatti che si è portati a lamentarsi del proprio stato senza aver guardato altri che stanno molto, ma molto peggio di sé.

È come se facessero un’empietà, come infangare il volto Cristo buttandolo per terra.

Nen parlànne acchessì, tó mò sté menènne ‘a fàcce de Gese Crìste pe’ ‘ndètte = Non parlare così, tu ora stai mostrando ingratitudine.

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Megghjèreme nen lu völe e jü me l’attònne

Megghjèreme nen lu völe e jü me l’attònne

Mia moglie non lo vuole e io me lo mangio.

Premetto che le donne sono spesso in dieta, e sanno resistere alle tentazioni della gola (ciangularüje = golosità) meglio degli uomini.

Quando capita di trovarsi in un salotto e vengono offerti dolcetti, la donzella si schernisce e declina l’invito con una scusa qualunque. Il marito invece non fa complimenti, prende il suo dolcetto, e poi un altro, dicendo per celia: poiché mia moglie non vuole questo pasticino, in vece sua me lo trangugio io!

Ora entra in ballo quel verbo attunné (jü me l’attònne= io me lo arrotondo). Alla lettera significa rendere qlco di forma rotondeggiante.

Qui in senso è traslato (jü me l’attònne= io me lo arrotondo). Come per dire si arrotola o si appallottola qlco in modo che entri in bocca facilmente.

Ringrazio l’assiduo lettore Enzo Renato per l’imbeccata.

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Mègghje a farle ‘nu vestüte ca ‘nvetàrle a mangé

Mègghje a farle ‘nu vestüte ca ‘nvetàrle a mangé

È più conveniente regalargli un vestiro piuttosto che invitarlo a pranzo.

Questo Detto, a guisa di gossip, è uno sfogo con un amico riferendosi ad un terzo soggetto, noto per il suo pantagruelico appetito.

Il termini economici costerebbe meno un vestito rispetto al valore della roba che addirittura costui sarebbe in grado di trangugiare.

Oggi non ci pensa più nessuno: se si invita qlcu a mangiare, lo si fa più per stare insieme che per la mangiata in se stessa. E se si nota che l’ospite mangia in quantità industriali, lo si definisce “buongustaio” che “fa onore alla tavola”, con gran soddisfazione della padrona di casa.

Ma una volta, diciamo fino a metà degli anni ’60, si badava moltissimo all’economia domestica, perché le ristrettezze economiche stigmatizzavano qualsiasi eccesso, e l’invito a pranzo era piuttosto raro. Ognuno a casa propria a mangiare quel poco che disponeva.

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