Tag: sostantivo femminile

Capetògne

Capetògne s.f. = Capriola, capitombolo

Accettabili le versioni capetonne o chépetonne.

Definizione della Treccani:
«Salto che si fa mettendo le mani o il capo a terra, slanciando le gambe in aria e rovesciandosi su sé stessi» 

I bambini la fanno per divertire se stessi; i clown le fanno multiple nei circhi per divertire gli altri.

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Giógge

Giógge s.f. = Caramelle balsamiche

Pastiglia gommosa zuccherata, di forma emisferica, aromatica o medicinale.
Sono caramelline gommose, al sapore di menta, ricoperte di zucchero semolato.
Le più note sono prodotte da oltre 100 anni dalla Valda e vendute nelle inconfondibili scatolette rotonde di latta.

Sono balsamiche e vengono usate, specie da parte dei fumatori, per il trattamento delle irritazioni delle vie respiratorie.

Il nome giógge dato dai nostri antenati è una storpiatura di “giuggiola”, con la quale non ha nulla da spartire…

Ricordo che nel negozio di Viscardo erano in bella mostra sul bancone, dentro un contenitore di vetro a bocca larga. Evidentemente erano vendute sfuse, a peso.

A noi bambini queste caramelle non facevano gola perché erano di sapore penetrante e poco dolce. Preferivamo quelle lunghe di Pasqualino, tipo grissino, a base di zucchero in pasta bicolore, di fattura domestica.

A Cerignola sono dette sciusciù.


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Rüsce

Rüsce s.f. = Carbonella

Si tratta di carbone vegetale spezzettato, tuttora in vendita in sacchetti di carta preconfezionati, usato per preparare la grigliata.

Anticamente veniva usata per riscaldamento domestico, accesa in capienti bracieri, e coperta di cenere per prolungarne la durata.
Era possibile acquistare la rüsce già accesa dai fornai, quando la rimuovevano dal forno, essendo un residuo della legna usata per riscaldarlo, prima di introdurvi il pane per la cottura.
Ci si recava al forno con un secchio o un altro recipiente, e con pochi spiccioli si otteneva una palata di rüsce ardente che alimentava il braciere fino a sera.

Potrebbe derivare dal francese (charbon) roussi = carbone bruciato

I pezzi grossi del carbone erano detti carevüne a ciocche = carboni a ciocco.

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Balüce

Balüce s.f. = valigia

Anche questo termine deriva dallo spagnolo balija.

Preparare la valigia per una vacanza è una gioia.

Allestirla per emigrare – come è accaduto ai nostri ragazzi negli anni ’50 – lo è stato molto meno. Partivano per il Belgio o per Milano “con la balicia di cartone attaccata con la zoca”…

Ora le valigie si chiamano “trolley” ed hanno le rotelline.

Una volta quando i viaggiatori arrivavano nelle stazioni di Milano, Napoli, Palermo, Torino, ecc. trovavano i “portapacchi” (chiamati spregiativamente “facchini”) che trasportavano il bagaglio o al treno in partenza, oppure all’uscita per quelli arrivati, avvalendosi di lunghi carrelli con due sponde, spinti a mano.

A Manfredonia c’era “Kerille” che, rigorosamente a spalla, portava le valigie dal treno fino alla prima carrozzella o magari fino all’Albergo Italia. Il compenso era risibile, ma serviva per sfamare onestamente la sua famiglia.

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Salamöre

Salamore s.f. = salamoia

Soluzione di cloruro di sodio (sale da cucina) in acqua ad una concentrazione di circa il 5%, allo scopo di conservare i cibi. Usato dalle industrie nella preparazione di alcune conserve vegetali o talvolta al posto dell’aceto.

Trova impiego anche in ambito domestico perché il suo effetto conserva gli alimenti bloccando lo sviluppo di agenti batterici,
Specificamente la salamöre (arricchendo la soluzione con semi di finocchio, spicchi aglio, mortella o altri aromi) viene preparata come “concia” per le olive.

Il termine deriva dallo spagnolo salmuera.


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Ménaröle

Ménaröle s.f. ( o Vròcchele)= Menarola, girabacchino

Si tratta di un trapano a manovella usata per praticare fori nel legno fino al diametro di 12 mm. Non è adatto per forare il ferro, ove è richiesta una forza maggiore.

L’impugnatura rotante è eccentrica rispetto all’asse dell’attrezzo, che termina generalmente con un mandrino per il fissaggio della punta perforante.  La parte superiore termina con un pomello reggispinta, anch’esso rotante.

Usata anticamente dai carradori e tuttora dai falegnami restauratori per piccoli interventi. Con termine ormai desueto era chiamata anche vròcchele, (etimo sconosciuto) o più semplicemente tràpene a méne = trapano a mano, o ggirabbacchìtte = girabacchino.

Per fori in orizzontale su infissi verticali si appoggiava il pomello superiore al petto per avere maggiore spinta. Per i fori verticali si premeva con palmo della mano sinistra,  mentre l’altra si girava la “manovella” del girabacchino con moto destrorso.
Le menarole di ultima generazione erano munite di un cricchetto unidirezionale al mandrino che consentiva di manovrare anche a un quarto di  giro per volta quando si operava in ambienti angusti.

Parlo al passato perché al giorno d’oggi i moderni trapani  elettrici o addirittura gli avvitatori portatili a batteria assolvano rapidamente questo compito.

Il principio della rotazione del girabacchino, cioè l’asta piegata a U che forma un eccentrico, viene applicato anche per manovrare il cric. In questo caso il terminale, al posto della filettatura che regge il mandrino, ha una piegatura a gancio
Anche il bastone che solleva il tendone da sole a rullo o di certe serrande avvolgibili usa lo stesso sistema.

Il termine girabacchino (detto in varie Regioni girabecchino o girabarchino) deriva dal francese vilebrequin,= albero a gomiti (dal vocabolario Treccani).

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Scurènze

Scurènze s.f. = Annebbiamento

È usato nella locuzione scurènza d’ucchje per indicare un offuscamento della vista dovuto a malore, tanto da sentirsi mancare, quasi da cadere in deliquio.

Usato anche come equivalente delle locuzioni in lingua “andare il sangue alla testa” e “non vederci più” come causa di gesti incontrollati a seguito di una solenne arrabbiatura. Insomma una reazione forse spropositata ad una ingiustizia, ad un torto, ad un’offesa.

Sicuramente deriva da scurènze deriva da scuro, buio.
In effetti un attimo prima di svenire si “vede” tutto nero. Insomma si è preda di una scurènza d’úcchje.

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Vüje de San Giàcheme Jalìzzje

Vüje de San Giàcheme Jalìzzje s.f. = Galassia, Via lattea

Alla lettera si traduce come “Via di San Giacomo di Galizia”, che sarebbe il famoso “Cammino di Santiago di Compostela”, la città della Galizia (Spagna) che attrasse fin dal Medioevo pellegrini da tutta Europa.

Ma che c’entra San Giacomo con la Via Lattea?

Esistono diverse leggende popolari sulla presenza della Via Lattea nel cielo stellato. Riporto testualmente le parole del dott. Matteo Rinaldi (cui va il mio sentito ringraziamento) che si riferiscono alla leggenda diffusa fra noi Pugliesi:

«Nel nostro Tavoliere, caratterizzato soprattutto dalla sua prevalente attività agricola, quella Galassia veniva quasi sempre attribuita ad una scia di paglia che un antico carrettiere aveva perso dal suo carro (una volta veramente per il trasporto della paglia si usava il cosiddetto carrettöne che era più capiente del carro) mentre faceva ritorno verso la montagna.
Un tempo, la paglia scarseggiava nei territori montani e la si andava a recuperare nelle campagne del Tavoliere, in quelle campagne che facevano parte, con un termine onnicomprensivo, della “puglia”»

Mio padre (classe 1901) me la raccontò arricchita di un particolare: il carrettiere era “San Giàcheme Jalìzzje” in persona e la paglia era stata rubata in una masseria della Puglia piana. Gesù gli ordinò di restituire immediatamente il maltolto e per percorrere a ritroso lo stesso itinerario, dato che ormai era notte, la scia di paglia perduta in precedenza divenne luminosa per consentirgli di compiere l’azione riparatrice in tutta sicurezza.

Ovviamente mio padre non aveva idea, nemmeno lontanamente, dell’esistenza della Galizia sulle rive spagnole dell’Atlantico. riteneva Jalizzje o Vijalìzzje fosse il cognome o il soprannome dell’Apostolo San Giacomo.

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Sparètte

Sparètte s.f. = emanazione di luce, irraggiamento solare, sprazzo di sole.

Viene definito sparètte un gradevole raggio di sole, specie nella stagione invernale, allorquando fa capolino attraverso uno squarcio di nubi nel cielo coperto.

Trovandosi all’aperto, ci si sofferma volentieri a farsi scaldare sotte ‘a sparette de söle, specie se si incontra qualcuno con cui scambiare quattro chiacchiere.

Ho sentito pronunciare sprètte, probabilmente per influenza di dialetti viciniori.
In Calabria dicono spère ‘i sole
In Romagna sprai ad sol

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Arte

Arte s.f. = mestiere

Arte viene usato prevalentemente al posto di mestiere, per indicare un’attività manuale svolta continuativamente per procacciarsi un guadagno.
Ecco alcuni modi di dire riferiti all’arte:

Nen töne che arte fé. = Non sa come impiegare il suo tempo.

E queste jì l’arta töve! De jì sfrecanne ‘i crestjéne! = Solo questo sai fare! Andare a molestare la gente!

Nen tenì nè arte e nè parte = Non saper fare nulla e per giunta non aver alcun cespite.

In questa locuzione, parte è usata in modo figurativo e fa riferimento al linguaggio giuridico per evidenziare che quel disgraziato non ha ricevuto alcuna quota dell’eredità, perché escluso dalla successione.
Parte può anche essere un ruolo teatrale (‘a parte de ‘nu vècchje), o un brano musicale per solista (‘a parte assöle).

Insomma senza arte e senza parte non si è nessuno.

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