Tag: sostantivo femminile

Püpe

Püpe s.f. = Bambola

Pupazzo di materiale vario rappresentante una bambina o una donna, usato come giocattolo soprattutto femminile.

Spesso viene usato il diminutivo, date le dimensione della bambola,

Al maschile fa puparjille = bambolotto
Al femminile fa puparèlle = bamboletta

‘A püpe de pèzze = La bambola di stoffa.
Era brutta, di pezze vecchie imbottite di cartacce. Non so cosa ci trovassero di divertente in esse le bambine! Forse lo stesso trasporto che avevamo noi maschietti con la “palle de pèzze” = la palla di stracci, con la quale giocavamo interminabili partite di calcio alla “Terra gialla” come se fossimo allo stadio con un vero pallone da foot-ball.

A püpe de l’Incurnéte = La bambola dell’Incoronata.
«Pupattola in cartone pressato di colore bianco e nero, quasi un troncone senza gambe e braccia e con la testa appena
abbozzata, più simile ad una colomba o ad una mummia. Conteneva alcuni sassolini che, scuotendola, risuonavano.  Si vendeva – insieme al tamburino di latta, e al cavalluccio di cartone con base in legno a rotelle – sulle bancarelle che circondavano il Santuario dell’Incoronata presso Foggia»

A mio parere era ancora più brutta della püpe de pèzze ed era destinata alle bimbe piccoline, cui piaceva più come sonaglino che come bambolina poco antropomorfa.
Me la ricordo perché da bambino, diciamo poco prima del 1950,   mentre puntavo al Pulcinella che batteva i piatti,  sulle bancarelle dell’Incoronata l’ho vista ed ho anche sentito il suo suono sordo perché qualcuno la scuoteva come una improbabile maracas.

(La precedente descrizione virgolettata della Pupa dell’Incoronata  è stata attinta dal “Dizionario dialettale cerignolano” di Luciano Antonellis- LEONE Editrice-Foggia 1994)
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Pupatèlle

Pupatèlle s.f. = Succhiotto di emergenza.

Quando il poppante casualmente non può rientrare in tempo a casa propria per la poppata, gli si propinava una ingegnosa trovata per tenerlo a freno calmandogli i morsi della fame.

In pratica di poneva un cucchiaino di zucchero, reperibile in tutte le case delle amiche di mammà, in un fazzolettino e lo si legava dall’esterno come una pallina.

Posta leggermente inumidita in bocca al bambino affamato, questa pallina – la nostra pupatèlle – lentamente rilasciava lo zucchero che si scioglieva per effetto del suo succhiare.

Il dolce dello zucchero lo calmava immediatamente e i morsi della fami si attenuavano notevolmente. Mammà aveva il tempo di rientrare con pupo calmo e senza che facesse gli strìseme

In napoletano esiste un termine simile: ‘a pupàta: che le facciano più grosse?

Ricordo una canzone di Renato Carosone che nomina la dolcezza della pupata:

Tu quanne passe
me faje venì ‘na mossa,
oj vocca rossa,
che sfizio ‘e te vasà.
Si’ ‘na pupata,
e tutto ‘o vicinato
suspira e fa:
“ah, sei ‘na bontà”!

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Pungèlle

Pungèlle s.f. = Abitino, scapolare

Immagine sacra o reliquia che si indossa appuntata sul petto o anche, sostenuta da nastri,  pendente fra le scapole. È facile capire da questo perché viene detta scapolare, come un certo paramento  dei sacerdoti usato nell’antichità.

La devozione popolare, con un po’ di superstizione, aveva creato una specie di talismano, di amuleto, che doveva proteggere il neonato da ogni male: la pungèlle.
Questa era una specie di sacchetto spesso anche a forma di cuore (foto a sinistra), dentro il quale si ponevano alcune immaginette sacre, e poi cucito per tutto il suo perimetro per evitarne la fuoruscita.

Orlata e ricamata con amore dalla futura mamma, la pungèlle, era di colore rosa per le femminucce, e ovviamente celeste per i maschietti. Veniva inserita, previo bacio della mammina, tra le spire avvolgenti della fasciatura, prima dell’ultimo giro, in corrispondenza del cuoricino.

Ricordo che le pungèlle  a  forma di cuore venivano confezionate e cedute, in cambio di una simbolica offerta, dalle suore dell’ “Orfanotrofio Stella Maris”.

Con grande sorpresa e tenerezza qualche anno fa reperii, in fondo ad un cassetto del comò nella casa paterna, una pungèlle a forma di cuore, dal colore molto sbiadito. Sicuramente quella che mia madre usò per me, essendo io un figlio unico.

Ora non si quasi usa più perché i neonati non vengono più avvolti in fasce come una volta.  Ma vi assicuro che, in quanto a protezione da malattie,  funzionava meglio dell’ASL.

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Punèsse

Punèsse s.f. = Puntina da disegno.

Anche in italiano è a volte usato il termine per indicare le puntine utili nelle bacheche per l’affissione di avvisi o documenti.

Nell’edizione del 1968 il Dizionario dialettale napoletano fa risalire l’etimologia della parola al vocabolo francese punaise, che vuole dire cimice.    Esso riporta a seguito quanto qui è citato testualmente:

«L’associazione è dettata dal gesto che si fa per utilizzare la puntina, che viene schiacciata proprio come una cimice per essere conficcata nel legno. A sua volta il termine francese deriverebbe dall’espressione latina putire che tradotto letteralmente significa “puzzare”.

Anche qui il collegamento alla cimice ed al suo puzzo è evidente. L’attribuzione di questo nome alla puntina da disegno è fatta per una sorta di estensione analogica. Il piccolo chiodo dalla testa piatta e tondeggiante ricorda proprio la forma dell’animale.»

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Pundètte

Pundètte s.f. = Fiocchetto, mozzone di staffile.

Precisamente si tratta del fiocchetto terminale del frustino (‘u scurriéte) usato dai carrettieri per incitare i cavalli con il suo sonoro schiocco.

Si usava dire: c’jì aggiustéte ‘na bella pundètte = Si è preso una bella sbronza.

Credo che sia linguaggio gergale dei carrettieri.

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Pumparüje

Pumparüje s.f. = Ostentazione, pompa

Esibizione, vanteria, finzione, simulazione.

Insomma fumo negli occhi, mostrare esibire, ad esempio, una dote morale che non si ha.

Taluni vivono per apparire e non per essere se stessi. Fanno vedere i fronzoli quando non c’è sostanza.

Dare da bere, metaforicamente, un’educazione, una cultura, una sensibilità che non si ha.

So’ tutte pumparüje

Mi viene a mente una poesia studiata alle Medie, “Egoismo e carità” (L’alloro e la vite) di Giacomo Zanella:
….
“Odio l’allor, che quando alla foresta
le novissime foglie invola il verno,
ravviluppato nell’intatta veste,
verdeggia eterno,
pompa dei colli”

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Pulezzüje

Pulezzüje s.f. = Pulizia, polizia

Il termine si presta a dare due significati. Il contesto stabilisce se si tratta di pulizia o di polizia.

Nel primo caso pulezzüje deriva da pulezzé = pulire, fare pulizia, nettare, spolverare, ecc.; l’altro è una dialettizzazione del termine italiano “polizia”. In epoca fascita era chiamata “milizia”, specificamente quella stradale, temuta dai rari automobilisti e dai camionisti per la intransigente severità dei suoi agenti.

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Püle

Püle s.m., s.f. = Pelo, pila, abbeveratoio.

Va bene anche la grafia pïle.

1) Püle s.m. = Pelo. Struttura sottile e filamentosa presente sulla pelle dell’uomo e dei mammiferi. Si intende anche la capigliatura, specie nelle femmine.

Tenghe ‘nu püle de varve ‘ncarnéte = Ho un pelo di barba che cresce sotto-pelle.

Se vènghe allà, t’angàppe pe püle = Se vengo vicino a te ti afferro per i capelli.

Figuratamente quando qlcu dice che è attratto irresistibilmente dal pelo, manifesta le sue tendenze di donnaiolo. In questo caso è evidente la forza di attrazione che esercita il pelo di donna che proverbialmente “tira i bastimenti a mare”.

2) Püle s.f. = Pila. Generatore di corrente elettrica continua per la trasformazione di energia chimica in energia elettrica.
Tipo di pila a secco, con involucro metallico per lo più cilindrico o a forma di parallelepipedo, per alimentare piccoli apparecchi elettrici.

3) Püle s.f. = In italiano dicesi pilo, al maschile, e significa Acquasantiera o Fonte battesimale, conca, vasca in genere di pietra o di marmo. (Derivati: Pilozzo e Baciapile, religioso all’eccesso)

Da noi si intende una sorta di abbeveratoio.
Si tratta di  un parallelepipedo rettangolare di pietra, scalpellato fino ad ottenere una specie di vasca da bagno. Collocato vicino al pozzo nelle campagne è usato per far dissetare le bestie da soma, le mandrie dei bovini e i greggi degli ovini.

Mio padre, nella sua bottega di fabbro, aveva una “pila” di media grandezza sempre piena di acqua. La usava per temperare i vomeri e le punte dei picconi dei tufaroli dopo averli stornati, cioè ridato il taglio martellandoli a caldo sull’incudine, e raffreddandoli repentinamente.
So che anche i fornai disponevano della püle de l’acque per immergervi quella specie di scopa (il frusciandolo) usato per il pulire dalla cenere e da eventuali residui di braci il piano di cottura per il pane.

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Pruffìdje

Pruffìdje s.m. = Ostinazione, litigio, dissidio

Quando le idee di due o più persone non collimano, sorge ‘nu pruffìdje, un dissidio.

Pe ‘nu pruffidje, n’ate pöche ce dàvene de méne = Per un litigio per poco non arrivavano alle mani.

I soggetti litigiosi o che contestano qls argomento, ostinati nelle proprie convinzioni,  sono detti pruffidjüse (al femminile pruffidjöse) o punjüse.

L’aggettivo pruffedjüse e il sostantivo pruffìdje deriva dal verbo  pruffedjé = contestare, irrigidirsi nelle proprie opinioni, non accettare dissensi, ritenersi inconfutabili custodi della verità

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Pröte-Sammecöle

Pröte-Sammecöle s.f. = Pietra di San Michele

Era un frammento, anche minuscolo, di roccia scavata nella grotta di Monte Sant’Angelo ove apparve l’8 maggio dell’anno 490, ossia oltre 15 secoli anni fa, l’Arcangelo San Michele a Lorenzo Majorano, Vescovo di Siponto.

Generalmente veniva murata nell’intonaco all’interno dell’uscio, durante la costruzione o il restauro della casa. Aveva la virtù, nella credenza popolare, di tenere lontani i fulmini dalla casa.

Pare che finora abbia funzionato!

Qualcuno, nei pellegrinaggi successivi, raccoglieva un’altra pietruzza e la conservava in un tiretto del comò, come protezione generica dell’Arcangelo contro le insidie del Maligno.

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