Tag: sostantivo maschile

Marenére

Marenére s.m. = Pescatore

Persona che trae dal mare il sostentamento per sé e per la famiglia dedicandosi all’attività di pesca.
Normalmente fa lavoro dipendente da un armatore. Spesso su un motopeschereccio sono attivi membri della stessa famiglia.

Anticamente erano considerati alla stregua dei contadini perché menavano una vita faticosa e scarsamente remunerata. Inoltre i pescatori rischiavano ogni giorno la vita nel mare che sovente si rivelava insidioso per le loro imbarcazioni remo-veliche.

In segno di disprezzo si apostrofavano marenaracce, come i cafunacce quando il loro rude o vivace comportamento li portava all’attenzione dei benpensanti.


Fortunatamente questi tempi sono cessati. Conosco marenére con la licenza liceale che danno dei punti a tanti pseudo saccenti.

I marinai imbarcati sulle navi mercantili diconsi navegànde = naviganti.
I marinai militari sono chiamati suldéta-marüne = soldati della marina

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Zùppe-Fracchjaccöne

Zùppe-Fracchjaccöne s.m. = Gioco dello Zoppo

Era la denominazione di un gioco infantile.

Il sorteggiato da una conta, detto ‘u zuppe Fracchjaccöne, doveva rincorrere gli altri bambini, che fuggivano disordinatamente, saltellando su un solo piede.

Colui che veniva raggiunto, andava “sotto” e a sua volta, era obbligato lui a raggiungere gli altri saltellando su un solo piede.

Ovviamente il gioco si svolgeva all’aperto, agli incroci delle vie, quando il traffico automobilistico era praticamente inesistente.

Probabilmente Fracchjaccöne era un soprannome del tutto estinto, ma rimasto in una filastrocca che inserisco a parte.

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Zuì-zuì

Zuì-zuì s.m. = Cordite

La cordite è un esplosivo senza fumi, a base di nitroglicerina, nitrocellulosa ed oli minerali, usato essenzialmente per le cariche di lancio delle artiglierie navali (Wikipedia).

Il nome deriva dal fatto che tale sostanza è spesso prodotta in fili, tubi, o cordicelle. La cordite fu sintetizzata sul finire del XIX secolo, dai chimici inglesi James Dewar e Frederick Abel, modificando opportunamente un esplosivo simile, chiamato balistite, che si usa nelle cariche di lancio armi da fuoco. (Sapere).

Qualcuno si chiederà come mai il compilatore di questo vocabolario, pur non essendo artificiere, sa dell’esistenza della cordite, e perché la chiama zuì-zuì ( va bene anche la grafia zuzzuì e zuìzzuì).

Bisogna tornare indietro nel tempo, nella seconda metà degli anni ’40. Allora venivamo fuori dalla guerra e la gente per portare la pagnotta a casa si ingegnava in mille modi. Uno di questi era di ricuperare materiale bellico sparso nelle campagne. Fra questi c’erano anche proiettili di mitraglia, bombe inesplose, cassette metalliche contenitori di cartucce, ecc.

Gennarüne ‘i pèzze vjicchje, noto rigattiere, comprava di tutto! Piombo, ottone, rame, ferro vecchio, ecc. ma il materiale esplodente no. Allora quelli che avevano raccolto materiale balistico, staccavano la pallottola dal bossolo dei proiettili e ricuperavano l’ottone e il piombo per venderli a Gennarino. Le stecche di cordite venivano abbandonate perché di nessun valore.

Qualcuno ha scoperto che dando fuoco, uno per volta, a questi “stecchini”, una specie di spaghetti, dopo un secondo sfuggivano di mano sibilando e zigzagando per l’aria, ad altezza bambino, fino ad esaurimento della cordite di cui erano composti. Questo saettare è stato battezzato, con un termine onomatopeico, zuìzzuì . Un prodotto bellico era diventato in mano a noi un mezzo di divertimento.

Zuì-zuì jind’a buttìgghje. Qualche birbante gli dava fuoco tenendolo in una bottiglia. Il botto era assicurato! Il rischio per l’integrità dei nostri occhi era moltiplicato per cento. Ma l’Angelo Custode esiste davvero, se siamo qui a raccontare le nostre marachelle.

Grazie al lettore Enzo Renato che mi ha dato lo spunto per la stesura di questo articolo.

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Züche 

Züche s.m. = Sugo, intingolo, condimento

Salsa, perlopiù a base di pomodoro, per condire le pastasciutte.

È sinonimo di rajó = ragù.

Le generazioni moderne dicono ‘u süche. Io personalmente preferisco la dizione antica di züche.

La lunga tradizione meridionale richiede una lunga cottura possibilmentre il tegame di terracotta sul fuoco del braciere. Soffritto di cipolla e lardo addaccéte in olio di oliva, carne ovina, bovina e suina, conserva di pomodoro.

In assenza di carne si chiamava zucarjille o züche fìnde.

Insomma era un vero rito domenicale. Il suo profumo si spandeva per casa e per strada.

Se penso ai sughi pronti di adesso, in barattolo, di latta o di vetro, ad uso dei singles o delle massaie frettolose, mi prende un’irrefrenabile malinconia.

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Zórre

Zórre s.m. agg. = Caprone, irco

Il maschio della capra è ritenuto cocciuto, bizzarro, imprevedibile, caparbio, ostinato.

Come aggettivo calza bene al caparbio quando prende una decisione improvvisa, agisce d’istinto, e non si fa distogliere minimamente e ammurröje accüme a ‘nu zórre = carica come un caprone.

Ammurröje è la terza persona singolare del verbo (clicca→) ammurré.

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Zómbe 

Zómbe s.m. = Salto

Movimento con il quale ci si stacca dal terreno per ricadervi o nel medesimo punto o anche diverso, o anche su un livello più alto o più basso.

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Zìppere 

Zìppere s.m. = Zipolo, Zaffo, Cavicchio, Stecco.

Lo zipolo è un bastoncino di legno con un’estremità leggermente appuntita. È usato specialmente per otturare il foro di spillatura delle botti. Il termine è di origine longobarda e deriva dalla voce antica zippel e dalla sua successiva italianizzazione zippa, che significa estremità appuntita oppure cuneo [da Wikipedia]

Nei lavori campestri prende questo nome uno stecco di legno, anch’esso appuntito, che serve a bucare il terreno per inserirvi i semi di piselli, di fave, ecc.

Dallo stesso etimo origina anche il termine italiano zeppa.

Qualcuno invece di tre sillabe (zip-pe-re) ne pronuncia due  (zìp-pre). È accettabile, specie se si volge al diminutivo zippretjille = stecchino, virgulto secco.

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Zia-züje

Va bene anche scritto Ziazüje o ziazïje perché omofoni).

Si individuavano con questo termine, un po’ dispregiativo, quei fedeli che passavano per Manfredonia diretti al Santuario di San Michele di Monte Sant’Angelo.

La consuetudine del pellegrinaggio risale al Medioevo.  Dopo l’anno 1000 erano quattro i luoghi sacri per eccellenza ove si riversavano i pellegrini:  Gerusalemme, Roma, Santiago di Compostela e Monte Sant’Angelo.

Si muovevano in quell’epoca principalmente a piedi. Nel Novecento invece giungevano con carretti trainati da cavalli e coperti da teloni.

Anche nel Tavoliere transitavano questi pellegrini. Ho letto sul vocabolario di Cerignola:  «Ziazije s.f. pl.  Donne che insieme ad altri pellegrini, a piedi e in fila indiana si recavano dai comuni del barese al Santuario dell’Incoronata, attraversando Cerignola.»

Anche a Bari usano questo termine per designare i pellegrini diretti alla Basilica di San Nicola.

Il mio amico Matteo Borgia asserisce:
«Un termine dall’etimo incerto, di origine onomatopeica. Secondo alcuni linguisti, deriverebbe da una litania (cantata dai pellegrini), il cui suono, giungendo da lontano, ricordava vagamente un ronzio.
Una fonte da me sentita anni fa, a Bari, mi diceva che erano così chiamati perché i pellegrini stranieri, provenienti dall’Oriente, quando venivano interpellati dalla gente locale, non conoscendo la lingua, rispondevano meccanicamente con una sorta di “Sia! Sia!”, forse forma contratta di “così sia!”.
Altri ancora attribuiscono il termine al fatto che i pellegrini erano così sporchi e poveri, che il popolino in maniera un po’ razzista diceva che gli ronzavano intorno gli insetti.»

Io li ricordo bene, con i loro cavalli adornati di piume di galletto colorate di giallo, violetto, blu e rosso. La tappa nella nostra città era obbligatoria prima dell’ultimo tratto per Monte.
Arrivavano a carovane, come i pionieri del Far West e pernottavano nelle taverne, ove trovavano rifugio uomini e cavalli.

‘I vì, stanne arrevanne i zja-züje = Eccoli, stanno arrivando i forestieri.

Fino agli inizi degli anni anni ’60 si muovevano ancora con i carretti. Poi sono arrivati i giovani con le biciclette da corsa, anch’esse con le piume colorate fissate alla forcella, al manubrio, allo zaino, al cappellino da ciclista.

Con l’espandersi dei mezzi di trasporto a motore non li abbiamo più visti, perché in un solo giorno riescono a venire anche dal Salento e a ritornarsene ai loro paesini di tutta la bassa Puglia.

I più tradizionalisti hanno continuato ad apporre le penne colorate anche sulle automobili, almeno fino agli anni ’60.

(foto reperita in rete)
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Zequigne

Zequigne s.m. = uccellino implume

Si tratta di cardellino o altro uccellino da canto nato in cattività, implume, appena all’inizio della sua vita, che viene imbeccato dalla madre.

Accettabile anche la grafia zecuigne o zucuigne.
Quest’ultimo caso la pronuncia, per la nota regola fonetica della metatesi, risente del trasferimento fonetico della vocale ‘u’ dall’articolo qnche al sostantivo.

Faccio il solito esempio:
Tre zequigne e ‘u zuquigne.

Ringrazio il lettore Enzo Renato per il suo suggerimento.

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Zengöne

Zengöne s.m. sop. = Aculeo

Aculeo, pungiglione, tipico delle pale dei fichi d’india.

E’ anche un soprannome locale. Uno dei Zengöne ha una rinomata pescheria in via Tribuna.

Al plurale fa zengüne. Con questo termine si intendono anche i peli delle gambe maschili (rarissime volte anche delle gambe femminili, ma proprio raramente) irti, lunghi, orribili.

Madò, ‘mbacce ‘i jàmme tenghe i zengüne tànde! = Madonna, sulle gambe ho dei peli superflui esageratamente lunghi (quanto l’indice della mano sinistra, indicato dall’indice della mano destra, dall’unghia alla base della falange)

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