Passavòsse, passavòsse, passe quèste ca jì chjù gròsse

Passavòsse, passavòsse, passe quèste ca jì chjù gròsse

Questo simpatico Detto viene pronunciato dalla mamma premurosa quando si accorge che la figliola, nello sbrigare le faccende di casa, non pone la consueta accuratezza perché magari ha voglia di uscire.

Insomma fa le cose affrettatamente, nzöpa-nzöpearrunzéte = arrangiate.

Quel passavòsse ripetuto all’inizio non significa nulla.Serve solo a preparare con otto sillabe, le altre otto e la rima finale del “rimprovero”

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Palma ‘mbosse, grègna grosse.

Palma ‘mbosse, grègna grosse.

Palma bagnata, bica grossa.

Questo proverbio contadino auspica una bella pioggia la Domenica delle Palme, perché la precipitazione è ritenuta benefica e nutritiva per la pianta del frumento, a primavera ancora in fase di crescita.

L’antica tradizione ebraica festeggiava la Pasqua (Pesach) in ricordo del passaggio del Mar Rosso di Mosè e del Popolo eletto in fuga dall’Egitto.
Per tradizione gli Ebrei hanno collocato questa Festa il primo sabato dopo il plenilunio di primavera.. Anche Gesù volle mangiare la Pasqua ebraica, a base di erbe amare, pane azzimo, agnello, assieme ai suoi apostoli.
Sulla tradizione giudaica si è innestata quella cristiana, eleggendo però la Domenica al posto del Sabato.
Perciò  la Domenica delle Palme cade poco prima di questa fase lunare.

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Oh, püle-pelòsce, e la pèlle de zja Nannïne ca cj’ammòsce!

Oh, püle-pelòsce, e la pèlle de zja Nannïne ca cj’ammòsce!

Oh, püle-pelòsce, e la pelle de zia Annina che si affloscia!

Si tratta di una canzonatura in rima. Si pronunciava mimando il gesto della chitarra (gomito sinistro aderente al fianco, avambraccio sollevato a 90°, mano sinistra semiaperta e mano destra che “gratta” sullo stomaco)

A seconda della circostanza assumeva diversi significati:


*«Puoi dire ciò che vuoi, tanto non ti crede nessuno!»
*«Oh, come sei ingenuo!»
*«Credi ancora a queste cose?»
*«Non capisci che ti stanno beffando?»

Esistevano anche, sempre pronunciate schitarrando sullo stomaco:
-una forma breve: piloscia-piloscia!
-una variante: Oh,Nannüne! riferita all’originale zia Nannina.

Al giorno d’oggi nessuno si sognerebbe di cantilenare questo nonsense. Credo che i giovani ricorrano ad uno sbrigativo e pratico  che [cazze] sté decènne!

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Ogne tjimbe arrüve

Ogne tjimbe arrüve

Ogni tempo arriva.

Questa massima popolare a carattere consolatorio, vuol incoraggiare qualcuno inquieto per il suo futuro.
In italiano corrisponde a “ogni cosa a suo tempo”.

Insomma si consiglia di non preoccuparsi eccessivamente, perché verrà il tempo in cui tutto troverà la giusta collocazione.
Anche come esortazione a saper aspettare l’annientamento dei propri antagonisti.

I Cinesi dicono che si siedono alla riva del fiume e aspettano di veder passare il cadavere del proprio nemico. Un po’ troppa pazienza ci vuole, ma alla fine, …ogne tjimbe arrüve!

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Ogne pöche aggiöve

Ogne pöche aggiöve

Ogni “poco” giova = poco è meglio di niente. Anche un piccolo aiuto può giovare alla mia condizione di disagio.

Molte volte viene enunciato con cadenza garganica, usando pìcche al posto di pöche = poco, per rafforzare il detto, e dargli più credibilità, come se provenisse dal Saggio della montagna…

“Ogne pìcche aggióve”, decètte ‘u Mundanére…= Meglio di niente, disse il Montanaro.

Poi sappiamo anche che a cece a cece si riesce a riempire la pignatta.

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Ogne cuccuésce jì bèlle p’a mamme.

Ogne cuccuésce jì bèlle p’a mamme.

Ogne cuccuésce jì bèlle p’a mamme = ciascuna civetta è bella per sua madre (nonostante la sua bruttezza).

È la variante manfredoniana del notissimo detto napoletano: ogne scarrafone è bella a mamma soja = ogni scarafaggio è bello a(gli occhi di) mamma sua.

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Nzìcche-nanà…

Nzìcche-nanà, nzìcche-nanà, m’é ‘ccattéte ‘na püpe de pèzze, e quanne camüne sèmbe ce spèzze.

Ho acquistato una bambola di pezza, e quando cammina sempre si spezza.

Nzìcche-nanà, nzìcche-nanà, è un non-sense  ritmico.

Una filastrocca che si recita alle bambine piccolissime, reggendo la sua bambolina con le gambe e facendola alternativamente inchinare ed alzare con il busto, come se compisse una riverenza, a ritmo della cantilena.

In questo modo la bambola si muoveva e si animava, lasciando meravigliata e incantata la creaturina, che chiedeva il bis: ‘n’ata vòte = un’altra volta!

Si canticchiava quando si voleva canzonare qualche amico che si avvicinava al gruppo con andatura incerta.

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Nzéne nzéne e lu rótte porte au séne

Nzéne nzéne e lu rótte porte au séne

Si usa questa Detto se si è costretti a sobbarcarsi il lavoro altrui, magari subendone anche lo scherno, la derisione, quando se lo potrebbero fare benissimo loro stessi.

È la frase conclusiva di una favoletta dialettale che gli anziani raccontavano ai bambini.

Si trattava della scaltrissima volpe che invitò il lupo ad assaltare la dispensa del massaro. La volpe, mentre trangugiava i formaggi, aveva la furbizia di controllare ogni tanto se il volume della sua pancia fosse di intralcio al passaggio attraverso la strettoia che le aveva consentito l’ingresso. Il lupo invece mangiava ingordamente. Quando giunse il padrone, la volpe subito sgattaiolò all’esterno e il lupo rimase all’interno del magazzino e si beccò l’intuibile razione di legnate.
Il lupo rimase a terra k.o. e quella sua finissima amica, quando fu tutto tranquillo, si stese per terra accanto al lupo e finse di averle prese anch’essa: si pose un po’ di ricotta sulla testa per simuare la fuoruscita di materia cerebrale sotto la gragnuola delle randellate.
Sfrontatamente chiese al lupo se la poteva portarla a cavalcioni all’esterno, ora che il massaro era andato via, poiché era stremata dalle randellate (mai prese!). Durante il tragitto cantilenava: nzéne nzéne nzéne, e lu rótte porte au séne. Il lupo chiese che cosa stesse dicendo, e la volpe gli rispose che a causa del forte dolore stava delirando!

Se qualcuno dice che “u mùrte porte au séne” non conosce la storiella appena raccontata.

Note grammaticale: come al solito costruzione della frase è volta al dativo, (il rotto porta al sano) anziché all’accusativo ( il rotto porta il sano);
Nota fonetica: presumo che quel incipit Nzéne nzéne non sia solo per adagiarvi la rima, ma potrebbe essere la pronuncia dialettale reiterata di “non sai?” = nenzé, nenzé, nenzé?

Ringrazio il lettore Alfredo Rucher di avermi dato lo spunto per elaborare questo articolo

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Nzegné ‘a Mèsse a l’acceprèvete

Nzegné ‘a Mèsse a l’acceprèvete

Fare il saputello, il sapientone.

È una Detto molto antico. Alla lettera significa: Insegnare (come celebrare) la Messa all’Arciprete.

Come per dire: tu, che sei novellino, vieni a farmi la lezione proprio a me, che ho una lunga esperienza in materia?

Insomma cade a proposito quando qualcuno sale metaforicamente in cattedra per dare indicazioni a dei consumati marpioni…

‘U sacce! A mmè me l’adda düce! = Lo so! Lo vieni a dire proprio a me, che sono uno scaltro furbacchione dalla smisurata esperienza di vita?

Scherzosamente, sforzandosi di esprimersi in un comico improbabile italiano, una volta un giovane liceale mi rispose: “A me me lo devi dirmelo?”

Il termine Acceprèvete = Arciprete, è un po’ arcaico e – non so se ancora usato in ambito ecclesiale – designava, nella gerarchia presbiteriale, il titolo onorifico del Parroco di una Chiesa importante, oppure il primo dei Canonici del “Capitolo” della Cattedrale, scelto dal Vescovo per anzianità, per esperienza o per le sue notevoli doti di spiritualità.

Ringrazio il lettore Michele Granatiero per il suo gradito suggerimento.

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