Venardì Sànde, ‘a Madonne ce mètte lu mànde

Venardì Sànde, ‘a Madonne ce mètte lu mànde

Venerdì Santo, la Madonna indossa il manto.

Questo Detto popolare, ormai conosciuto solo dalle persone più anziane, aveva una variante: la Madonna ce ‘ngègne ‘u mànde = La Madonna indossa (per la prima volta) il manto nuovo.

Il significato trae origine dall’antichissima tradizione popolare religiosa che ora va riscoprendosi: la processione del Venerdì Santo.
In tutti i paesi cattolici, anticamente i simulacri del Cristo morto e della Madonna Addolorata  –  trafitta al cuore da una spada, come profetizzatole da Simeone: anche a te una spada trafiggerà l’anima – perché siano svelati i pensieri di molti cuori ” (Lc 2,34-35), profezia che associa Maria al destino doloroso del Figlio, come spiegato da Giovanni Paolo II – uscivano in processione da due chiese diverse, accompagnati da canti e da preghiere dei fedeli, per incontrarsi al Centro cittadino, laddove fra la commozione generale  la Madre incontrava il Figlio morto. Una scena straziante che coinvolgeva fino alle lagrime le nostre nonne, dalla fede schietta e semplice.

 L’amico Don Leonardo Petrangelo mi ha dato questo contributo autorevole:

«A mio modesto modo di vedere, il detto (che è parte introduttiva di un’antica preghiera-canto sipontino “u venerdi sante”) allude alla cattura di Gesù nell’Orto del Getsemani avvenuta la tarda sera del giovedì santo, ed alla susseguente ricerca disperata della madre (che appunto si ammanta per il freddo notturno) per le vie di Gerusalemme.»

Grazie don Leo per la tua puntualizzazione! In questa logica è molto più plausibile la tua versione. Il manto è indossato da Maria quale persona, non è quello posto  addosso al simulacro custodito in Cattedrale!

Grazie per l’attenzione verso questo modesto lavoro, che si avvale molto dei contributi dei lettori.

Ho reperito, scartabellando nella mia caotica biblioteca domestica, un libro del concittadino Vincenzo Gennaro Valente, stampato nel 1984.

Contiene, tra l’altro, una canzoncina, con tanto di spartito, intitolata “Venardì Sànde”.
Vi trascrivo i versi. Per la musica ho creato la linea melodica della prima strofa):

Mò ce ne vöne u venardì sande
E la Madònne ce mètte lu mànde.
Nen avöve pe chi jì
E söla söle ce ne partì.

Accunfrunté a San Giuànne:
-“Madre, Madre, addu vù jì?”
– “Véche chjangènne pe tutte ‘u cöre
Ca àgghje pèrse u müje figljiole”.

-“Addröte ‘a porte de Peléte
Allà lu trùve flaggelléte.
A cröne d’öre l’ànne luéte.
A cröne de spüne l’ànne nghjuéte!

Volete la traduzione? Credo di no.

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Frìške e tüse

Frìške e tüse

Alla lettera significa freschi e tesi. Si puà tradurre lindi e pinti.

E’ un modo di dire che descrive delle persone che si presentano a qlc festa, compleanni, battesimo, ecc. con le mani in mano, ossia senza regalo.

Ce so’ appresendéte frìşke e tüse = Si sono presentati lindi e pinti.

Il nome è stato adottato da buontemponi per le scorribande di carnevale. Credo sia una “socia”.

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Frìške de rècchje …

Frìške de rècchje …

Proverbio completo:

Frìške de rècchje a dritte, cöre afflitte e sacca ricche.
Frìške de rècchje a manghe,cöre franche e sacca vacande.

Fischio di orecchio destra: cuore afflitto e tasca ricca. Fischio di orecchio sinistra, cuore libero e tasca vacante.

Questo proverbio si snocciola quando qlcu si lamenta di sentire un sibilo nell’orecchio.

L’interpretazione degli acufeni (scusate il termine tecnico) è un tentativo di dare una spiegazione per coloro che si accontentano: tanto o il cuore libero da tribolazioni, o la tasca piena di soldi vanno sempre bene.

Previsione ben circostanziata. Oroscopo delle nonne.

Frìške de rècchje significa presentimento o timore, prontamente smorzato dall’amico/a che snocciola il nostro proverbio.

Pò te fàzze ‘nu frìške alla rècchje = Ascolta quello che ti dico adesso. Dopo, a cose fatte, quando le mie previsioni ponderate si riveleranno azzeccate, verrò a confermarti di aver visto giusto!

C’era la credenza che se qualcuno in quel momento stava pensando a noi o parlando di noi, si manifestava l’acufeno (o anche un singulto).

Grazie al lettore Michele Murgo, che mi ha riferito la filastrocca di sua madre, vado a documentare l’antidoto contro l’ansia:

Chi me nòmene? Chi me nòmene
putèsse avì ‘na palla ‘mbrònde!
Före da pàteme, före da màmme
före da ‘u müje ‘nnamurète:
se jì de bùne putèssa durè,
se jì de mèle putèssa crepé.

Ossia: Chi mi nomina, chi mi nomina, potesse avere una palla in fronte! All’infuori di mio padre, all’infuori di mia madre, all’infuori del mio innamorato, se è di bene che possa durare, se è di male che possa crepare.

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Fìgghje müje, mangéte e bevüte….

Fìgghje müje, mangéte e bevüte….

Fìgghje müje, mangéte e bevüte,
péne rótte, nen tucchéte,
péne séne nen rumbüte,
fìgghje müje, mangéte e bevüte!

Figli miei, mangiate e bevete,
mi racomando, non toccate quella pagnotta che è già dimezzata,
né affettate quell’altra che è ancora intonsa!
Tuttavia, figli miei, mangiate e bevete!

Un detto simpaticissimo, pronunciato scherzosamente dal padrone di casa agli ospiti inaspettati invitandoli ad accomodarsi, prima di offrire loro una bibita o un pasticcino.

L’ho sentita dire da mio zio ultranovantenne quando io e mia moglie siamo andati a fargli visita. Poi ho scoperto che lo sanno molti anziani, appena accennavo loro l’incipit di questo Detto, nato sicuramente in epoca di ristrettezze.

Quando il pane scarseggia davvero, sia quello “rotto” sia quello “sano” non si può offrire nulla, se non una battuta di spirito, accettata d’altronde con buonumore dalla controparte.

Si narra di una coppia che si presentava a far visita agli amici proprio all’ora di pranzo. Era inevitabile l’invito: “Favorite!” e quasi scontata la loro accondiscendenza per “scroccare” qualcosa da mangiare.

Un mio cugino, mangiava sistematicamente per prima cosa – quando c’era – la pietanza del “secondo”, e successivamente i maccheroni del “primo” per minimizzare i danni causati dai possibili visitatori incursori di questo tipo. Tutt’al più avrebbe ceduto il piatto della minestra…
Parlo dell’immediato dopoguerra quando solo poche volte si beneficiava del “secondo”, perché abitualmente si usava il piatto unico di sola pasta e “scarpetta”: tempi duri!

Impensabile al giorno d’oggi perché tutti noi abbiamo problemi di sovralimentazione e combattiamo per eliminare i chili di troppo!

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Figghje e marüte, cüme li jé te l’àdda tenì !

Figghje e marüte, cüme li jé te l’àdda tenì !

Figli e marito, come li hai li devi tenere.

Ovviamente esiste anche la versione per l’altro coniuge: Fìgghje e megghjöre, cüme li jé te lì àdda tenì.

Era un obbligo imprescindibile per i coniugi, sopportarsi a vicenda fino al massimo umanamente possibile, non essendoci la possibilità di ricorrere al divorzio.

Diciamo anche che la donna non poteva mai essere economicamente indipendente, e gravava inevitabilmente sulle spalle del marito, sua unica risorsa. Forse sopportava meglio le sua mascalzonate [perché gli uomini di una volta relegavano le loro mogli a “fare la calzetta”, a non partecipare alle decisioni familiari].

Quando la convivenza era proprio impossibile, allora tó a càste e jü a chése = tu a casa tua e io a casa mia, intendendo con ‘tu’ e ‘mia’ quella dei rispettivi genitori. Una dolorosa separazione consensuale.

I figli comunque, come dicono i Napoletani, so’ piezze ‘e core = sono pezzi di cuore, anche quando diventano insensibili verso i genitori.

In questo caso, l’ho sentito con le mie orecchie, scompisciandomi dalle risate: ‘e figlie sò pièzze ‘e mèrda!

Grazie all’inesauribile Enzo Renato per il suo prezioso suggerimento.

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Fìgghje de vjicchje malembaréte

Fìgghje de vjicchje malembaréte

Figlio di vecchi maleducato.

Se un bambino nasce da una coppia di persone un po’ avanti negli anni, certamente è amatissimo, coccolato, vezzeggiato. Questo inevitabilmente porta a dargliele vinte tutte. Perciò il pupo cresce viziato, capriccioso, abituato ad agire da despota anche fuori delle mura domestiche.

Ed ecco che allora si attribuisce, giustamente, ai genitori la colpa di non avergli saputo dare una buona creanza, e solo per il fatto che sono attempati, quindi di manica larga.

Alcuni dicono, con la stessa valenza sopra descritta: fìgghje süle malembaréte = Figlio solo (unico) maleducato..

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Fìgghja fèmene e mala nuttéte

Fìgghja fèmene e mala nuttéte

Figlia femmina e nottataccia.

Si cita questo detto per evidenziare che si è vittima di duplice sventura.

In italiano si dice che oltre al danno c’è anche la beffa.

Anticamente, quando servivano braccia robuste per l’agricoltura e per la pesca, la nascita di una figlia femmina era considerata un po’ una sventura, almeno dal capo famiglia, perché non poteva essere d’aiuto al suo duro lavoro.

La figlia femmina poi rappresentava un debito, una cambiale, perché comportava sacrifici per poterle fornire la “dote ” se si voleva sperare di farla sposare.

Se a queste considerazioni si aggiungeva una lunga nottata passata dalla puerpera perché il parto era stato difficile, allora avveniva lo scoramento totale che ha dato origine al detto.

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Fetì a chéne murte

Fetì a chéne murte

Puzzare come un cane morto

Si usa questa iperbole per descrivere un fetore nauseabondo proveniente da una persona sozza, da un locale non aerato, dalle scarpe da tennis, ecc.  Infatti si paragona qualsiasi cattivo odore, al tanfo che si effonde dalla carcassa di un cane in decomposizione. E’ considerata pertanto la puzza per eccellenza, per antonomasia, che non esiste una peggiore, insomma, föte a chéne murte = emana un miasma insopportabile.

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