Chi ce còleche p’i criatüre, ce jàveze p’u cüle cachéte
Chi si va a coricare con i bambini si alza con culo cacato.
Colui che tratta con gli incompetenti o gli immaturi compromette la propria serietà, perché inevitabilmente si espone a numerose figuracce.
Mi viene in mente una frase attribuita a Oscar Wilde: «Mai discutere con un idiota, perché costui ti trascina al suo livello e ti batte con l’esperienza.»
Difatti la voce verbale jèsse, con lo stesso suono può essere sia il presente indicativo, alla terza persona di uscire (egli esce), ma anche il congiuntivo imperfetto di andare (che egli andasse).
‘U rizze de cambàgne, pe’ scappé da la volpe, ce feccàtte ind’a téne de la lepre. Quanne ‘a lepre škamàtte, ‘u rizze decètte: “Cumbé, chi ce pòngeche, jèsse före!” = Il riccio terrestre, per sfuggire dalla volpe, si introdusse nella tana della lepre. Quando la lepre si lamentò (per l’intrusione), ebbe dal riccio una indisponente risposta: “Compare, chi si punge andasse fuori”.
Morale: attenti ai profittatori: se tu concedi un dito, quelli facilmente ti prendono la mano con tutto il braccio.
Chi si vanta da solo (da sé) è un fagiolo (non una persona).
È questione di rima, come è accaduto anche nel corrispondente proverbio italiano: Chi si loda s’imbroda. Che non significa nulla, perchè il verbo è inesistente in italiano, ma dà l’idea di un brodo, detto sciacquapecciöne, ossia sbobba calda di nessun valore.
Alle scuole elementari qualcuno ci ficcò nella zucca quest’altro proverbio: chi si vanta da se stesso è un asino pefetto.
Insomma in tutte le lingue è raccomandata la modestia.
Ringrazio la lettrice Marianna Grieco che mi ha riferito questo proverbio citato spesso da sua nonna.
E’ un invito a muoversi, a darsi da fare, perché chi “cammina” nel senso che non sta fermo, riesce a trovare in qualche modo qualcosa per il suo sostentamento.
Chi invece sta seduto ad aspettare, è costretto a digiunare perché si sa, non viene nessun panierino dal cielo a soddisfare la fame.
Chi bello vuole apparire, l’osso del culo gli deve dolere.
Ogni buon risultato richiede grandi sacrifici.
Per ottenere il successo bisogna faticare duramente, tanto da spaccarsi la schiena fino al coccige (l’osso del culo).
Il lettore Giuseppe Tomaiuolo dà una sua delucidazione:
“Mi permetto: la spiegazione è fuorviante. Nel senso che il detto è riferito a chi vuole “apparire “ quello che non è; come accenna il primo commento
Chiarisco con un esempio tipico dei nostri giorni. Un matrimonio !!!
E’ chiaro che se vuoi fare le cose al di sopra delle tue possibilità ti toccherà fare dei sacrifici per cui “ l’usse “ ti deve far male, ma è sottinteso che “te lo potevi risparmiare”.
Chi avètte péne murètte, e chi avètte fuche cambatte
Chi ebbe pane morì, e chi ebbe fuoco visse.
Proverbio “invernale” per evidenziare che il fuoco è vitale più del cibo.
Il lettore Giuseppe Tomaiuolo commentaì:
“E’ nato cosi: parlando intorno al fuoco qualcuno si lamentava del poco che c’era da mangiare qualcun altro sosteneva che fosse più importante stare al caldo. Ne nacque una discussione e quindi una scommessa. Questi i termini: chi avrebbe resistito di più, avendo uno a disposizione ogni ben di Dio da mangiare, ma all’addiaccio; mentre l’altro senza niente da mangiare, ma al caldo. Chi sopravvisse?”
Il detto definisce il luogo dove evidentemente c’era possibilità di mangiare a ufo. Difatti si diceva anche tàvele-a-vendòtte.
E quìste vènene sèmbe a chese-a-vendòtte…= E quenti vengono sempre a casa mia a mangiare a sbafo.
Quando non tutti avevano da mangiare c’era chi – con la scusa di fare una visita di cortesia – si presentava a casa di amici proprio all’ora di cena, magari in compagnia della moglie. Il padrone di casa si sentiva un po’ “costretto” a invitarli a restare per la cena.
Il malcapitato padrone di casa evidentemente abitava a numero 28, e il suo detto è rimasto nella memoria collettiva (chése-a-vendòtte oppure tàvele-a-vendòtte).
Quando il desco era vuoto, malinconicamente si diceva: Add’jì ca jéme jògge, a chése-a-vendòtte? = Non abbiamo nulla da mangiare, dove andiamo a rimediare qualcosa da mettere sotto i denti?
Fortunatamente questi tempi grami sono ormai passati per sempre (o no?).
Il lettore Lino Brunetti mi scrive:
«Io veramente ho sempre pensato che, dopo aver riscosso lo stipendio il 27 del mese, c’era chi, fortunato, godeva anche il 28 a casa dei suoceri o dei genitori. Questa del numero civico, non l’ho mai sentito prima. Ma posso anche sbagliarmi!
Un amico mi ha riferito un’altra sua spiegazione.
Quando a fine mese le risorse finanziarie della casa sono esaurite, la famiglia cerca altri posti dove poter mettere qualcosa nello stomaco.
E questo succede verso il 28 del mese.
Un po’ come l’attuale discorso della “quarta settimana” in cui la paga, lo stipendio o la pensione si esaurisce e si va a “casa a vendotte”»
Per notizia vi riporto una espressione simile, rintracciata in rete. Si tratta di un detto napoletano dell’800. Vediamo se può calzare…
«’A taverna d’ ‘o trentuno. Letteralmente: la taverna del trentuno.
Così, a Napoli sogliono, inalberandosi, paragonare la propria casa tutte quelle donne che vedono i propri uomini e la numerosa prole ritornare in casa alle più disparate ore, pretendendo che venga loro servito un pasto caldo. A tali pretese, le donne si ribellano affermando che la casa non è la taverna del trentuno, nota bettola partenopea che prendeva il nome dal civico dove era ubicata, bettola dove si servivano i pasti in modo continuato a qualsiasi ora del giorno e della notte»
Insomma: questa casa non è un albergo! Potrebbe essere questa la spiegazione più plausibile della nostra proverbiale “casa a 28”.
Sempre navigando in rete ho scoperto che anche a Roma, in Piazza Rusticucci nei pressi di San Pietro, esisteva un secolo fa una “Taverna del trentuno”, dove si poteva trovare da mangiare in qualsiasi ora del giorno e della notte.
Il famoso cantastorie Sor Capanna ci canticchiava questa strofa:
“E gira e fai la rota la rota del Trentuno. Abbasso preti e frati, Viva Giordano Bruno!»
Chéne e fìgghje de putténe nen chiódene méje ‘i pòrte = Cani e figli di puttana non chiudono mai le porte
È un Detto, un po’ crudo e lapidario, per stigmatizzare colore che entrano in un locale, un magazzino, un’abitazione e lasciano aperto l’uscio. “La portaaaaa!”
Sarà distrazione? Cattiva abitudine? Maleducaziome?
Il Detto vale anche per coloro che escono senza chiudere la porta alle loro spalle.
Mio padre – che non si sarebbe mai permesso di apostrofarmi con una parolaccia – quando capitava a me di entrare in casa senza chiudere la porta, mi faceva una domanda: “E che? Tjine la cöte?” = E che? Hai la coda?
Questo non per paragonarmi a un cane: non sia mai! Non era nella sua indole.
Voleva scherzosamente evidenziarmi che, se lasciavo aperta la porta, lo facevo perché dopo essere entrato io, doveva forse fare l’ingresso anche la mia…coda? La “coda” poteva essere anche una o più persona al mio seguito. In italiano “codazzo”. L’ultimo chiuda la porta!
È un’imprecazione contro la mala sorte, come per dire: quale nefandezza ho commesso per meritarmi queste tribolazioni?
Anticamente si riteneva che ogni contarietà era una ritorsione di Dio contro i peccatori, ignorando che Dio non è vendicativo ma amoroso infinitamente di più di una mamma.
Quindi – dice il meschino – siccome io non ho messo alcun chiodo per crocifiggere Gesù, non merito questa sventura. Quale chiodo ho messo alla croce? Nessuno!
Anche Tosca, l’eroina Pucciniana, cantava di aver vissuto d’arte e d’amore, di non aver fatto male ad anima viva, e poi chiede rivolta al Signore: “..perché me ne rimuneri così?”
Sarebbe una bestemmia, ma Dio perdona l’espressione blasfema, umanamente comprensibile.