Tag: Locuzione idiomatica

Škatté ‘u föle

Škatté (o šcatté) ‘u föle loc.id. = Far crepare d’invidia qualcuno, indispettire, irritare.

Locuzione molto pittoresca rivolta col pensiero agli invidiosi.

Costoro si rodono e soffrono di un sentimento astioso verso gli altri nel benessere, verso ciò che reputano il loro pregio o le loro fortune.

Questo sentimento, viene percepito dalla persona invidiata come influsso demolitore.
Ecco che, quale “contromisura”, l’invidiato esegue una serie di scongiuri (palesi o anche occulti), come il “toccamento” di cornetti rossi o di una parte di se stesso che non sto a nominare, la mostra del pugno con l’indice e il mignolo sollevati, ecc.

Te jà škatté ‘u föle! = ti devo crepare la bile (perche ti roderai inutilmente a causa dell’invidia, perché tu sei impotente contro la mia fortuna, il mio benessere, la mia bellezza, ecc.).

Significa in pratica, in casi meno gravi, comportansi con assoluta indolenza.

Materialmente škatté ‘u föle è un infortunio che capita a coloro che puliscono le seppie e accidentalmente rompono la vescichetta dell’inchiostro.

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Škatté ‘u cüle ai mangiulècchje

Škatté o (šcatté) ‘u cüle ai mangiulèchje loc.id. = Picchiare (del sole)

È un termine di paragone per dire che il caldo è così torrido che fa crepare il culo perfino alle lucertole, che pure sono veloci nello spostarsi sul terreno arroventato dalla calura estiva.

Che jéte facènne? Sté ‘nu söle ca škàtte ‘u cüle ai mangiulècchje! = Siete sventati! C’è questo sole che picchia forte e voi andate in giro?

Sant’Andònje, che càvete! Fé škatté ‘u cüle ai mangiulècchje! = Sant’Antonio, che caldo! È talmente caldo da far scoppiare!

Notate che quando fa caldo, almeno i nostri genitori nominavano Sant’Antonio (perché la ricorrenza di questo Santo è di giugno), e non ad es. San Nicola che viene di dicembre.

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Siccia vescéte

Siccia vescete loc.id. = Seppia corrosa da parassiti.

Questa locuzione è una esclamazione forte, un’invettiva, un’ingiuria, un improperio.

Come dire che la persona destinataria dll’improperio è marcia, fradicia intellettualmente, proprio come appare una trave o una seppia rosicchiate da parassiti.

Sta siccia vescéte!Quedda siccia vescéte!

Si dice apostrofando una ragazza che non è buona a niente, da sconsigliare al proprio figlio. Non buona per la casa, non buona a fare i figli. (definizione del dott.Enzo Renato).

SEPPIA “VESCIATA”, ovvero svuotata dalle vèsce = Teredini (Teredo navalis) o dai vermi anisakis.

Anche il legno delle barche, attaccato da parassiti, si dice che è veššéte (è meglio scritto così?), ossia svuotato, friabile, percorso da gallerie scavate dal parassita xilofago (mangiatore di legno, detto anche in dialetto mànge-e-chéche). Le barche ora sono protette dal loro attacco con oli e vernici, ma le seppie no!

 

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Senza maškere ‘mbàcce

Senza maškere ‘mbàcce loc.id. = Senza maschera in faccia.

Non siamo in tempo di Carnevale.

Agire senza maschera sul volto significa comportarsi viso aperto, senza sotterfugi, lealmente, schiettamente.

Non vale la pena di nascondersi dietro un dito quando si agisce lealmente.

Giuà, te vògghje parlé senza maškere ‘mbàcce: quìddi solde ca t’agghje ‘mbrestéte mò m’abbesògnene a me! = Giuovanni, ti voglio parlare schiettamente: quei soldi che ti prestai ora mi necessitano.

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Sendìrece n’ate e tante

Sendìrece n’ate e tante loc.id. = Sentirsi rinati

Un modo simpatico di esprimere una sensazione di benessere, come se si fosse rinati dopo uno stato di torpore, di stanchezza, di abbattimento fisico o anche morale.

Me sò fàtte ‘na lavéte de fàcce, e mò me sènde n’ate e tànte = Mi sono rinfrescato il volto ed ora mi sento rinato.

Ce l’àgghje dìtte quàtte ‘nde la fàcce e mò me sènde n’ate e tànte! = Gliene ho cantate quattro in faccia, (finalmente) ed ora mi sento pienamente soddisfatto!

Dopo un lauto pranzo, tanto per fare un altro esempio, specie dopo aver atteso a lungo di poter mangiare, è logico che uno si senta ‘n’ate e tante = “un tantino” soddisfatto.

Ecco quel “tanto in più”, che dà il senso di appagamento, traduce bene la locuzione nostrana.

Come assonanza, n’ate e tànte– si avvicina all’italiano “altrettanto” ma esprime ben altra concetto.

Come in tutti i dialetti meridionali, il gruppo “nt” si sonorizza in “nd”. Perciò nella parlata corrente quel tànte = tanto, suona tànde.

Meh, mò me sènde n’ate e tànte. = Bene, ora sono pienamente soddisfatto!

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Se Ddia völe…

Se Dio vuole loc.id. = Se Dio lo vorrà

Questa locuzione veniva spesso pronunciata quando si voleva esprimere, sempre proiettato nel futuro, più o meno lontano, un progetto, un’idea, un sogno, una mira, e si confidava nell’aiuto del Signore per la loro realizzazione, e non troppo sulle proprie forze.

Specie in tempi precari, la mano di Dio era più invocata per raggiungere un obiettivo, soddisfare un’aspirazione o un’attesa.

Non si diceva mai, ad esempio: “Caremöle ce spöse all’anne che vöne “ senza aggiungere subito “Se Ddia völe!” = Carmela si sposerà l’anno venturo, se Dio vorrà. Del doman non v’è certezza…

Variante. La locuzione viene arricchita, in modo ironico, quando non c’è risposta da parte di qlc da cui ci si aspetta un favore, o si conosce bene la sua inaffidabilità: Se Ddia völe e quìnece! . Alla lettera significa= Se Dio vorrà, e quindici…

L’origine di questa aggiunta numerale fa pensare ad una ulteriore proproga ad un precedente rinvio, se non a un rinvio perenne.

Jògge ca tòrne dalla cambagne, t’àgghja purté quìddi pepedìgne.
Sì, se Ddia völe e quinece!

– Oggi, quando torno dalla campagna, ti devo portare quei peperoni (che ti avevo promesso)
– Sì, va bene, proprio così, li aspetto… Ovviamente questa risposta è pronunciata con voce ironica e canzonatoria per esprimere sfiducia sul mantenimento della promessa.

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Scutelàrece ‘i pólece

Scutelàrece ‘i pólece loc.id. = Defilarsi, sottrarsi, deresponsabilizzarsi

La locuzione a volte è più completa: scutelàrece ‘i pólece da ‘ngùdde = scuotersi le pulci da dosso.
Alla lettera significa: scuotersi le pulci, eliminare i fastidi.

Simile alla locuzione italiana “lavarsene le mani”, ossia defilarsi, togliersi le responsabilità, scansare fastidi, disinteressarsi, cavarsi da situazioni difficili, disimpegnarsi, svincolarsi.

Chiaramente è scutelàrece il verbo transitivo scutelé = scuotere, coniugato in forma riflessiva.

Nota fonetica:
‘u pòlece = la pulce, al singolare: va scritto con l’accento grave sulla ò ed ha una pronuncia larga (come cepòlle = cipolla);

‘i pólece = le pulci, al plurale: va scritto con l’accento acuto sulla ó ed ha una pronuncia stretta (come pózze = pozzo,o puzza)

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Scüse e maletjimbe

Scüse e maletjimbe loc.id. = Scappatoia, pretesto

Alle lettera: scuse e cattivo tempo.

Questa simpatica locuzione viene detta di rimando da qlcu quando chiede un favore, e l’interlocutore accampa un pretesto per rifiutarsi di farlo. Costui intende giustificarsi, ma evidentemente la sua scusante è ritenuta poco credibile…

Credetemi succede spesso!

Scüse e maletjimbe vé truànne = Costui erca ogni pretesto (per non agire). Non gli mancano le scappatoie!

Origine della locuzione: quando qlcu – specie se per mestiere svolge la sua attività all’aperto, come accade ai pescatori in mare o ai coltivatori nei campi, ed è mazzangànne[pelandrone] di natura – accampa una scusante incontrovertibile per esimersi: il maltempo.

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Scundé a macenatüre

Scundé a macenatüre loc.id. = Defalcare

Il significato letterale è: defalcare, ridurre un debito mediante prestazioni di servizi.

Il mugnaio dice al proprietario terriero che gli porta il frumento alla molitura: lascia un quintale di grano per me e io defalco il suo costo dal costo della macinatura.

Poi, per estensione, si è usata la locuzione anche in altri campi e in altre circostanze.

Ossia ripagare un bene mediante la cessione di un altro bene o la prestazione di servizi.

Ad esempio, mediante: la potatura di un uliveto, la zappatura di un orto, il trasporto di un carico di grano dalla campagna al paese. Insomma il contrario di quello che accade ora: prima il servizio e poi il pagamento del corrispettivo.

Invece per i bisogni della famiglia in epoca di vera crisi, si chiedeva al ‘padrone’ un bidone di olio, o un sacco di frumento, o un’anticipo in denaro, da defalcare successivamente con il controvalore di futura prestazione di servizi.

Ma la prestazione richiesta, e purtroppo accettata a causa della miseria, era di carattere sessuale. Una vera vessazione sulla miseria altrui.

È una storia odiosa, fortunatamente non più attuata ai nostri giorni (spero!).

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Sciuppé ‘u còrje

Sciuppé ‘u còrje loc.id. = Uccidere

Alla lettera: estirpare il cuoio (capelluto)

È un gesto da pellerossa Sioux o Comanches, che veniva eseguito sul cadavere del nemico vinto in battaglia, scuoiandone il cranio dal cuoio capelluto. Lo scalpo del nemico era un trofeo ostentato per accrescere il proprio prestigio di guerriero.

Da noi, molto meno efferati, il verbo era usato come una minaccia della mamma verso i pargoli irrequieti:

Stàteve fèrme, ca se no vènghe allà ve sciòppe ‘u corje! = State buoni se potete…

Il maestro artigiano, quando l’allievo con metteva in atto a regola d’arte i suoi insegnamenti, mentre, spazientito dal suo tardo comprendonio, simpaticamente gli assestava uno scappellotto, gli diceva a mezza voce:

Gghja quèdda mòrte ca ne te sciòppe ‘u còrje! = Maledizione a quella morte che non viene proprio ora a farti la pelle!

Corje significa cuoio in genere, anche quello usato per fabbricare borse, cinghie e scarpe.

Ringrazio Vito e sua madre per il suggerimento.

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