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Ferdenànde

Ferdenànde n.p. = Ferdinando

Nome diffuso nel Sud, specie in Campania, ove i vari Ferdinando di Borbone hanno regnato per decenni fino Franceschiello.
Il nome di origine germanica, è diffuso in Europa e nelle Americhe (Férnand, Ferrando, Hernando, Ferdinand, ecc.)

I meno giovani sanno che a Manfredonia di Ferdinando esisteva uno e uno solo, irripetibile!
Faceva il croupier del suo mini “Casinò” smontabile.
Riporto qui di seguito un ricordo dell’amico Lino Brunetti a proposito del mio articolo sul sostantivo (clicca qui→) capòcchje.

«Come si fa a non citare il famoso Ferdinando?
Sul Pertüse du’ mòneche, proprio dove adesso v’è una verandina con tavolini, c’era Ferdinando con il suo tavolo da gioco formato da un piano liscio inclinato sul quale faceva scivolare la biglia che cadeva e scorreva su un piano diritto in marmo con le buche numerate dove si fermava la biglia, ogni buca era numerata e di fianco c’era un tappeto con i vari numeri: era praticamente una roulette.
I giocatori puntavano la posta sui numeri e attendevano che la biglia si fermasse sul proprio. C’era sempre tanta gente intorno alla bancarella di Ferdinando e lui incitava: “Palla numero!” e poi lasciava la palla scorrere e annunciava il numero uscito.
Quando erano più numerose le persone a guardare che quelle a giocare, allora lui invitava:
“Puntate giovani! Puntate e non guardate! Chi guarda cu ll’òcchie, guadagna capocchje!»

Fin qui Lino Brunetti; io aggiunsi un ricordo personale:

«Ferdinando, con il suo “tavolo verde” ci ha campato dignitosamente la famiglia. Nessuno dei giocatori è andato in malora con la ludopatia, perché le cifre giocate erano minime e fatte per puro divertimento.
Se non erro proveniva dalla Campania, o si sforzava di parlare con cadenza napoletana.

Una volta, proprio mentre Ferdinando diceva la fatidica frase: “Palla, numero…?” un giovincello puntò 50 lire su uno dei due colori (rosso o nero). Se la palla d’avorio, dopo il lancio, e dopo aver girovagato sul marmo si andava a posare nella fossetta con la cifra del colore scelto per la puntata, il giocatore vinceva il doppio della posta.

Il furbo intascò la vincita e si dileguò. Ferdinando sapeva che i giocatori veri avrebbero ritentato: lui contava ciecamente su questo, tanto si sa che alla lunga è il “banco” che vince sempre!

Allora se ne uscì con una frase memorabile: “Eh bravo ‘o cazze ‘o guaglióne: m’ha fricàte ciénde lire!”»

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Giagalasse

Giangalasse n.p. = Gian Galeazzo

Il nome non è diffuso al Sud, ma viene ugualmente evocato (per far rima) in un Detto proverbiale dedicato ai fannulloni:

Fé la vüte de Giangalasse: mange, böve e sté alla spasse = fa la vita di Gian Galeazze: mangia, beve e sta (volontariamente) disoccupato.

Una variante conclude con vé alla spasse = va bighellonando.
Oppure ce la spasse = se la spassa, se la gode

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Peppenèlle

Peppenèlle n.p. = Peppa, Giuseppa, Giuseppina, Pina, Peppina

È il femminile del diffusissimo Peppenjille (Peppino, Peppe, Pino, Pinuccio ecc.)

A noi anziani questo nome rievoca un estroso venditore ambulante, Felìppe i cardüne (Filippo dei cardi) detto anche Felìppe ‘i quatte fìgghje (Filippo quattro figli), che veniva in città dalla campagna col carretto pieno di ortaggi vari.
Costui, per attirare i compratori, aveva un modo singolare di lanciare le sua grida, in perfetti versi ottonari a rima baciata:

«Chi ce mange ‘sti cardüne
fé li fìgghje ‘mbriacüne!
» = Chi si mangia questi cardi fa i figli ubriaconi!

«Chi ce mange ‘i rafanjille
fé li fìgghje mariungjille! » = Chi si mangia i ravanelli fa i figli ladruncoli!

Un altro suo grido che esaltava la freschezza del prodotto, con le ultime parole declamate quasi come in nenia discendente: 
«Tenerjille, tenerjille u rafanjille!
L’agghje cùlte allu giardüne de Peppenèlla müje!» = Teneri teneri (sono i miei) ravanelli! Li ho raccolti dal giardino della mia Peppina!
Ascolta il sonoro cliccando sul triangolino bianco qui sotto (↓)

 

Spesso il retro del suo carretto era presa d’assalto, nonostante i colpi di frustino, da una masnada di monelli scalmanati per depredarlo di meloncini o cetrioli!

Era talmente pittoresco questo signore che il suo martellante intercalare “Peppinella mia” rimase celebre e diffuso in tutta Manfredonia, sia se si nominava giardino sia se il discorso cadeva sulla freschezza di un ortaggio.

Sì, l’agghje cùlte allu giardüne de Peppenèlle… = Sì, l’ho raccolto nel giardino di Peppinella…

Talmente diffuso, ma qui forse sto lavorando un po’ di fantasia, che una nave mercantile allestita da armatori locali fu battezzata proprio “Peppinella”.

Peccato che, nel suo viaggio inaugurale, carica di minerale di ferro, fu speronata da un Cargo norvegese quasi otto volte più grande, e affondò nel Canale della Manica, nei pressi di Dunkerque nel 1956.

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Zianjille

Zianjille agg. n.p. = Gracile, personaggio del presepio.

Questo aggettivo deriva dal nome proprio regionale Aniello, diffusissimo tuttora in Campania. Ricordiamoci che la nostra Puglia faceva parte del Regno di Napoli (o delle due Sicilie), e che Funzionari Amministrativi e Membri Militari napoletani erano presenti anche da noi.
Quindi Zianjille significa  semplicemente Zio Aniello.

Probabilmente questa persona era minuta, magrolina, gracile,  tanto che i nostri nonni l’hanno tramandata fino a identificarla con uno dei pupi del Presepio.  Il famoso Zianjille ìnd’u presèpje.

Forse le nuove generazioni non ne hanno mai sentito parlare, ma il pupo Zianjille  era il primo ad affacciarsi alla grotta del Bambinello, prima ancora dei pastori e delle pecorelle.

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Velardüne

Velardüne n.p. = Bernardo, Bernardino o Berardino

Diminutivo di Bernardo, nome che dal germanico berno, “orso” e hardhu, “duro, valoroso” e significa quindi “forte come un orso” .

L’onomastico si festeggia il 20 agosto in onore di san Bernardo abate, fondatore della abbazia di Clairvaux, morto nel 1153.

San Berardino da Siena è il Santo Patrono di Bernalda (MT) e de L’Aquila.

Notate la ‘b’ diventata ‘v’ per la influenza dello spagnolo nei dialetti del sud Italia.

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Téröse

Téröse n.p. = Teresa

E’ un nome di origine spagnola che deriva dal greco e significa “cacciatrice”.

Secondo altri deriva da Therasia, “nativa dell’isola di Thera” (oggi Santorino) o da Tarasia, “nativa di Taras” (oggi Taranto).

L’onomastico si festeggia tradizionalmente il 15 ottobre in onore di santa Teresa di Avila, morta nel 1582.

Ricordo Teröse ‘u chjanghjire= Teresa, la moglie del beccaio, una macellaia energica che usava la mano sinistra per affettare la carne incutendo in me bambino il terrore che si facesse male.

Diminutivo Taresüne = Teresina

Ho constatato nel nostro dialetto un fenomento strano: talvolta la sillaba iniziale tediventa ta (es: telèfene/talefuné, Téröse/Taresüne, talevesjöne).

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Sepundüne

Sepundüne agg. n.p.= Sipontina

Come aggettivo significa chiaramente: che provenie da Siponto, che appartiene al territorio di Siponto, che è nativo/a di Siponto.

L’aggettivo sostantivato diviene nome proprio di persona (scusate se ripasso un po’ di grammatica) Sipontino e ancor di più Sipontina. È un nome molto familiare per noi Manfredoniani. Forse in questi ultimi decenni un po’ di meno, sostituito con i nomi in voga nei vari anni: Flora, Patrizia, Francesca, Chiara, Alessia, ecc.

La Sipontina per antonomasia è la splendida statua lignea della Vergine seduta sul trono, ad altezza intera, con il Bambino poggiato sulle sue ginocchia, ricavato da un unico tronco d’albero, risalente al secolo XI la bellezza di mille anni fa!

La Sipontina è ritenuta la più antica statua lignea di Maria fra quelle esistenti in Puglia.

Il simulacro di questra Madonna è amatissimo da tutti i Manfredoniani. È stata alloggiata per secoli nella cripta della Basilica di S-Maria Maggiore di Siponto, dove ora campeggia una foto a grandezza naturale. Qui è stata conservata fino al 1970 Fu poi trasferita in Cattedrale per evitare un nuovo trafugamento da parte dei ladri d’opere d’arte su commissione, come è avvenuto per la Madonna di Pulsano nel 1966..

Alcune leggende sulla Sipontina ci sono state tramandate di generazione in generazione.
Una di queste racconta del suo trafugamento da parte dei Turchi nel notissimo saccheggio del 1620. La statua, durante l’allontanamento da Manfredonia su una delle galee degli islamici, vomitò proprio come accade alle persone che soffrono di mal di mare. I Turchi per lo spavento la gettarono in mare. La statua, galleggiando, fu prodigiosamente sospinta del mare fin sulla riva di Siponto. Fu rinvenuta da alcuni pescatori e venne riposta nella sua abituale cripta.

È detta anche “Madonna dagli occhi sbarrati”. Gli occhi sbarrati di Maria sono dovuti, secondo la credenza popolare, all’orrore di quello che hanno “visto” nei pressi della sua dimora di Siponto: un esecrabile episodio di stupro.

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Selujistre

Selujistre n.p. = Silvestro, Silvio

Negli anni ’50 Silvestro era un bracciante agricolo avvezzo al vino.

Spesso capitava che nello stesso podere lavorassero insieme Selujistre e il famigerato Jàmme-suttüle = “Gambe sottili”, altro bevitore incallito.

Per la bevuta serale andavano in sinergia e si scendevano un bottiglione da due litri a testa senza il minimo tentennamento.

Una coppia indivisibile, tipo “Doppio Rum & Salasso” due bevitori incalliti di vetusta memoria. Se non sapete nemmeno chi sono questi due personaggi siete proprio giovanissimi!

Erano personaggi dei fumetti, corollario delle avventure del famoso Capitan Miki, ambientati nel Far West.

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Reggiüna Caitù

Reggiüna Caitù n.p. = Regina Taitù

Taitù (Taieku in amarico), moglie di Menelik, Imperatore di Etiopia all’inizio del 1900, era una donna forte che difendeva l’indipendenza del suo Paese e che diede un contributo decisivo al raggiungimento di questo obiettivo.

Dagli Italiani fu considerata una nostra nemica, ma aveva il dovere di esserlo, perché l’Italia prima del 1915 voleva invadere quel Paese.

Sarebbe come se le truppe della Croazia volessero conquistare la Puglia, o quelle della Libia sbarcassero a Pantelleria. Gli spareremmo addosso senza indugi!

Fecero bene allora gli Etiopi a difendersi dai nostri tentativi di assalto.

Ma che c’entra questa donna con il nostro dialetto? La storpiatura del nome era dovuto all’analfabetismo diffusissimo all’epoca.

I nostri nonni – quando qualche donna con manie di grandezza disprezzava a destra e a manca per mettersi al centro dell’attenzione generale – la additavano ironicamente: E che, jì arrevéte ‘a Reggiüna Caitù? = Ma che, è arrivata la Regina Taitù?

Ma la vera Taitù era bella, nera, imponente, fiera, dignitosa.

Dal 1900 ai tempi della mia fanciullezza erano passati 50 anni, e di bocca in bocca Taitù si chiaramente è storpiata in Caitù così come l’ho captata io.

Se volete approfondire l’argomento cliccate → qui

 

 

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Pàvele

Pàvele n.p. = Paolo

Deriva dal soprannome e poi nome personale latino paulus, diminutivo di paucus, “poco, non grande”, e significa “piccolo, modesto”.
L’onomastico è tradizionalmente festeggiato il 29 giugno in memoria di san Paolo apostolo, morto nell’ 67.

Normalmente il nome Pàvele è abbinato a Francesco, così da formare Frische-Pàvele. Difatti viene sempre usato al diminutivo:

Pavelócce = Paoluccio, al maschile;
Paulüne = Paolina, al femminile.

Ze Pàvele (o anche Ze Pàule, o semplicemente Pavelócce è una locuzione idiomatica manfredoniana che indica la sonnolenza.

Credo che sia una trasformazione di papàgne, papavero.

Döpe mangéte me vóne ‘a papagne (oppure me vöne ze Pàule = Dopo aver mangiato mi viene la sonnolenza.

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