Tag: sostantivo maschile

Strìseme

Strìseme s.m. = Convulsioni.

Forte contrazione violenta, involontaria e istantanea di uno o più gruppi muscolari dovuta a particolari stati morbosi.

In dialetto è usato solo al plurale ‘i strìseme

Per estens., moto convulso, agitazione nervosa, talvolta simulato per puro vittimismo, per far apparire una situazione più grave di quella reale.

Mò ce fé venì ‘i strìseme! Camü’, vatte cùleche = Ora si fa venire le convulsioni: cammina, va a dormire!

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Strappöne

Strappöne s.m. = Raffazzonatore

Persona dai modi grossolani, il cui operato è eseguito spesso in modo approssimativo.

Sinonimo: Ciavattöne

Specificamente con strappöne si definisce un bandista, un orchestrale che non aveva troppa dimestichezza con il suo strumento, suonato male per mancanza di tecnica e di talento.

Strappöne si definisce anche un cavallo da tiro che non riesce ad avere – soprattutto nell’aratura dei campi – un passo costante, fondamentale per una buona riuscita della stessa, ma che procedere a “strappi”

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Stranghegghjöne

Stranghegghjöne s.m. = Reticenza, malumore, cruccio.

Ostinato mutismo in cui si rifugia colui che non è d’accordo con gli altri, non partecipa al buonumore degli amici, sta sulle sue, come se avesse “l’uve ‘ncröce” = l’uovo di traverso…

Ahò, e chè, tine ‘u stranghigghjöne, ca sté sembe cìtte? = Ehi, che hai il boccone di traverso che ti fa star sempre zitto?

Cum’jì ca sté citte citte ? Che tine ‘u stranghigghiöne ?” = Com’è che stai zitto zitto? Che hai l’uovo di traverso?

L’etimo che mi sembra più plausibile potrebbe essere “strangolamento”, che è la sensazione avvertita dal malcapitato quando gli viene un colpo apoplettico, e/o un infarto, che gli mozza il fiato e non gli consente di parlare.

Per taluni ha a che fare con una strozzatura del testicolo (questo spiega la desinenza del termine) dovuta ad un’ernia inguinale. Tali patologie, in uno stato avanzato, possono provocare dolore quando si tossisce, o addirittura quando si parla.

Per tale motivo il termine è spesso associato a qualcuno che tace e non dice nulla perché ha dei seri problemi di salute (o anche di altra natura).

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Strafüle

Strafüle s.m. = Spago, filo grosso

Grosso filo usato dai calzolai, sellai, materassai. Qualunque spago o legaccio in genere.

Quello che io ricordo era avvolto in un grosso gomitolo ed era posto in un alloggiamento della mietitrice meccanica: veniva adoperato dalla macchina agricola per allacciare i covoni automaticamente, per mezzo di un ingegnoso sistema, che tagliava il legaccio dopo averlo annodato attorno al fascio di spighe (‘a grègne).

Forse deriva da extra filo.

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Strafùche

Strafùche s.m. = Cibo, nutrimento.

Ciò che si mangia, che serve all’alimentazione umana, inteso un po’ spregiativamente.

In effetti chi si ingozza avidamente non dà uno spettacolo edificante.

Tó pjinze sèmbe au strafùche = Tu pensi sempre al cibo, al mangiare.

 

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Stracquatöre

Stracquatöre agg. e s.m. = Tregua

Termine tipico della marineria locale.

Indica, nella stagione invernale, l’apparire di una sola giornata di sereno dopo una serie di giornate di maltempo.

Come per dire che la cattiva stagione si fosse stancata (stracquéte) di imperversare ed ha voluto regalato una giornata di tregua prima di riprendere le avversità.

Approfittando delle condizioni meteorologiche favorevoli i pescatori cercavano di ‘rubare’ una giornata i lavoro con una rapida battuta di pesca.
Jògge jì stracquatöre, abbjàmece!” = Oggi è (il tempo ci dà una giornata di) tregua, avviamoci!

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Stracórse

Stracórse s.m. = Discorso, eloquio, esposizione

Invariabile al singolare e al plurale.

Tutta la successione di parole attraverso le quali si estrinseca il proprio pensiero ad almeno un astante.

Significa anche l’argomento stesso di cui si parla, o il significato recondito, o il succo di una lunga esposizione.

Giuànne ò fatte ‘nu sòrte de stracórse, e nen sàcce addj’ì ca vulöve arrevé = Giovanni ha fatto un lungo eloquio, e non so dove voleva arrivare (andare a parare).

Tó nen te ne venènne pe ‘sti stracórse = Tu non venirtene con questi discorsi (tanto non ti credo…)

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Stóppele

Stóppele s.m. = Groviglio, straccio

Garbuglio di stracci, o spago, o erbacce, o qls malloppo che forma ostacolo al defluire di liquidi.

Jìnd’u canéle sté ‘nu stóppele ca fé jì l’acque pe söpe = Nella grondaia si è formato un groppo che fa tracimare l’acqua piovana.

Presumo che derivi da “intoppo” o da “stoppa”.

Scherzosamente chiamasi stóppele una voluminosa forchettata di spaghetti.

Aùppete che stóppele = Ahum! Che tampone!

Diminutivo: stuppelìcchje o stuppjille.

Si definisce così, ad esempio, uno straccetto legato in cima ad una stecca e usato per lavare il fondo di una damigiana.
O anche un cencio arrotolato per turare temporaneamente una falla.
Oppure un lembo di tela inzuppato di olio da cucina, adoperato come esca per accendere i carboni del braciere o per ungere il fondo della padella.

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Stómbe

Stómbe s.m. = Moncherino

La parte superstite di un arto (superiore o inferiore) che ha subito un’amputazione.

Il termine deriva dall’antica voce longobarda Stumpf  (usato anche nella lingua tedesca contemporanea) che significa proprio moncherino, ma anche tronco, ceppo.  Insomma qualcosa di troncato, tagliato, mozzato.

Non voglio dilungarmi perché ritengo che sia indelicato scherzare su questo argomento.
Penso a quelle persone che hanno subito un incidente tanto grave da causare un’amputazione,  non ho voglia di usare il mio solito tono canzonatorio.

Dal punto di vista linguistico devo però dire che in dialetto una persona priva della mano viene detta che ha il moncherino, come se avesse ricevuto un regalo: Töne ‘u stómbe, o töne ‘un stumbarjille.

Secondo me si dovrebbe dire Jì rumàste p’u stómbe = È rimasto con il moncherino.  Ma nel parlato non si bada a tante sottigliezze.

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Stìzze

Stìzze s.f. e s.m. = Goccia, Arricciatura (edil.)

1) Stìzze, s.f. = Goccia. Quantità piccolissima di liquido di forma tondeggiante che si separa dalla massa o che si forma per aggregazione di particelle più piccole. Ammessa anche la variante stìzzeche.

2) Stìzze. s.m. = Arricciatura o rinzaffo. Si tratta di un impasto poco denso di acqua, cemento e sabbione. Si applica manualmente contro la parete da intonacare mediante veloci ed energiche cucchiaiate con la cazzuola. Detto anche squìcce.(clicca)

Una volta che questo sottile strato di malta cementizia ha fatto presa, assume l’aspetto di un tappeto con tante gocce a rilievo (da cui il nome ‘u stìzze = goccia, o ‘u rìcce = crespo, arricciato).

Su questo strato è più agevole stendere la malta bastarda (tufina, calce idrata, acqua e cemento) che si aggrappa allo strato dell’arricciatura per formare il corpo dell’intonaco grosso.

In terza passata, dopo l’asciugatura, si passa l’intonaco fino di malta bianca fatta di polvere calcarea, cemento bianco e acqua. Pe il fino si usa la cucchjére amerechéne, il frattazzo metallico.

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