Il rovo è un arbusto perenne della famiglia delle Rosacee (Rubus ulmifolius), cui appartengono numerose specie, comunissimo in tutto il bacino del Mediterraneo.
È costituito da una grossa ceppaia, da cui si dipartono numerosissimi fusti sottili, ricoperti da moltissime piccole spine arcuate.
L’intrico spinoso dei suoi rami è chiamato ruvutélerevutéle o revetéle = roveto. Veniva messo a dimora per delimitare i confini dei campi coltivati allo scopo di farne barriere, come siepi impenetrabili.
Dal rovo nascono le more, ‘imarìcule, chiamate così, oltre che nella zona garganica, anche in Basilicata, Abruzzo e Molise
Un mio amico di Ortona ripeteva un detto Abruzzese che più o meno recitava così: Le marìcule delle frjétte (fratte, rovi, cespugli) tanne so’ bbone, quanne so’ fìétte (fatte, mature). Quanne ammmatùrene l’uve e le fichi vaffancule tu e le maricule delle frjétte! 🙂
Bisogna sapere che fino agli anni ’40 un ambulante – di cui non so il nome – si guadagnava da vivere, oltre che aggiustando gli ombrelli, anche predicendo il futuro alle giovani donzelle di Manfredonia.
Insomma costui formulava, dietro compenso, un oroscopo vero e proprio, personalizzato, senza conoscere minimamente gli ascendenti e le menate varie riguardanti i soggetti esaminati.
Egli – guardato con timore e rispetto dalle trepide mamme – consultava un misterioso libro chiamato in dialetto “U rutìlje”. Lui stesso forse veniva identificato con questo nome.
Per l’epoca era un libro considerato infallibile, degno di rispetto reverenziale, alla stessa stregua del Vangelo: L’adda ’ngarré: sté scrìtte sope ‘u Rutilje! = Ti andrà bene, è riportato sul libro del Rutilio. Me so’ fatte anduvené dau Rutìlje: tenghe i punde de stèlle a 17 anne e a 29 anne, e pò baste.” = Mi son fatto predire la sorte dal Rutilio: avrò dei giorni critici soltanto quando avrò raggiunto l’età di 17 e di 29 anni.
La mia curiosità mi ha portato a fare delle ricerche in rete! Si tratta di tale Rutilio Benincasa, nato a Torano (CS) nel 1555, e morto probabilmente nel 1626, autore di scritti tramandati di generazione in generazione per 400 anni. Tra l’altro ha compilato delle tavole sulla periodicità dell’uscita dei numeri al lotto. Insomma un tipo molto fantasioso. “Rutilio fu astronomo, astrologo, anche se sono poche le notizie storiche su questo personaggio al cui nome sono associate vicende leggendarie, presenti talora anche nel folklore europeo o nella tradizione letteraria classica, per cui a livello popolare è considerato una delle incarnazioni del prototipo dello stregone.” (dal web)
Per scrutare il futuro, in alternativa alle previsioni prezzolate del Rutilio, le giovani donzelle la sera della vigilia di San Giovanni – considerata “la notte magica” perché cade al solstizio d’estate – usavano versare l’albume di un uovo in un vaso di vetro colmo di acqua e lasciarlo tutta la notte sul davanzale della finestra o comunque al fresco. Prima di posarlo recitavano la giaculatoria: San Pjitre e San Giuànne, qual’jì la sorte ca tenghe auànne? = San Pietro e San Giovanni, quale è la sorte che ho quest’anno? La mattina dopo, ansiose, andavano a scoprire la loro “sorte”.
L’albume, per effetto della frescura della notte, si rapprendeva in mille filamenti e agglomerati biancastri. Le ragazze vedevano, che so, tanti fili come le sartie di un bastimento (e allora il futuro “zito” poteva essere un navigante); oppure come una matassa posata sul fondo (e allora poteva trattarsi di un funaio); oppure come un foglio ricurvo, tipo una vela (un pescatore) o come una ruota (carrettiere o mastro carraio), ecc. Le speranzose pulzelle vedevano quello che “volevano” vedere. Questa antica usanza era nota anche in Sicilia, nell’Italia Centrale.
Strettamente legati al responso del Rutilio c’erano i cosiddetti “punti di stelle”, trattati a parte
Ci sono sempre i creduloni, e ci sono, per contro, quelli che sanno avvantaggiarsene a piene mani…
Per favore non confondete, data la somiglianza dei termini, ‘u Rutìlje con ‘u rutjille (←clicca).
Teglia di forma cilindrica dai bordi bassi, generalmente di alluminio, munita un solo appiglio metallico snodato, e usata per la cottura in forno non solo di torte (da cui il nome moderno di “tortiera”) ma anche di altre vivande.
Io le ricordo piene di patate e testine di agnello (‘i capuzzèlle) preparate a rjanéte e mandate a cuocere nel forno pubblico.
Il nome ‘u rùtele ricalca il napoletano ‘o rùoto, richiamandosi alla sua forma circolare, paragonato ad una ruota.
Quelle più antiche erano di terracotta o di rame stagnato, con bordo svasato, come da foto.
Il termine è usato solo dalle persone più anziane, ed è destinato a scomparire. Ora è chiamato sbrigativamente ‘a turtjire = la tortiera.
Ho letto da qualche parte che deriva dal latino roseolam = roseola (macchie eruttive causate da malattie o da farmaci).
Noi intendiamo l’alterazione della pelle dovuta al freddo umido; si presenta con chiazze bluastre o rosse che si trasformano in rilievi pruriginosi e ulcerazioni dolorose.
Perché venivano i geloni? Perché in casa un solo braciere non riscaldava bene gli ambienti: noi avevamo due stanze comunicanti al piano terra, eravamo di ceto medio perché papà era fabbro-artigano e si poteva permettere due stanze, ma forse non due bracieri.
Era credenza diffusa che per liberarsi dei geloni, si dovesse bussare all’uscio di qualche ignaro paesano, e quando costui dall’interno chiedeva. “Chi jì?” = Chi è?, si dovesse rispondere a voce alta: I rùsele a càste = I geloni a casa tua!
Dopo di che, terminato il rito, era obbligatorio scappare per evitare l’ascolto dell’immancabile ‘ghiachivemùrte!.
Ricordo anche un’orribile pratica per guarire i piedi colpiti dai geloni. Abbondante pipì sulle parti doloranti.
Può sembrare una sciocchezza, ma l’acido urico e l’ammoniaca contenuti nelle urine danno sollievo ai geloni e anche alle ustione delle lardichelle.
1) Rüsce, s.f. = Sminuzzatura di carbone di legna, usata specificamente per ottenere rapidamente l’accensione e per alimentare il braciere. Mette a cènere söp’a rüsce = Coprire la carbonella con la cenere (così dura più a lungo).
2) Rüsce, s.m. = Alito di vento leggero, foriero del successivo rapido rafforzamento. Mò ce jàveze ‘u rüsce = Ora si solleva una refola di venticello.
In ambiente marinaresco chiamano ‘u rüsce anche il rumore della risacca.
3) Rüsce v.i. = Prebollire, borbottare dell’acqua in pentola prima che inizi a bollire.
. Il verbo è difettivo, e viene usato solo alla terza persona singolare dell’indicativo presente.
A Cerignola pronunciano rousce (probabile derivazione dal latino rugire)
4) Rüsce s.m. = baldanza, spavalderia, disinvoltura.
È un termine decisamente desueto sentito solo recentemente e per caso. Non conoscendone il significato ho insistito per farmelo spiegare.
Indica la tracotanza dei ragazzotti per compiacersi del proprio fisico, specie in presenza delle pulzelle, perché diventi un’attrattiva per esse. Roba da palestrati che evidenziano la propria muscolatura come fanno i pavoni quando esibiscono a ventaglio la loro variopinta coda.
Le doti intellettive, ammesse che ci siano, restano chiuse nella loro scarsa scatola cranica.
Grongo (Conger conger). Pesce di mare. Vive nel Mediterraneo e nell’Atlantico. È molto comune nei mari italiani. Si incontra da profondità minime, di pochi centimetri fino a 300 metri.
Il grongo vive negli anfratti rocciosi dai quali esce di notte per cacciare. Una volta insediatosi in una tana è raro che si allontani da essa. Esclusivamente carnivoro si ciba di invertebrati (è un grande cacciatore di polpi) e di pesci. Non disdegna i pesci morti.
Il corpo, di colore grigio e con il ventre bianco, ha l’aspetto tipico degli Anguilliformi ma è più massiccio e potente. È liscio, senza scaglie.
Questo pesce può raggiungere dimensioni gigantesche: fino a tre metri per 70 chilogrammi con un diametro del corpo pari a oltre 20 centimetri ma di solito non misura più di un metro. Le femmine sono molto più grandi dei maschi.
Quelli pescati in Adriatico e che arrivano sulle nostre bancarelle non superano i 50 cm. Deliziosi preparati in umido.
Stranamente, runghe era usato come aggettivo, appioppato a persone avare e venali.
Quantunque il pesce abbia buone qualità il raffronto è tuttavia coerente, perché entrambi mostrano di avere una grande voracità.
Si tratta di un grosso contenitore cilindrico di terraglia smaltata con maniglie. Era munito di flangia, sempre di terraglia, che fungeva da sedile circolare.
Sinonimi: prüse, cacatüre, càndere. Quest’ultimo è un termine derivato direttamente dello spagnolo càntaro = vaso, contenitore
Quando non esisteva la rete fognaria funzionava da W.C., con tanto di coperchio di legno.
Usato prevalentemente dalle donne e dagli anziani.
Gli uomini, per espletare le loro funzioni corporali (insomma per cacare), si lanciavano nelle piantagioni di fichi d’india o negli anfratti della scogliera.
Il nostro storico vaso veniva posizionato in un punto ben nascosto della casa.
In tempi successivi fu messo in commercio il ruagne di ferro smaltato bianco col bordino blu (scusate il raffronto: aveva gli stessi colori dei piatti e dei tegami fatti col medesimo materiale detto firrefüse =ferro fuso) forse perché, essendo più leggero, favoriva le ‘operazioni di spostamento, di svuotamento e di lavaggio.
Le donne lo portavano a svuotare la notte, quando passava per le che cittadine un nauseabondo carro-botte del Comune che immagazzinava tutti i contenuti dei ruagne e li versava fuori città, nei campi o direttamente in mare. Nella foto, tratta dalla pagina “Le Bellezze del Gargano” si vede una specie di imbuto per il riempimento ma non il bocchettone posteriore per lo svuotamento.
L´amico Sandro Mondelli mi suggerisce che, con una sorta di rispetto, se l´oggetto doveva proprio essere nominato, si usava aggiungere subito un deferente: pe reverènze = come dire con riverenza, con rispetto parlando.
Infatti chi nominava cose immonde (piedi o panni sporchi, porcilaia, corpo sudato, pidocchi, cesso, cacca ecc,) si affrettava ad aggiungere parlanne pe respètte.
A orecchio sembra il francese roi (leggi ruà) = Re. Chi ci sta seduto sopra sembra il Re sul trono.
Dicono che il Re di Napoli Ferdinando IV di Borbone ricevesse i suoi ministri seduto pomposamente su questo simpatico oggetto.
Domenico Palmieri mi ha ricordato che scherzosamente ‘u ruagne – a proposito di alte cariche – era chiamato anche ‘u monzegnöre, cioè usando l’appellativo con cui (sempre con tutti il rispetto) si identifica l’arcivescovo.
Luigi Beverelli mi suggerisce: «Le dimensioni del ruàgne non erano sempre uguali e famiglie numerose spesso erano costrette ad averne di dimensioni più grandi, e per citarne la capacità si indicava il numero di defecazioni che avrebbe potuto contenere, ad esempio: ruàgne da 36 cachéte.»
Ora, a questo proposito, mi piace trascrivere e recitare una poesia del compianto Michele Racioppa tratta dal volumetto «Nzinghe Nzelanghe» – Edito nel 1997 da “M. Armillotta & C. snc”
‘U RUAGNE «Non pozze méje scurdé! Cchiù de na volte non putive fé… Grusse jöve lu fastidje, tirarle före jöve defficile. Ammuccéte sott’u fucarïle, nen vedöve anema vïve; jöve jirte nu mizze mètre, pe döje màneche grussetèlle, l’orle de quatte döte larje, de cröta lócede e colore bianche. T’assettive susperanne “Oh, fisalmente söp’u ruagne!…»