Pìzzeche

Pìzzeche s.m.= Pizzico; pala di cactus (botan.)

1) al maschile ‘u pìzzeche, significa pizzico, pizzicotto; diminutivo pizzechìlle  come ad es. nella locuzione béce a pizzechìlle = Bacio a pizzicotti sulle guance.

2) al femminile ‘a pìzzeche vale “pala da cactacee”, scientificamente detta “cladodio

Nel nome composto Pìzzeche-fechedìgne sf = “Pala” spinosa della pianta dei fichidindia e delle cactacee in genere.

Erroneamente si ritiene che la pala sia una foglia. Invece si tratta di ramo, Le foglie sono gli aculei (‘i zengüne).

Talvolta il frutto è inglobato nella pala. Allora è detto füchedègne a pìzzeche.

(Foto Michael Mourge)
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Pìzze alla vàmbe

Pìzze alla vàmbe s.f. = Focaccia alla fiamma.

Una specialità di Manfredonia caduta in disuso perché non si fa più il pane in casa.

Difatti le mamme quando impastavano in casa la farina per la panificazione, con la stessa pasta lievitata preparavano quasi sempre il tortanello, e questa focaccia, con pomodori freschi affondati nella pasta, olio, sale e origano.

Il forno pubblico era in fase di riscaldamento (ecco la presenza al suo interno della vàmbe = fiamma, che dà il nome alla focaccia) e le massaie chiedevano al fornaio di cuocere velocemente queste piccole cose prima dell’infornata del pane.   Al fornaio serviva anche da test per giudicare la temperatura del forno.

Il disco della focaccia veniva portato al forno su un legno compensato opportunamente infarinato. Il fornaio abilmente lo trasferiva sulla pala e lo introduceva nel forno per riprenderlo dopo pochi minuti, sfrigolante e fragrante.

Sapori e profumi lontani.

Ho scoperto casualmente che più o meno come la nostra è fatta in Alsazia (Regione della Francia confinante con la Germania), col nome di Flammkuchen o Tarte flambée .

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Pizzarèlle

Pizzarèlle s.f. = Dolciume

Dolcetto di forma rotondeggiante, a cupoletta in cima alla quale spesso si poneva un chicco di caffè tostato, fatto di farina, zucchero e uova.

Guardando i componenti si può dire che sono un po’ come i “pavesini” fatti in casa.

Anche le pizzarèlle si mandano in forno sulla teglia larga (‘a ramöre = la lamiera)

Sono tipici nel periodo natalizio, ma hanno fatto la loro bella figura anche nei rinfreschi di nozze.

Deliziosi sbriciolati nel latte.

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Pìsele

Pìsele s.m. = Paracarro 

Non sapevo se esistesse un termine italiano per descrivere quella colonnetta di pietra posta agli spigoli degli antichi palazzi signorili.

Feci appello agli Architetti o agli Ingegneri lettori di questo sito affinché mi dessero l’esatta denominazione.  Data la sua funzione l’avevo ribattezzata “salvaspigoli” perché ritenevo questo nome azzeccatissimo.

Nella foto  è riportata la colonnetta in Corso Manfredi, angolo Via De Florio

Un’anima buona mi ha detto che in italiano si chiama semplicemente paracarro! Difatti per evitare che carrozze o altri veicoli a trazione animale, svoltando per la strada troppo rasenti la parete, scalfissero con l’asse o le ruote gli spigoli dei palazzi.

Wikipedia mi ha dato un esempio fotografato a Kitzingen (←clicca) in Germania del tutto simile al nostro pìsele.

Una colonnetta più bella, in stile con l’edificio settecentesco, è collocata sempre su corso Manfredi angolo Via dei Celestini, sul Palazzo omonimo, ed è l’unica superstite: le altre tre che erano poste agli altri spigoli sono scomparse in questi secoli.

Negli edifici più modesti invece della colonnina posava agli spigoli un grosso frammento di roccia. Il macigno era utilizzato anche come “pedana”, un rialzo per caricare o alleggerire la il basto dell’asino, o per salire in groppa ad un mulo, un somaro o un cavallo.

Andando nei meandri della mia ormai arrugginita memoria, mi pare di ricordare che i contadini chiamassero pìsele anche ognuno dei due pilastrini in muratura che sorreggevano l’inferriata del cancello (l’insieme, ossia il cancello e i due pilastri di sostegno, era chiamato ‘u uéte= il “guado”, il passaggio).

Chiamavano pìsele anche i cippi posti ai confini dei terreni per delimitarne la proprietà, ad evitare odiosi sconfinamenti dalle conseguenze sempre spiacevoli.

E se non sbaglio erano conosciute come pìsele anche le colonnine che sostengono la trave (di legno o di pietra, cui è appesa la carrucola del pozzo. Un esempio lo troviamo nel chiostro del Palazzo San Domenico.

Queste colonnette a Mottola vengono chiamate Pisùli. A Matera vengono chiamate dai più anziani Pesüle.

In epoca contemporanea talvolta sono utilizzate, in fila e legate con una catena metallica l’una all’altra, come dissuasori o delimitatori di parcheggio. Noi usiamo per questa incombenza il comodo e pieghevole stendino….

Comunque ringrazio Matteo Borgia (Manfredonia Ricordi) per l’utilissima imbeccata.

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Piscindindì

Piscindindì s.m. = Pendente

Ciondolo oppure orecchino con pendaglio a forma di goccia.

A volte combinati con lo stesso stile, si ordinavano dal gioielliere la parure completa: pendentifcollier, anello e orecchini, tutti coordinati. Ma era roba da ricchi.

Il termine deriva dal francese pendentif. A causa dell’ignoranza il suono ha subito questa divertente corruzione.

Ora che hanno frequentato la scuola dell’obbligo, le ragazze, se vogliono farsi regalare quel tipo di gioiello, sanno benissimo come va pronunciato.

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Renéle

Renéle

Renéle s.m. = Orinale, pitale

Recipiente usato anticamente, quando non esisteva la rete fognante e ovviamente nemmeno il gabinetto, per raccogliere le minzioni notturne. Era detto in italiano pitale o vaso da notte.  Mio padre, nato all’inizio del 1900, lo chiamava esplicitamente  pisciatüre = pisciatoio, orinatoio.

Il sostantivo pisciatüre sembrava troppo rozzo, e si è modificato col tempo diventando ‘u renéle adeguandosi al termine italiano orinale.

Ricordo il grido del venditore ambulante con accento forestiero : Piatte fini, ‘o piattaro! ‘O rinale, ‘o vacile = Piatti fini, il piattaio, l’orinale, il bacile. Questi ultimi erano venduti quasi sempre insieme.

Forse le nuove generazioni non sospettano nemmeno l’utilità di questo oggetto nell’ assolvere degnamente per secoli i suoi compiti notturni.

Dopo lo svuotamento mattutino, il pitale veniva riposto nel vano del comodino, accuratamente nascosto dall’apposito sportellino.

Oggi lo usano i bambini, ha la forma di un animale domestico, e lo chiamano “vasino”.

Gli è sopravvissuto il termine “pisciatüre” per qualificare una persona o un oggetto di infimo valore.

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Pisciatüre

Pisciatüre  s.m. = Pitale

È la denominazione antica – il termine è pressoché scomparso dal lessico moderno – di un oggetto in disuso.

Nel sinonimo renéle ho spiegato quello che c’era da spiegare, con tanto di fotografia: cliccate qui.

Oggi si chiama in italiano, vasino, ed è esclusivamente ad uso dei bambini e della canzoncina “C’era una casa….”
«…non si poteva far la pipì
perché non c’era vasino lì.»

Il termine è talora usato per indicare spregiativamente un oggetto di nessun valore o anche una persona di scarsa professionalità, un fannullone, inaffidabile e moralmente discutibile.

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Pìppete

Pìppete s.m. = Peto

Siccome mi sono dilungato abbastanza su questo argomento, mi limito a riportare il termine, specificando solo che si può dire pìpete, un una sola “p”, tanto puzza lo stesso.

Andate alla casella “cerca”, digitate “scorreggia” e aspettatevi tre pagine di olezzanti risultati.

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Pìnghe

Pìnghe s.f. = Pene

Mi sono già dilungato abbastanza con (clicca→) pengöne (scusate il calambour sul dilungamento, prolungamento o allungamento…).

Il suono pìnghe somiglia all’inglese pink, che vuol dire color rosa (ricordate The Pink Panther = La Pantera rosa?): vuoi vedere che c’è attinenza cromatica?

Beh, un po’ più seriamente diciamo che pìnghe è il membro virile in posizione di riposo. Difatti esiste il soprannome Pingamòsce qualora ci fossero dei dubbi sullo stato del pene.

È una dei tanti modi di chiamare questa nostra appendice anatomica.

Un simpatico modo di dire manfredoniano, che vuole evidenziare una situazione di gran quantità di lavoro da svolgere, è: stéche a pìnghe de fatüje = sono sommerso di lavoro (fino all’altezza dell’inguine).

In italiano si scavalca a pie’ pari il punto scabroso, e si dice che si ha lavoro “fin sulla cima dei capelli”.

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Pìnge

Pìnge s.m. = Tegola

Elemento componibile di laterizio, usato come copertura di tetti. Esistono di varie forme.

La tegola più usata in Italia è quella a coppo, semicilindrica leggermente rastramata, ossia più larga al lato inferiore e più stretta a quello superiore, da potersi sovrapporre per qualche centimetro.

Esistono tegole piatte trapezoidali con i due lati maggiori rialzati a sponda, dette ìrmece = èmbrici, o tegole piane, usate fin dall’epoca dell’antica Roma.

In epoca moderna sono usate quelle rettangolari e scanalate chiamate “marsigliesi”, nate nel ‘900. Non so se le tegole marsigliesi hanno il corrispondente nome in dialetto manfredoniano. Invito i lavoratori edili a farsi avanti e chiarire il dubbio!

Nen anghianéte söpe ‘u tìtte ca ce ròmbene ‘i pìnge = Non salite sul tetto, ché si rompono le tegole.

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