Famme sté bùne a me e au marüte de megghjèreme.

Famme sté bùne a me e au marüte de megghjèreme.

Fammi star bene, a me e al marito di mia moglie.

Una simpatica “preghiera”, scherzosa, che si recita quando si sta per perdere la pazienza a causa di un interlocutore tedioso, querulo, insistente.

La filastrocca solleva dalla tensione e forse fa capire all’altro che è ora di smettere.

Questo detto ha un’infinità di varianti. Io stesso, ad esempio, da ragazzo auguravo buona salute a me, al figlio di Maste Vecjinze, e au nepöte de Cungètte ‘U Curàtele.

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Facjüme accüme facèvene l’andüche: mangiàvene ‘i scòrze e jettàvene i füche

Facjüme accüme facèvene l’andüche: mangiàvene ‘i scòrze e jettàvene i füche

Facciamo come facevano gli antichi: mangiavano le scorze e gettavano i fichi.

È l’immancabile risposta non-sense, dettata dalla facile rima, quando qlcu chiedeva: accüme amma fé? = come dobbiamo fare?

Ossia quando qlcu non sa trovare una soluzione a un suo suo problema e la chiede ad uno dei suoi interlocutori.

Si dice anche per sdrammatizzare un po’ una situazione difficile.

Ho sentito dire anche che gli antichi mangiàvene ‘u scùrze e jettàvene ‘a meddüche = mangiavano la crosta e buttavano la mollica.

E anche: Ce javezàvene a vèste e ce grattàvene u veddüche!

Anche qui era solo questione di rima e non di dieta, quando non esistevano ancora né il problema del sovrappeso né i dietologi che imponessero l’uso limitato di carboidrati.

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Fàcce a vjinde e cüle a tramundéne

Fàcce a vjinde e cüle a tramundéne

Faccia a vento e culo alla tramontana.

Posizione certamente non comoda.

Il detto evidenzia la situazione di precarietà e di difficoltà economica in cui qlcu si dibatte.

In pratica significa che costui è esposto a tutte le intemperie, in senso figurato: i guai gli piovono addosso da tutte le direzioni.

Auguri amico!

Può essere anche una risposta evasiva, allorquando non si vogliono raccontare le proprie peripezie:
– Uhé Giuànne, accüme stéje?
– Accüme jà sté? Facce a vjinde e cüle a tramundéne!
 = Ehi, Giovanni, come stai? E come debbo stare? Il solito andazzo….

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Fa böne e scùrde, fa méle e pjinze

Fa böne e scùrde, fa méle e pjinze

Alla lettera: fai bene e dimentica, fai male e pensa.

In italiano più corretto direi: Se fai del bene, dimenticalo, ma se fai del male pensaci, rammentalo perché ci devi porre rimedio al più presto.

Una regola di coscienza, di moralità, inculcata dai genitori ai propri figli fin dalla tenera età. Un valore che li forgiava per tutta la vita.

Oggi purtroppo pare che non esistano più i valori di sempre, viviamo in un mondo di puro egoismo, pronti a calpestare chicchessia per il proprio tornaconto. La coscienza? Che cos’è questa sconosciuta?

Se fai del bene non aspettarti gratitudine, ma se fai del male riflettici, ossia mostra pentimento e trova il rimedio.

Smetto di fare il moralista, altrimenti vengo preso per un bacchettone, o semplicemente frainteso. Io ora mi occupo del dialetto.

Mi vengono a mente i versi di una canzone napoletana degli anni ’20, intitolata “Canzone appassiunata”:

…nce sta ‘nu ditte ca me dà raggione:
“fa bene e scorda, e si faje male, penza!”.
Pienzece buono, sì: te voglio bene,
te voglio bene e tu mme faje murì!

‘nza-nzà!

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Fa böne a pùrche…

Fa böne a pùrche…

Fa pure del bene ai porci, ma non aspettarti alcuna riconoscenza!

Alla lettera va tradotta solo la prima parte del proverbio.

Questo Detto si lancia come un grido di sconforto, allorquando si constata l’assoluta mancanza di gratitudine da parte di chi è stato beneficiato dal proprio intervento.

Ehilà, come mi è uscita bene questa frase! (Ehm….scusate la mia botta di autostima 🙂 )

L’ingratitudine è una caratteristica del genere umano molto diffusa ad ogni latitudine, ostentata specialmente da chi non avrebbe meritata alcuna attenzione

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Döpe l’Epìste, Déo grazziàsse

Döpe l’Epìste, Déo grazziàsse

Dopo l’Epistola: Déo Gràtias.

Si cita questo detto allorquando un soccorso, un suggerimento, un conforto e qualsiasi altro sostegno richiesto, arriva fuori tempo massimo. Ossia quando si è già conclusa l’emergenza.

L’origine è derivata dal fatto che durante il rito della la Messa celebrata in latino fin al 1965 (con il Concilio Vaticano II si è imposta la lingua locale), terminata la lettura dell’Epistola (per esempio di San Paolo agli Efesini, ai Corinti, ecc.) il popolo all’invito del Sacerdote (Vèrbum Dòminum! = Parola del Signore, rispondeva Déo gràtias = Rendiamo grazie a Dio).

In dialetto non si andava troppo per il sottile sulla pronuncia del latino, tanto non lo sapeva quasi nessuno. Quindi gràtias andava detto benissimo grazziàsse. Ricordo che il verbo suscìpiat = (Il Signore) accetti (questo sacrificio…), era pronunciato susci-i-piàtte e intesa come un ordine per soffiare sui piatti!

Quindi DOPO aver terminato qualunque azione quasi automaticamente si pronunciava la formula DEO GRATIAS = finalmente!

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Donna Röse, fé ‘na bòtte e ce repöse

Donna Röse, fé ‘na bòtte e ce repöse

Donna Rosa, fa un colpo e si riposa.

Non sappiamo che genere di botta fa la nostra simpatica Donna Rosa prima di riposarsi…
Va bene anche fé ‘na botte e ce arrepöse, come tanti altri verbi o sostantivi che hanno questa ‘a’ iniziale rafforzativa.

Si cita questo detto quando si vuol spronare qualcuno ad affrettarsi.

Per esempio la mamma quando si accorge che la sua figliola, intenta a sbrigare le faccende domestiche, perde tempo e se la prende comodamente.

E spìccete, a mamme, ca tenüme che féje: assemìgghje a Donna Röse, fé ‘na bòtte e ce arrepöse! = E sbrigati, bella di mamma, ché abbiamo da fare: mi sembri Donna Rosa, che fa un colpo e si riposa!

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Dènde e dèbbete luéte, delöre passéte

Dènde e dèbbete luéte, delöre passéte

Va bene anche al plurale: Djinde e djibbete luéte, delüre passéte

Un saggio proverbio dei nostri nonni. Alla lettera signifca: dente e debito levato, dolore passato. In italiano esiste il Detto: Fuori il dente, fuori il dolore.

Come tutti i proverbi, specie quelli dialettali, anche questo è un po’ troppo sintetico.

In un italiano un po’ più appropriato si dovrebbe spiegare così:

Dopo aver cavato il dente marcio e/o dopo aver estinto il proprio debito, il dolore sofferto per entrambe queste operazioni, sia quello fisico per l’estrazione, e sia quello intimo per l’esborso del denaro, fa parte ormai del passato. Perciò il dolore non si avverte più, e di esso rimane solo il ricordo.

E meno male!

Ecco la morale: non occorre pensarci più, ormai è acqua passata.

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