Fàrece ‘na chépe de chjànde

Fàrece ‘na chépe de chjànde loc.id. = Piangere copiosamente.

Chjànde è pianto: Farsi un “signor” pianto, non un mini pianto di terz’ ordine.

Succede quando si vedono al cinema o in TV alcuni film strappalacrime che piacciono tanto alle donzelle.

Che bella stòrje: me sò fàtte ‘na chépe de chjànde = Che storia toccante! Mi ha fatto versare molte lagrime.

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Fàrece ‘i scorze ‘nganne

Fàrece ‘i scorze ‘nganne loc.id. = Parlare a vuoto, essere disattesi.

La locuzione vuol significare specificamente avvilirsi dopo innumerevoli e reiterati inviti ad un comportamento corretto, ad una condotta lineare, purtroppo inascoltati.

L’iperbole evidenza addirittura lesioni all’apparato fonetico, alle corde vocali, per il continuo vociare indirizzato a quelli che non vogliono ascoltare, né consigli e né suggerimenti per il loro bene. Queste immaginarie lesioni, iniziate tanto tempo prima, stanno rimarginandosi con delle croste (‘i scorze), come avviene quando si scortica un ginocchio.

Mò jéve ca te stéche decènne: agghje fatte ‘i scorze ‘nganne! = Te lo dicevo io da tanto tempo: mi sono spolmonato ma tu lo stesso non mi hai dato ascolto.

Insomma non è una traduzione proprio alla lettera, ma il significato è questo.

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Fàrce chére a mantenì 

Fàrce chére a mantenì loc.id. = Sopravvalutarsi, fare il prezioso.

Letteralmente significa farsi costoso da mantenere.

Come per dire: guarda che io sono esigente, schizzinoso, uno che sceglie sempre e solo cibi, indumenti e qualsiasi cosa di alta qualità, e quindi di alto prezzo. Se proprio vuoi stare al mio livello, che è ovviamente molto alto, devi saper sopportare un alto costo.

Assumere un contegno improntato ad altezzosità, sussiego (e diciamo pure assumere un atteggiamento molto antipatico).

Insuperbirsi, inorgoglirsi, non abbassarsi al livello degli altri, ritenuti ovviamente inferiori, non concedersi in confidenze o a favoritismi, stare sulle sue.

Insomma sa o crede di essere di gran valore, che ha un gran prezzo, che per mantenere il suo livello bisogna pagare caro il tentativo.

La risposta, se è eufemisticamente corretta, suona così: Meh, camüne vattìnne = Orsù, allontanati da questi paraggi.

Altrimenti un bel vàffa , e mi sembra giusto, non glielo toglie nessuno.

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Fanöje

Fanöje s.f. = Falò, pira, rogo.

Fuoco acceso all’aperto per segnalazione, come manifestazione festosa o per bruciare cose inutili.

Era usuale accendere  falò la vigilia delle grandi feste religiose: Natale, S.Lucia, l’Immacolata, ecc. Questa fanöje è stata ripresa da casa mia nella Festa di San Giuseppe 2018 a Matera.

Quando non era ancora diffuso il gas per uso domestico, tutti avevano in casa della legna da ardere per la cucina.  Allora i marmocchi facevano la questua casa per casa: Bellafé, Me vù dé ‘na legne a San Gesèppe? = Signora, mi vuoi dare una legna (per il falò che stiamo preparando per la festa dedicata) a San Giuseppe?

Partecipava generosamente tutto il vicinato e tutta la legna veniva accatastata all’incrocio delle vie.

All’accensione dei falò c’erano solo i ragazzini: poi man mano si avvicinavano anche gli adulti. Alla fine, intorno al fuoco si raccontavano ‘nduvenjille, frecàbbele e sturièlle.= indovinelli, barzellette e storielle fino tarda ora, quando il fuoco si consumava del tutto.

Con l’avvento del gas in bombole nel 1950 questa bella usanza è quasi cessata per mancanza di materia prima da bruciare, almeno nelle città.

Mi piace ora riportare integralmente ciò che ha scritto il prof. Ferruccio Gemmellaro sull’etimologia del termine:

«Il lemma Faro deriva giusto dall’isolotto di Faro dove era situato il faro di Alessandria d’Egitto. Poi, dall’incrocio greco di PHAROS “faro” con PHANOS “lanterna” fu coniato il termine Falò e la mutazione di N in L s’è attestata per preferenze locali (pisana).
In versione volgare meridionale si ha Fanoje che mantiene la N originale, direttamente quindi dal gr PHANOS, che vale Falò quale proseguo dei riti pagani, attizzato nelle vigilie delle feste cristiane più importanti.
La prova che la creduta esclusiva discendenza dei roghi mistici dalle pratiche celtiche, così come affermano certi intellettuali della padania, è un sonoro falso storico.»

L’amico Prof. Michele Ciliberti aggiunge:

«I “fuochi” e i “roghi” in greco antico hanno tutt’altra radice che è “pir”. Il Pireo è sì il porto di Atene, ma si chiama così perché vi sorgeva un ‘ara per sacrificare alla divinità del fuoco. In italiano abbiamo pure “Pira”.
La radice “fa” invece significa illuminazione, manifestazione ecc. Lascerei stare pure “Faros” che è un toponimo.
Per quanto riguarda “fanöje“, vedo un diretto calco della terza persona plurale del presente ottavo “fanoien“, del verbo “Fano” accendo, illumino, risplende, appaio ecc.»

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Fangòtte 

Fangòtte s.m. = Fagotto

Involto di panni o altro, fatto frettolosamente senza particolare cura. Antesignano del borsone sportivo.

Arrecùgghjete ‘u fangòtte e vattìnne a caste = Raccogliti le tue cose e vattene a casa tua.

In italiano si usa dire far fagotto: sgomberare alla chetichella, o chiudere un’attività.

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Falegnéme 

Falegnéme s.m. = Falegname

Artigiano che lavora il legno.

Questo nome è abbastanza ‘moderno’.

Fino agli anno ’40 era detto maste-d’asce = Maestro d’ascia, come in quasi tutto il centro-sud dell’Italia.
Fé ‘u maste d’asce = Fare il falegname di professione. Scherzosamente significa “russare”- Il rumore del russamento è simile a quello della sega del falegname, alternativa e stridente.

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Fainèlle

Fainèlle s.f. = Carruba

Frutto del carrubo (Ceratonia siliqua), albero sempreverde con tronco corto e largo, foglie di colore verde scuro, fiori rossi a grappolo, frutto commestibile a siliqua.  Una volta essiccato il frutto  diventa di colore scuro e lucido.

Le nostre nonne ponevano una carruba secca in ogni cassetto del comò allo scopo di profumare la biancheria.

Utilissima per preparare beveroni contro il raffreddore. Si facevano bollire nel pentolino pezzi di carruba, fiori di malva, di camomilla, un paio di fichi secchi come dolcificante. Il famoso decòtte.

Le carrube, spezzettate e bollite a lungo producevano uno sciroppo denso e dolcissimo chiamato vünecùtte = vincotto che usavano nella preparazione di dolci e sorbetti.

Nei lavori campestri, per dare maggior energia al cavallo che trainava l’aratro, assieme alla biada si ponevano nel sacchetto di tela con due bretelle legate alla sua testa, anche dei pezzi di carruba.

Il cavallo con la bocca immersa nel sacchetto mangiava durante le ore di lavoro. L’uomo faceva una sosta solo per bere lui e per far dissetare l’animale.

In erboristeria le carrube tritate vengono usate quale astringente contro la diarrea.

C’è da dire un ultima cosa sulle carrube. I suoi semi più grossi erano usati, perché duri e lucidi, da qualche artigiano ingegnoso per fabbricare i grani della corona rosario ad uso delle bizzoche.

In altri Comuni di Capitanata, del Barese e di Basilicata si pronuncia fascenèdde.

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Faggiulüne

Faggiulüne s.m. = Fagiolino

Il termine dialettale ha una connotazione simil-italiano.

Evidentemente è stato introdotto solo da pochi decenni nel dialetto non essendoci uno proprio.

Si tratta del baccello immaturo di alcune varietà di fagiolo, con i semi ancora in embrione, edibile, tranne il filamento e le due estremità, che si tolgono prima della cottura..

In Italia i fagiolini vengono chiamati, in alcune regioni, anche tegoline e cornette.

Curiosità: Esiste un varietà chiamata “Fagiolini Marconi”. Sono chiamati così perché, come il telegrafo inventato dal grande scienziato bolognese, sono…senza fili.

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Fafalöne 

Fafalöne s.m. = Semplicione

Persona magari grande e grossa dinoccolata un po’ tonta.

Che vé truànne ‘stu sòrte de fafalöne? = Che cosa cerca cotale spilungone?

Credo che l’origine dell’epiteto derivi da  féfe = fava,  il cui baccello, ‘ u vònghele, a volte lunghissimo, contiene poco fave al suo interno. Perciò fafalöne, riferito a persone, indica un ‘involucro’ grande ma dal ‘contenuto’ scarso.

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Faccüne

Faccüne s.m. = Facchino

Va bene anche scritto facchïne, tanto le due vocali ü e ï sono omofone (hanno lo stesso suono).

Chi è addetto al trasporto di colli, carichi, pesi, mobili ecc. o chi svolge lavori faticosi e pesanti.

Scherzosamente quando si è di fronte a un peso eccessivo da sollevare o da spostare, si dice che ce völe ‘a forze de ‘nu faccüne ‘mbriéche, chi me la dé? = ci vuole la forza di un facchino umbriaco, che me la dà?

Come se l’ubriachezza rendesse i facchini ancora più forzuti…

Termine invariabile sia esso singolare, plurale, maschile e femminile.

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