Parocche

Parocche s.f. = Bastone, vincastro

Sorta di bastone usata dai pastori nel menare al pascolo le loro greggi.  Taluni pronunciano paròcchele.

Ha spesso l’impugnatura era grossa, a pomello, per la nodosità del ramo da cui era stato ricavato, il bastone era proprio un randello, una clava.  Spesso termina a uncino.

In Abruzzo, Terra di pastori, è chiamata molto similmente pirocche, a conferma della secolare transumanza delle greggi verso la Capitanata che poneva gli Abruzzesi a lunghi contatti con le nostre genti del piano.

Esiste una forma di naso “importante”: ‘u nése a paròcche.

I Romani lo chiamano tortòre, forse perché non proprio dritto.

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Parlé segnöre

Parlé signöre loc.id. = Non parlare in dialetto

In effetti significava, almeno fino all’inizio degli anni ’60, eprimersi in italiano, roba da pochi privilegiati (clero, professionisti, proprietari terrieri e ufficiali militari = signori, quindi) poiché tutti gli altri parlavano in dialetto.

Le femminucce avevano inventato il gioco di “parlé segnöre” con divertenti involontarie storpiature: “Si è spasciato il cìcino”: “Ho accattato due chini di potogalli”: “Mia madre ha fatto due belle siccie chiene: sopra l’indorci e a rianata” ecc…

Da quando c’è stato l’avvento della televisione si è diffuso l’italiano finalmente anche come lingua locale.

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Pàrle accüme t’ho fàtte màmete

Pàrle accüme t’ho fàtte màmete loc.id. = Parla la tua lingua madre

È un invito a parlare con linguaggio semplice, senza ricercare parole ad effetto non da tutti comprensibili.

In italiano, per esempio, c’è un aggettivo di moda che è diventato un tormentone: esaustivo. Lo dicono spesso i giornalisti per mostrare la ricchezza del loro lessico. Ma non è più semplice dire ‘esauriente’ o ‘completo’?

E quell’orribile verbo ‘obliterare’? Non è meglio dire vidimare, timbrare, marcare?Vabbè, sono mode e passeranno prima o poi.

Nel caso di questo nostro sito, pàrle accüme t’ho fàtte màmete è un invito a parlare manfredoniano!

Non tradite la lingua madre, abbandonandola per vergogna o per timore di essere giudicati ignoranti.
Con questo mio modesto ma impegnativo lavoro sto sostenendo tutti i Manfredoniani, aiutandoli a conoscere la nostra parlata più intimamente e forse con un pizzico d’amore in più.

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Parì mill’ànne

Parì mill’ànne loc.id. = Non vedere l’ora

La locuzione esprime l’impazienza con cui si vuole ottenere qlcs, mostra il desiderio, la smania, la brama di vedere una persona amata, o di gustare l’arrivo di una stagione e dei suoi frutti, o di la cessazione di un periodo negativo

È un grido di speranza che forse accorcia un po’ i tempi di attesa.

Angöre tre müse: me père mill’anne ca Mattöje fenesce ‘u suldéte! = Ancora tre mesi (di attesa):non vedo l’ora che Matteo termini il servizio militare!

L’italiano ‘sembrare un secolo’ non rende l’idea…’Mill’ànne‘ è più facile da pronunciare e sicuramente più colorito.

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Paranghele

Paranghéle s.m. = Palàmito, palangaro.

Grande attrezzo adoperato per la pesca d’alto mare, costituito da una lunga cima distesa orizzontalmente, da cui pendono centinaia di lenze (tecnicamente dette palamére = braccioli) distanziate tra loro di 50 cm e terminanti ciascuna con un amo innescato (con esca).

Usato anche come forma simil-italiano palamüte. Non mi piace.

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Paradüse

Paradüse s.m. = Paradiso

In molte religioni, si definisce Paradiso quel luogo in cui sono radunate le anime dei giusti dopo la morte, e sono esaltate in modo eccelso dalla diretta visione di Dio.

Per estensione si definisce ‘nu paradüse un luogo reale della terra bellissimo e incontaminato.

So’ stéte alla Sicìlje: ‘nu paradüse = Sono stato in Sicilia: un vero paradiso.

Per dire “in paradiso” si dice ‘mbaradüse, legando “in” al sostantivo. Qualcuno dice ‘mbaravüse. Per me vanno bene entrambe le versioni.

Ecco un’interessantissima dissertazione di Enzo Renato sulla pronuncia di‘mbaradüse ‘mbaravüse:

 Mbaravüse in realtà lo dicono i Montanari ed i Montagnoli anche se non escludo che anticamente si dicesse così anche da noi.

Difatti, taluni antichi termini manfredoniani, oggi appaiono ai più come termini montanari, ma solo perché in tale dialetto essi si sono meglio conservati.

Il dialetto manfredoniano invece ha subito, negli ultimi decenni, una maggiore italianizzazione.

Tipici esempi:
– da iniziale doppia d si è passati alla doppia (cepòlle in luogo di cepòdde;cavàlle, martjidde diventati cavàlle, martjille. È rimasto códde per dire “quello”.

– da sc si è passati a j. da desciüne, scì dejüne, jì).

A Monte San’Angelo esistono così tuttora, sono rimasti invariati.

Inoltre la convivenza con la popolazione montanara generata, non solo dalla vicinanza, ma anche dai continui e frequenti matrimoni tra questa e quella gente, da sempre attestati nella storia, e maggiormente accentuata a seguito dell’emigrazione di massa, avvenuta nel secolo scorso, da Monte a Manfredonia, hanno creato una tale promiscuità di gente e di dialetti, che oggi è davvero un arduo compito individuare o riconoscere l’appartenenza esclusiva e totale di un certo termine ad uno dei due dialetti.

La mia convinzione è che, in definitiva, anticamente il nostro dialetto non doveva differire poi tanto da quello di Monte Sant’Ant’Angelo, se non nella pronuncia (che è tutt’oggi spiccatamente diversa).”

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Para-pàtte-e-péce

Para-pàtte-e-péce loc.id. = Impattare.

Locuzione per indicare che, nei rapporti di affari, di gioco, di dialogo, di controversia, le cose sono andate in parità.

In italiano si dice pareggio, pari, patta e anche insieme questi due ultimi termini, (pari e patta) a mo’ di rafforzativo.

Patta, deriva dal latino pax e pactum nel significato di accordo.

In dialetto aggiungiamo anche il terzo rafforzativo, caso mai non si fosse capito che si era pareggiato il conto: pace. Siamo un popolo pacifico.

Infatti a volte si dice, a suggello dell’accordo, come fosse una dichiarazione liberatoria: mò stéme para-patte-e- péce o anche, più brevemente: mò stéme péce = ora siamo pari,non abbiamo più nulla da pretendere reciprocamente.

Qui, secondo me, fa capolino quell’origine latina sopra riportata (pax, pactum). Correggetemi se sbaglio.

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Papùnne

Papùnne s.m. = Babau, l’uomo nero.

‘U papùnne (o anche papònne) era un personaggio orribile, evocato dalle mamme per spaventare i figli irrequieti e convincerli a rigar dritto.

Il “mostro” poteva arrivare immediatamente, proprio quando loro facevano i capricci.

Uì, mò vöne ‘u papùnne = Ecco, (lo vedi) ora viene il Babau!

Ai monelli le brave mamme raccontavano addirittura che ‘u papùnne avrebbe afferrato i bambini “cattivi” li avrebbe calati in un sacco per portarseli via nel bosco a mangiarseli! Perciò, zitti e calmi!

Nessuno ci credeva, né la mammina, né i discoli…..ma funzionava, almeno le prime volte.

Ricordo una vecchia canzoncina delle nostre mamme:

Uh Madonne! Uh Madonne!
sott’u ljitte sté ‘u papònne!
Jü lu fazze pe caccé,
e sèmbe a qua ce völe sté!

Traduzione: Oh, Madonna, oh Madonna, sotto il letto sta il babau! Io faccio (agisco) per scacciarlo (ma) sempre qua vuole restare.

Il mio amico Michele Carbonelli, che ringrazio vivamente, fa questa deliziosa descrizione:
«’U papunne.
Aleggiava in ogni casa, prediligeva stare sotto al letto o nello stipo a muro. Lentamente si alzava quando veniva chiamato per incutere paura ai bambini disobbedienti.
Figura d’oltretomba somigliante più ad nube bassa e cupa che ad un fantasma. A modo suo cattivo con vene di bontà: non si ricordano azioni persecutorie ai danni di anime deboli.
Era considerato uno di famiglia, un parente invisibile da temere, sempre presente all’occorrenza. Non attirava folle e non amava alcool e droga [come probabilmente accade con le varie attuali “Samara” in carne e ossa, che compaiono ormai ovunque come una sfida stupida-ndr] Un tipo solitario e tutto sommato pacifico, ma sempre pronto ad intervenire per sedare capricci, pianti e desideri impossibili.»

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Pàppele

Pàppele s.m. = Tonchio

Nome generico di diverse specie di coleotteri della famiglia dei Bruchidi che, allo stato larvale, sono dannosi per molte piante della famiglia delle Papilionacee e per i frutti secchi di tali piante.

Il tonchio della fava è chiamato dagli specialisti Bruchus rufimanus, quello del pisello Bruchus pisorum e quello dei fagioli Acanthoscelides obsoletus.

Mamma mia che nomi! J’ chiù mègghje a düce pàppele = È meglio dire tonchio

Nel napoletano ho sentito pronunciare pàppece.

Il termine nostrano deriva dal greco antico peplos.

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