La cöse a fòrze, nen véle ‘na scòrze

La cöse a fòrze, nen véle ‘na scòrze

Un’azione (compiuta) per foza non vale (nemmeno) una buccia.

In italiano si direbbe che non vale un fico secco.

Aggiungo che nemmeno quelle fatte controvoglia riescono bene.

Insomma un po’ di passione in tutte le cose non fa pesare un lavoro, per quanto gravoso.

Per esempio io sto compilando questo vocabolario da tre anni ormai, e il lavoro non mi pesa minimamente, perché lo sto facendo con entusiasmo: e nessuno mi sta obbligando a farlo! Spero che esso valga più di un fico secco ?

Ringrazio Michele Murgo di avermi imbeccato questo Detto, pronunciato or ora da sua madre.

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La chió sendènzja gròsse me pàsse pe’sòtte ‘a còsse.

La chió sendènzja gròsse me pàsse pe’sòtte ‘a còsse.

La più grande maledizione (diretta a me) mi passa sotto la gamba.

La sendènzje, intesa come maledizione, era molto temuta, specie se lanciata nel corso di un furioso litigio.

C’era però qualche tipo spavaldo non temeva la maledizione, e la ‘schivava’ facendola passare sotto la gamba.

Ora queste cose ora fanno sorridere, ma una volta si temevano davvero.

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La catàrre mméne ai cafüne

La catàrre mméne ai cafüne

La chitarra in mani ai villani.

Non che i contadini non possano suonare questo strumento, per carità…

Si cita questo Detto quando si vuole evidenziare che non tutti meritano o mostrano di saper apprezzare un dono, un oggetto, un servizio che viene loro offerto.

Addjì ca süme jüte a fenèsce: a catarre mméne ai cafüne = Dove siamo andati a finire…La chitarra in mano ai cafoni.

Nota linguistica.
I giovani di oggi dicono ‘a chitarre, quasi come in italiano. Ma è un termine modificato perché essi hanno frequentato la scuola dell’obbligo e sono portati a italianizzare tutto il lessico… (dicono furchètte, al posto di furciüne‘u pomerìgge invece di ‘u jògge, preferiscono ‘u lucchètte all’antico catenàzze, e serratüre al genuino maškatüre, ecc.)

Io propendo per catarre e catarröne invece di chitàrre e controbbasse.

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La carne döle all’ùsse

La carne döle all’ùsse

La carne duole all’osso.

Il significato del proverbio è chiaro. Solo a me che sono molto vicino al soggetto interessato può far male una maldicenza, una calunnia, una malignità ecc. e non a un estraneo, per quanto possa mostrarsi partecipe e rammaricato.

Ossia gli estranei non possono mai compenetrarsi nel dolore quanto possano farlo i familiari più stretti.

Così come il dolore è più lancinante se ad essere colpita è la parte del tessuto muscolare aderente l’ossatura.

Sì, a vüje ve despjéce…ma la carne döle all’ùsse! = Sì, vi dispiace…ma non potete mai provare il dolore che provo io (che sono parente).

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L’àte fanne i fatte, e chi ca jì la putténe? Caremöla Pampanelle !

L’àte fanne i fatte, e chi ca jì la putténe? Caremöla Pampanelle !

Si attribuisce la colpa sempre alla stessa persona, anche se poi sono gli altri a combinarne di grosse!

Alla lettera si traduce: gli/le altre compiono misfatti, e (alla fine) chi è la puttana? (la solita) Carmela Pampanella.

Similmente in italiano si dice: chi per bugiardo è conosciuto, qualora dica il ver non è creduto.

Povera Carmela.

Lo stesso proverbio l’ho sentito anni fa da un Salernitano…non ricordo però il nome della puttana citata in Campania.

Grazie al lettore Enzo Renato per il suggerimento.

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L’àsene ammjizz’i sùne

L’àsene ammjizz’i sùne.

L’asino in mezzo agli orchestrali.

Sensazione di chi, trovandosi in un ambiente diverso da quello abituale, prova disagio e si sente smarrito, imbarazzato, spaesato, intruso e sim.

Fé la fjüre de l’àsene ammjizze ‘i sune = Fare la fiigura dell’asino in mezzo ai professori. Figuraccia assicurata.

L’asino si traduce generalmente ciócce, ciucciarjille. Ma qui, facendo una citazione “dotta”, si usa appositamente una voce simil-italiana.

I suoni erano detti i bravi suonatori che si esprimevano con talento, cuore, passione, senza titoli accademici, ma con la modesta tecnica imparata da un insegnante privato di musica, anch’egli senza alcun diploma di Conservatorio ma con tanto ingegno, e genialità artistica.

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L’acque fé ‘mbraceté ‘i bastemjinde a mére

L’acque fé ‘mbraceté i bastemjinde a mére

L’acqua fa marcire i bastimenti a mare.

La frase in se stessa non chiarisce molto un concetto che pare ovvio.

E’ la risposta ironica al padrone di casa che ci offre da bere dell’acqua.

– Vu’ ‘nu pöche d’acque? = Vuoi un po’ di acqua?
– L’acque fé mbraceté i bastemjinde a mére = L’acqua fa marcire i bastimenti a mare.

Insomma il padrone di casa non l’aveva capito: non avrebbe dovuto offrire l’acqua all’ospite, bensì birra, o vino, liquore, caffé.

Un’altra simpatica risposta è:
 No, l’acque po’ vé alla spalle = No, l’acqua poi va alla spalla.

Qui il discorso è un po’ più serio.

In tempi in cui il riscaldamento nelle case era dato solo da un braciere a carbonella, le persone anziane si ammalavano di pleurite essudativa o di pleurite sierosa.

Questa malattia è un’infiammazione acuta o cronica della pleura con essudazione fibrinosa delle sue superfici e con presenza di essudato nella cavità pleurica, causata dal micobatterio tubercolare. Conseguenza: febbri e difficoltà respiratorie.

E non erano stati inventati ancora gli antibiotici!

Il popolino chiamava questa brutta malattia “l’acque alla spalle“.

Ecco perché era meglio il vino….L’acqua poteva infiltrarsi nella spalla!

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