Tag: sostantivo maschile

Ficche-fìcche 

Ficche-fìcche s.m. = Coito, rapporto sessuale

Scusate il termine osé… Fa parte della parlata locale.

Si usa ancora? O non si usa più? Non so!

Ovviamente io mi riferisco alla parte letterale, alla denominazione, non all’atto di fé ficche-ficche = Fare all’amore, accoppiarsi sessualmente, che si continuerà a fare finché ci saranno maschi e femmine a questo mondo.

Il termine è entrato nel linguaggio locale durante l’occupazione Alleata. I giovani soldati americani andavano a caccia di donne durante la libera uscita, e chiedevano indicazioni per raggiungere il bordello, allora funzionante in Via Cave, una traversa di Via Principe Umberto (attuale Via Antiche Mura).

Per farsi capire gli Americani chiedevano quick fuck = scopata veloce.

Figuratevi cosa capivano quelli che allora parlavano solo il dialetto..

Per assonanza capivano fik-fik, che somigliava al verbo ficcare, chiarissimo riferimento all’azione che intendevano compiere quei ragazzi, e li indirizzavano correttamente, facendosi capire a gesti.

Gli adolescenti chiamavano l’atto sessuale, di cui avevano solo una vaga idea: ‘i cöse purcjille = le cose da porcelli.

Ah ah ah, mi fa ridere ancora adesso quella buffa locuzione.

Sinonimi: sciammèrje, frechéte, chiavéte, ‘nzacchéte, strechéte, mbezzéte , ecc.
Nelle cose di sesso fortunatamente la fantasia non ha mai posto limiti.

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Festüne

Festüne s.m. = Festino

Una volta, diciamo fino agli anni ’50, indicava il trattenimento danzante di tono familiare e informale che seguiva la cerimonia delle nozze o del battesimo.

Per lo più si svolgeva in casa – opportunamente sgombrata da letto comodini e tavoli – ed era a base di pizzarèlle, dolcetti secchi, scaldatelli e rosolio fatti in casa, e talvolta allietato da un’orchestrina di cinque elementi: sax o clarinetto, chitarra, fisarmonica, batteria e contrabbasso.

Poi si è cominciato a usare i locali come il Ristorante Pastore, l’Albergo Daniele (scomparsi) e il Ristorante la Conghiglia (inaugurato nel 1962 credo). Allora i dolci si ordinavano in pasticceria (generalmente Aulisa o Castriotta) che fornivano anche i camerieri in giacca bianca, guanti e papillon.

Oggidì il festino di nozze si chiama rinfresco: 200 invitati, pranzo pantagruelico in locali di lusso, animatori, dj, torta nuziale, fotografi, cineoperatori, fuochi artificiali finali e separazione programmata a orologeria entro 24 mesi.

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Ferrìzze

Ferrìzze s.f. = Sgabello, scranno

Sgabello molto rustico fabbricato con legno di ferula, detto anche finocchiaccio selvatico, insomma la nostrana frèvele(←clicca), tagliato in tanti tronchetti di circa 50 cm che venivano assemblati con legacci di fibre vegetali e senza l’uso dei chiodi o di colla.

Ho visto da bambino una ferrizze addirittura con lo schienale fatta da un artigiano fantasioso.

Nel Salento sono chiamate fuddizza. In Sicilia questi sgabelli cubici sono chiamati furrizzeferrìzzuoli (Eravamo o no nel Regno delle Due Sicilie?) e sono tuttora venduti come prodotti dell’artigianato.

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Ferrètte 

Ferrètte s.m. = Saliscendi, Forcina per capelli, ferretto

1) Ferrètte = Saliscendi. Congegno per chiudere porte e finestre, formato da una piccola verga piatta di ferro munita di pomello che scorre tra guide, e che può andare a incastrarsi in un altro passante fissato sull’altro battente, o anche nell’apposita staffa posta sull’architrave della porta.

Quello inferiore, praticamente uguale, ma viene montato a rovescio, ossia con il codolo che si inserisce in un foro praticato sulla soglia d’ingresso.

  2) Ferrètte = Forcina per capelli a forma di una U con i due gambi lunghi fino a 10 cm. Serviva a sostenere le trecce composte a crocchia, una sorta di toupet. Al plurale suona ferrjitte.  Usato anche per liberare parti interne incrostate di tubi o anche (scusate) gli sfinteri anali occlusi (ndurséte)  da semi ammassati di fichidindia,

Quello più piccolo, dai gambi aderenti, leggermente arcuati, è chiamato ferrettüne = ferrettino indifferentemente sia al singolare, e sia al plurale. Può essere anche di colore dorato per le pulzelle che hanno i capelli chiari, oppure nero o castano per le more.
La parte superiore visibile è a forma serpeggiante in modo che i capelli da essi fermati assumano un ordinamento ondulato. Le nostre nonne, in assenza di cotton-fioc usavano la parte ad occhiello per spalare il cerume dalle loro e dalle nostre orecchie…

3) Ferrètte = Ferretto a sezione quadrangolare per preparare la pasta fresca in casa, una specie di maccheroncino chiamato mezze-fainèlle

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Ferrére

Ferrére s.m. = Fabbro-ferraio

Artigiano che lavora il ferro. Deriva dal latino ferrarius.

Sono abilissimi a forgiare ringhiere, corrimano, balconate, infissi, cancelli, aratri quadrivomeri, chiavistelli, serrature ecc.

Quelli che facevano all’occorrenza anche i maniscalchi sono andati riducendosi per scarsezza di equini da ferrare. Non credo che esiste ancora qlcu a Manfredonia.

Molti fabbri invece erano meccanici di macchine agricole (trebbie, mietitrici, trattori, ecc)

Come tutti gli artigiani erano appellati con il titolo di maestro, non solo dai propri allievi:

Maste Vecjinze Racioppe, Maste Dumìneche Adabbe, Maste Frangìsche Cinghe, Maste Tumése Racioppe, Maste Mecöle Telöre, Maste Cesàrje Mundèlle, ecc.

Esiste anche un soprannome, ma credo che derivi dal cognome Ferrara.

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Ferrarìcchje

Ferrarìcchje s.m. sopr. = Piccolo fabbro.

Diminutivo di ferrére = fabbro-ferraio.

Usato come soprannome. Evidentemente la persona cui fu affibbiato era di conformazione minuta a dispetto del mestiere svolto che richiede corporatura robusta, o invece aveva una piccola bottega dove svolgeva il suo lavoro.

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Fèrra-cavàlle

Fèrra-cavàlle s.m. = Maniscalco

Artigiano che forgia i ferri su misura e attende alla ferratura degli equini (muli, asini e cavalli).

Di solito era un fabbro-ferraio che si adattava a questa incombenza.

Tuttavia mio padre (fabbro come tutti i suoi antenati, accertati almeno fino al 1825) non ne ha voluto mai sapere: Mastro Vincenzo preferiva costruire aratri, ringhiere, grate, balaustre, zappe, picconi, treppiedi per braciere e caminetto, e soprattutto riparare macchine agricole.

In dialetto il termine maniscalco non è mai entrato. Si è preferito descrivere l’azione di ferrare i cavalli, quindi colui che ferra i cavalli. Un po’ come l’italiano spacca-pietre o cava-denti.

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Fenucchjètte

 Fenucchjètte detto anche Fenucchjille salvàgge s.m. = Finocchietto selvatico


Il finocchietto (Foeniculum vulgare) è una pianta erbacea perenne, della fam. delle Ombrellifere originaria delle regioni mediterranee.

In Italia è diffusa particolarmente lungo le zone costiere, dal piano ai 1.000 metri.

Proprietà terapeutiche: depurative, tonico-aperitive, carminative, antispasmodiche.

In cucina vengono usati i rametti più teneri e la guaina a grumolo verdastro della radice quando non è troppo sviluppata, perché allora diventa coriacea.

In Sicilia è un ingrediente indispensabile nella preparazione della celeberrima “pasta con le sarde”

Nella Puglia è raccolto nei campi perché dà aroma alla rustica minestra di erbe campestri miste [‘i fogghje meškéte].

Da non confondere con i fenucchjètte (biscotti al finocchio, simili agli scaldatelli) e con i summènde fenòcchje (frutti del finocchio selvatico chiamati erroneamente “semi ” di finocchio).

 

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Fenòcchje 

Fenòcchje s.m. = Finocchio

Ortaggio commestibile di forma più o meno tondeggiante, colore bianco verdastro e sapore fortemente aromatico: finocchi al burro, gratinati, in pinzimonio.

La pianta (Foeniculum vulgare), è coltivata per ottenerne le brattee basali, spesse e scanalate, che costituiscono tale ortaggio. I semi del finocchio selvatico sono usati per aromatizzare vivande e insaccati.

Il termine “finocchio”, è stato utilizzato per denotare spregiativamente un uomo con atteggiamenti femminili o tendenze omosessuali. Il termine, originariamente usato per indicare qualcosa di scarso valore, avrebbe poi assunto il significato di “persona di poco valore, spregevole” e quindi secondo la mentalità del secolo scorso, di omosessuale.

Al plurale fa fenócchje con la “o” stretta.

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Feletüre 

Feletüre s.m. = Tappo, turacciolo.

Tappo di sughero usato prevalentemente per bottiglie di vino, fiaschi, damigiane, barilotti.
Nel Barese e nel Materano lo chiamano similmente “fuldùr”.
Si intendono tutti i turaccioli che si inseriscono nel collo della bottiglia., della damigiana, e di qualsiasi contenitore per liquidi.

Per turare il “cìcino” invece del tappo di sughero, si adoperava il rocchetto vuoto di legno, quelli su cui veniva avvolto il filo di refe ad uso di sarti e calzolai. Però si chiamava sempre feletüre.

Il Prof. Michele Ciliberti, che ringrazio sentitamente, mi ha fornito l’etimologia di feletüre. Riporto testualmente:
«Deriva dal latino fultorium, a sua volta da fulturus, participio futuro di fulcio, che significa sostenere, chiudere, turare, quindi turacciolo».

Questo spiega anche il contrario sfulecé  = sturare, sgrumare specificamente il cannello della pipa o altro dispositivi di scolo.

Il termine tende a scomparire, soppiantato da tàppe, più rapido da pronunciare… Con questo termine si intendono.oltre a i tappi di sughero, anche quelli a corona usati per le bottiglie di birra, o quelli a pressione di plastica colorata per le damigiane..

Figuratamente mètte ‘u feletüre indicava l’atto sessuale. Ormai è in disuso (solo il termine feletüre, non l’attività sessuale, per fortuna….).

La stessa frase, a seconda del contesto, è detta in modo un po’ spregiativo, per indicare l’azione di un uomo che sposa una ragazza dalla vita sentimentale piuttosto turbolenta.
Jì arrevéte jìsse è ho mìsse ‘u feletüre = È arrivato lui (ignaro o consapevole) ed ha messo il tappo, ha messo fine al comportamento disordinato della pulzella.

In lingua si potrebbe dire, in caso di consapevolezza: “costui ci ha messo una pietra sopra” (sul passato della sua sposa).   Ha sorvolato sui precedenti di lei, ha preferito non pensarci e guardare al futuro.

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