Mpelé v.i. = Emettere peli
Nel periodo della vita (dopo l’adolescenza) chiamato pubertà, le regioni dei genitali, nei maschi e nelle femmine, si ricoprono di peli. È uno dei segni dei caratteri sessuali detti secondari.
Quando assistevamo al fenomeno del cambio della voce di qualche nostro amichetto, cui era già apparsa la peluria sul labbro superiore, domandavamo:
Ma che, sté ‘mpelanne? = Ma che succede, sta emettendo peli anche sul pube?
Qualche furbetto, imitando il titolo di un famoso film dell’epoca con Lawrence Olivier, chiedeva: “Amleto?” come per chiedere in modo velato: Ha mpeléte? = ma a te sono comparsi i peli sull’inguine?
Una curiosità che ci prendeva tutti, perché la natura – dopo questo primo segno – in breve tempo avrebbe trasformato radicalmente i nostri corpicini implumi, dotandoci tutti, maschi e femmine, di un fisico da adulti atti a procreare. Omoni a fiumi!
Mi ricordo pure il verbo opposto “spelé“, usato come atroce minaccia delle mamme verso le figliole che non rigavano dritto. .
Aggiungo – a proposito di spelé e ‘mpelé, che in età matura quasi a tutti noi maschietti succede un fenomeno strano… I capelli si diradano sulla “cocozza”, e per contro si infittiscono sulle sopracciglia, che diventato cespugli, spuntano rigogliosi dalle orecchie e dalle narici!
Meno male che il mio barbiere li tiene a bada!
Autore: tonino
Che bell’ùcchje tjine ‘mbacce
Ecco la locuzione idiomatica completa:
Nen lu pùte dïce manghe: « che bell’ùcchje tjine ‘mbacce!» = Non gli posso dire nemmeno: che begli occhi e hai in viso!
È la definizione di un soggetto irritabile o permaloso.
Qualsiasi apprezzamento viene recepito da questo soggetto con sospetto. Oppure reagisce con veemenza, in modo sproporzionato, a qualsiasi critica o consiglio.
Cì’, cì’, nen te pozze düce manghe “che bell’ucchje ca tjine ‘mbacce!” = Zitto, smettila, non è il caso di inveirmi contro solo per aver espresso un mio parere sul tuo discutibile comportamento.
Vatte lu frjiche!
Vatte lu frjiche! loc.id. = Vattelapesca
Somiglia, come costruzione verbale, a quello che la inesauribile Enciclopedia Treccani spiega sulla locuzione vattelappésca, cioè :
«[da vàttelo (imperat. di andare, rafforzato dalle particelle ti e lo) a pesca (pop. per «a pescare»)]. – Propr., «va’ a trovarlo, a indovinarlo; va’ a saperlo.»
Come dire chissà dov’è finito!
Nel nostro caso, alla lettera, caso corrisponde “vattelo a frecare”, nel senso che è ormai impossibile acchiappare, catturare, bloccare un ipotetico fuggitivo, scappato via fulmineamente di fronte alla prima avvisaglia di pericolo.
Ad esempio un gattino che sfugge al tuo tentativo di presa. O un monello che ha compiuto una birichinata e teme la tua reazione o la tua minaccia.
Nota fonetica:
Vatte lu frjiche! si pronuncia tutto d’un fiato appoggiando e prolungando l’accento tonico sulla penultima sillaba. come fosse scritto vattelufriiiiche! (ascolta cliccando sul triangolino bianco qui sotto).
Uggiò!
Uggiò! inter. = Ehi, giovane!
Quando ci si rivolge a qualcuno che non si conosce, magari per chiedere un’informazione, specie se la persona interpellata non è avanti con gli anni, si usa questo simpatico vocativo bisillabo: uggiò, che poi sarebbe il troncamento di ‘u giòvene.
Se la persona è adulta si usa bellö‘, alla lettera “bell’uomo”, in italiano corretto “buonuomo” (ovviamente al femminile bèllafè’).
A volte assume toni minacciosi:
Uggiò, fatte ‘i cazze tüve! = Ehi tu, pensa agli affari tuoi!
Uggiò, vatte fé ‘na camenéte = Ma perché non vai a farti un giretto? In questo modo eviteresti di impicciarti in affari che non riguardano la tua persona, che così verrà salvaguardata da conseguenze spiacevoli.
Il sintetico invito veramente non è tradotto proprio alla lettera, ma il senso del discorso è proprio quello…
U scarpére p’i scarpe rotte
U scarpére p’i scarpe rotte
Il calzolaio con le scarpe rotte
Capitava che gli artigiani dedicassero più tempo ad eseguire il lavoro ai committenti che a badare alle proprie necessità.
Il tempo di riparare le proprie scarpe veniva rinviato e usato per riparare quelle che giustamente apportavano una remunerazione in denaro.
Ovviamente il Detto poteva adattarsi a qualsiasi categoria di lavoratori (fabbri, muratori, barbieri, ecc,) persino ai Commercialisti, che rimandano all’ultimo giorno utile la compilazione della propria dichiarazione dei redditi.
Lüna cuchéte, marenére respegghjéte
Luna tramontata, marinaio sveglio
È un Detto marinaresco.
Il significato secondo Michele Conoscitore, figlio di pescatore, è questo:
Poiché le battute di pesca si svolgono nottetempo, il chiarore lunare consente ai pescatori di agire con una certa sicurezza.
Quando invece la luna si è cuchéte (coricata, tramontata) occorre maggior vigilanza da parte dei pescatori che quindi devono essere respegghjéte (svegli, attivi, con gli occhi aperti) per scongiurare pericoli derivanti dal buio.
Il lettore Umberto Capurso dice che «Quando la falce della luna è coricata … Il marinaio deve stare attento, possibilità che il tempo cambia facilmente.»
In ogni caso è assodato che in mancanza del chiarore lunare gli uomini in mare devono agire con maggior attenzione.
Come molti proverbi e Detti anche questo invita ad agire con cautela.
Ringrazio questi due miei amici per il loro contributo diretto.
Lattüche de mére
Lattüche de mére s.f. = Lattuga di mare

Trattasi di un’alga (Ulva lactuca) molto comune anche nel nostro mare. Era usata dai pescatori, quando non esistevano sistemi refrigeranti, per coprire le cassette dei pesci allo scopo di tenerli umidi e così prolungarne la freschezza.
Ho letto che nei Paesi nordici (Scozia, Danimarca, Irlanda, Scandinavia) e in Indonesia viene mangiata come l’insalata orticola.
(Foto Amilcare Renato)
Accüme me pajàbbe, acchessì te pettàbbe
Accüme me pajàbbe, acchessì te pettàbbe.
Alla lettera significa: come mi pagasti, così ti tinteggiai.
Con la cifra che hai stanziato non potevi pretendere una prestazione d’opera e l’impiego di materiali di prima scelta per la dipintura della casa. Si può intendere anche la realizzazione di un quadro o di un ritratto a pennello.
Volutamente si usa la declinazione dei verbi alla maniera di un dialetto della Terra di Bari o del Sub-appennino dauno (Faeto, Carlantino o giù di lì) per mostrare la schiettezza del detto, e un po’ per prendere in giro il committente spilorcio.
Infatti in manfredoniano si dovrebbere dire pajàste e pettàtte. o, meglio, al passato prossimo: cüme m’ha pajéte, acchess’ t’agghje appettéte. = come mi hai pagato, così ti ho dipinto.
Il Detto viene pronunciato quando si ripaga qualcuno “della stessa moneta”, nel senso di ricambiare il male ricevuto facendo a propria volta del male.
De tutte cöse àmma parlé, ma ‘a tabbaccöre nen l’àmma tucché.
De tutte cöse àmma parlé, ma ‘a tabbaccöre nen l’àmma tucché.
Di tutto dobbiamo parlare,
ma la “tabacchiera” non la dobbiamo toccare.
La lettrice Tonia Trimigno mi suggerisce una
lieve variante, per bocca di sua nonna, che non ne stravolge affatto il
significato:
Juchéme e pazziéme ma ‘a
tabbaccöre nen l’amma tucché =
Giochiamo e scherziamo, ma la “tabacchiera” non la dobbiamo toccare.
Ovviamente la tabacchiera (astuccio contenitore
di tabacco) qui ha un significato traslato, Come quando si cita
“l’uccello” e non si intende indicare il volatile, o “la
patata” o”la farfallina” e non è riferito né all’ortaggio, né
all’insetto.
Ringrazio l’amico Umberto Capurso che mi ha
fornito il Detto e la relativa spiegazione che riporto qui di seguito.
In tempi di ristrettezze economiche le nostre
nonne compravano tutto a credito. Alcuni bottegai, specialmente verso le
clienti carine e in arretrato con i pagamenti, avanzavano proposte indecenti in
cambio dell’immediato azzeramento del conto. Le donne oneste e rispettabili
rispondevano in questo modo, facendo chiaramente capire che di tutto si poteva
parlare, ma non si dovevano oltrepassare certi limiti a salvaguardia della propria
dignità di donna e di sposa.
Qualcuna spiritosa gli faceva la (clicca→) puppéte , ma questo è il risvolto comico della faccenda.
Cante, ca te fé Canòneche
Alla lettera si traduce con: Canta, ché ti fai Canonico.
Questo Detto ha due significati:
1) Parla tu, ma tanto io non ti ascolto.
2) A furia di cantare puoi diventare anche Canonico … ma a me non interessa.
Cominciamo a dire che il Canonico è un presbitero (cattolico, luterano, o anglicano) facente parte di un Gruppo ristretto, il “Capitolo”, creato dal Vescovo e scelto fra i sacerdoti che si sono distinti per particolari meriti nel loro ministero.
Spiegazione: il Detto cita il Canonico perché questi era la figura che colpiva l’immaginazione popolare, per il suo canto doloroso, implorante e monotono che si ascoltava durante le funzioni cui partecipava l’intero Capitolo Diocesano.
Nei funerali “di lusso” di una volta i parenti del defunto invitavano, dietro compenso, l’intero Capitolo a partecipare al funerale e al successivo accompagnamento della salma fino al Cimitero, dietro il cocchio a quattro cavalli bardati di nero. I Canonici durante il tragitto pregavano e salmodiavano, con canti mesti che si addicevano al lutto.
Ringrazio Umberto Capurso per avermi dato spunto per la stesura di questo articolo.