Autore: tonino

Cavezètte

Cavezètte s.f. = Calza

1) Indumento aderente che copre il piede e parte della gamba.

2) Stoppino dei lumi a petrolio. C’era ‘a cavezètta chjàtte = La calza piatta, e ‘a cavezètta tonne = la calza tubolare, cilindrica, dalla fiamma molto più luminosa, ma dai consumi di petrolio illuminante (ora si chiama kerosene) più veloci.

Cavezètte l’aneme ‘i mùrte = Calza dell’Anima dei defunti. Usanza locale. Invece che alla Befana, la calza piena di doni e dolcetti a Manfredonia ricorre il 2 novembre. Un po’ l’antesignana di Halloween e della formula “dolcetto o scherzetto?”

Cavezètte de bomméce = Calza fatta con i ferri da maglieria con filo di cotone ritorto. Le nostre nonne dedicavalo la vita intera a sferruzzare per confezionare calze per tutta la famiglia.

Cavezètte veléte = Calze velate, a velo, sottilissime.(chiamate anche cavezètte setéte=calze setate).
Indumento esclusivamente femminile. Prima dell’avvento delle fibre sintetiche poliammide (spec. il nylon), le calze velate erano pregiatissime perché erano solo di seta, con la cucitura sulla parte posteriore che, una volta indossate, rendeva sexy la parte visibile delle gambe delle donne, almeno agli occhi bramosi dei maschietti.

Veramente io, all’epoca in cui si usavano le calze di vera seta, ero piccino e non avevo ancora gli ormoni maturi e sviluppati. Perciò la cucitura sexy mi lasciava completamente indifferente…

Cavezètte a còllant = Invenzione moderna, il termine collànt è importato dalla Francia tale e quale tranne l’accento. Indumento femminile di tessuto sintetico, sottile e trasparente, formato da due calze tenute insieme da una mutandina dello stesso tessuto.

Teràrece a cavezètte (←clicca) = Atteggiamento di sussiego, di altezzosità.

Tó va fé ‘a cavezètte! = Va a fare la calza tu!

Ordine inderogabile dato dal marito alla moglie quando questa usciva dal suo consueto atteggiamento di sudditanza e diceva la sua, anche solo nell’ambito delle mura domestiche. Fuori delle mura domestiche era inconcepibile che la donna avesse e manifestasse le sue idee.

Roba da medioevo. Il mondo era solo maschilista. Almeno all’apparenza…

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Càvete

Càvete agg. = Caldo

Accettabile anche càvede.
Riferito a temperatura superiore alla norma o a quella che ci si aspetta.

(lat càldus, sincop. di càlidus).

Ricordo il grido dei venditori ambulanti di polenta fritta: “Scagghjùzze càvete uhé, scagghjiùzze càvete e grùsse!”. Passavano la mattina all’alba davanti alle ‘socie’ in tempo di carnevale festeggiato in casa, per rifocillare i ‘soci’, stremati per aver ballato per tutta la notte.

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Cavedjé

Cavedjé v.t. = Arroventare.

Riscaldare un pezzo di ferro nella forgia [‘a fucenètte] per permettere al fabbro, una volta afferratolo con la tenaglia a marre lunghe, di lavorarlo sull’incudine con il martello, per dargli la forma voluta.

Sin. Mètte a càvede [o a cavedjé]= Mettere (il ferro) a caldo, ad arroventare.

Cavedjé biànghe = Arroventare bianco, cioè al massimo possibile. Infatti appena tolto dai carboni il ferro assume un colore vivissimo tendente al bianco. Man mano che si raffredda il colore di affievolisce, assume una colorazione arancione, poi rossastra, poi color mattone. Quando la brillantezza scompare il ferro non è più malleabile perché indurito .

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Cavedére

Cavedére s.f. = Pentola.

Grossa pentola per cuocere la pasta ( ‘i maccarüne).

Il termine deriva dal latino calidarius = caldaia, pentola.

Una volta le facevano di rame. Per evitare avvelenamenti da ossido la parte interna veniva sempre coperta da un bagno di stagno fuso.
Passava un ambulante per le vie di Manfredonia, con la sua brava forgia portatile, e stagnava, le pentole di rame. A volte anche gli zingari girovaghi facevano questa operazione. Spesso passavano nello stagno fuso anche le posate di ferro perché non era ancora conosciuto l’acciaio inox.

Quando è proprio grande di chiama cavedaröne = marmitta, pentolone.

Se la massaia abbonda un po’ nel fare le porzioni della minestra si dice:
avàste! ne’mmettènne cchjó! Ha’ fatte ‘nu cavedaröne de pàste! Chi ca ce lu’ ha mangé? = Basta! Non metterne più! Hai fatto un calderone di pasta! Chi se la deve mangiare?

Per preparare il ragù si usa “ ‘a tièlle” o “a tjillózze

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Càvece

Càvece s.m. e s.f. = Calcio, Calce

1) Càvece s.m. = Calcio, pedata, colpo sferrato con un piede (al pallone o contro un avversario in lotta).

2) Càvece s.f. = Calce, prodotto per l’edilizia o anche la calcina, la malta per attaccare i tufi o pavimenti e rivestimenti.

La calce viene prodotta per cottura della pietra calcarea in apposite fornaci dette calechére (si ottiene la “calce viva in zolle”), la quale posta poi a contatto con l’acqua, sprigiona calore e comincia a ribollire.

Questo processo, che è molto pericoloso, si chiama “spegnimento” (o più correttamente “idratazione”) e viene realizzato in apposite vasche. La la calce così ottenuta mista all’acqua ha consistenza pastosa, e viene detta “grassello di calce” o più correttamente “calce idrata”.

La calce oggi è utilizzata è la calce idrata in polvere, un prodotto industriale venduto in sacchetti da 33 kg.. Esiste in commercio anche il grassello di calce in pasta, in sacchetti di plastica, prodotto ad Apricena.
La calce in grassello era usata per imbiancare le pareti (vedi:bianghjatöre)
Usata soprattutto per preparare intonaci e malte bastarde (mischiandola al cemento e alla sabbia o alla tufina) per murature e rinzaffi.

Ai tempi di Roma antica, si usava mischiarla alla pozzolana per legare i conci di tufo o di pietra. Vedi il Colosseo o i muri a “reticolato romano”, tuttora in piedi, dopo venti secoli.

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Cavamonde 

Cavamonde s.m. = Cavapietre

Operaio addetto all’estrazione di pietre da una cava.

Costui svolgeva un lavoro tra i più faticosi esistenti. Con un paletto d’acciaio (‘a pala-möne, il palo da mina) dal diamentro di circa 5 cm, a forza di braccia praticava un pozzetto nella roccia profondo almeno 50 cm.
Dentro questo foro disponeva una carica di tritolo (‘a möne = la mina) che faceva brillare con una miccia a comustione lenta, per frantumare la roccia in grossi pezzi. Ognuno di questi, con un grosso martello che si impugnava con entrambe le mani, veniva ulteriormente ridotto di pezzatura, secondo l’utilizzo che se ne doveva fare. Un lavoro massacrante.

Se non vi annoio, voglio proporvi una poesia del mio caro amico Lino Nenna, dedicata a suo padre che di professione faceva proprio il cavapietre.

Méne pussènde e callöse
japèrte cöme ‘a pètele de röse,
p’a facce stanghe e scarnüte:
‘u mestjire l’ò vìste abbelüte
P’ ‘a fatüje fatte škìtte dai vrazze
e pöche chjöche tenöve mbacce.
Jìnde ‘u sguarde ‘na dulcèzze,
ma l’ùcchje luccecande de stanghezze.
‘A söra tarde turnöve, ce accarezzöve,
revedènne ‘i vüse nustre,
jìnd’u cöre süve l’anzje
de vedìrece grùsse.
Jìsse camböve škìtte pe nüje
ma ‘u tìmbe nen l’ò accarezzéte méje.
Pe la mènde alla famigghje
e p’u cùrpe alla fatüje
ò cunzeméte acchessì ‘a vüta söve.
Tótte ce’ò déte pe tanda amöre
chisà se ‘u Segnöre ce l’ò pegghjéte a cöre.

Traduzione per i lettori non manfredoniani:

Mani possenti e callose/ aperte come petali di rosa/con la faccia stanca e scarnita/il mestiere lo ha reso avvilito/per il lavoro fatto solo di braccia/e poche rughe teneva sulla faccia./Dentro lo sguardo una dolcezza/ma gli occhi lucidi di stanchezza./A sera tardi tornava, ci accarezzava/rivedendo i nostri visi/ dentro il cuore suo l’ansia/di vederci cresciuti./Egli viveva solo per noi/ ma il tempo non lo ha accarezzato mai./Con la mente alla famiglia/ e con il corpo al lavoro/ha consumato così la vita sua.
Tutto ci ha dato con tanto amore/chissà se il Signore lo ha preso a cuore.

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Cavafanghe 

Cavafanghe s.m.= Draga, aspira fango

 

Attrezzatura della marineria per cavare dai fondali del bacino portuale gli accumuli di fango in modo da aumentarne il pescaggio, ossia la profondità. I fanghi portati in superficie, se non ricordo male, venivano deposti su uno zatterone e scaricati in alto mare.

L’etimo è chiaro: cavare, tirare fuori. estrarre + fango.

Siccome l’imbarcazione era sempre rumorosa, puzzolente e sporca, il termine è passato scherzosamente a designare qlcu non proprio di bell’aspetto, diciamo non un fighetto.

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Catréme

Catréme s.f. = Catrame

In italiano il termine è maschile e in dialetto è femminile. La differenza non è solo questa.

Per i non addetti ai lavori si fa grande confusione fra i termini catrame, bitume, asfalto.

In pratica sono materiali bituminosi di varia provenienza, generalmente impiegati nell’edilizia stradale.

Il catrame si ricava dalla distillazione del carbon fossile, il litantrace; il bitume dalla distillazione petrolio; l’asfalto si trova in natura come miscela di pietrisco e bitume.

‘A catrème copriva il MacAdam (manto stradale di pietrisco rullato) di Via Tribuna, ed era l’unica strada “asfaltata” che attraversava Manfredonia, detta vianöve = via nuova.

Il sole torrido di agosto rendeva la superficie stradale molto molle, e noi monelli staccavamo dei pezzi di “catrame” per farne palline. La leggenda metropolitana imponeva di gettare queste palline nel fuoco della cucina (fino all’avvento del gas in bombole, nel 1950, le nostre mamme cucinavano a legna o con il carbone vegetale) per ritrovarle trasformate in biglie d’acciaio!

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Catrechéle

Catrechéle agg. = Primario, principale

Che ha la maggiore importanza, il maggior valore.

Te ne vjine per tanta chjacchjere e te scurde ‘u catrechéle = Fai tante chiacchiere e ti dimentichi l’argomento principale.

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Catòbbe

Catòbbe s.f. = Bombetta

Cappello rigido da uomo, di forma tondeggiante con piccola tesa leggermente rialzata.

La bombetta è riconoscibilissima, perché usata dal grande Totò, da Charlie Chaplin, da Oliver Hardy e Stan Laurel nei loro innumerevoli film.

Era usata dai professionisti. Ricordo la figura del medico Don Camillo Grasso associata all’immancabile bombetta.

Il popolino adoperava la classica coppola con visiera o il pratico basco.

Qlcu confonde la catòbbe con il “celìndre“, chiamandoli allo stesso modo. Ora che sono rarissimi, nessuno ci fa caso.

Il cappello a cilindro era conosciuto dal popolino negli anni ’30 solo perché indossato nelle grandi occasioni dai conducenti di carrozze a servizio dei signori abbienti, o dai cocchieri dei carri funebri.

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