Zìcche

Zìcche agg. = Giusto, proprio.

Che è giusto nella misura, nella qualità e nella quantità richiesta, o prevista, o necessaria.

L’espressione zìcche-zìcche si indica la giustezza della misura. Una cosa fatta a misura, proprio giusta, senza eccedere.

Te vanne böne ‘sti scarpe? Si’, me vanne zicche-zicche! = Ti vanno bene queste scarpe? Sì, mi vanno giuste giuste.

La locuzione zicche tànne! significa = Proprio allora, giusto in quel momento.

Màmme menatte ‘u chjianjille, e me pegghjàtte zìcche ‘mbrònde = Mia madre mi lancio una ciabatta e mi colpì proprio in mezzo alla fronte.

L’amico Matteo Borgia – cui va il mio ringraziamento – mi suggerisce che: «l’etimologia di zícche è derivata da azzeccare, nel suo significato di colpire nel punto giusto ma anche di accostare, far combaciare in maniera precisa. Zícche zícche è un raddoppiamento rafforzativo.»

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Zia-züje

Va bene anche scritto Ziazüje o ziazïje perché omofoni).

Si individuavano con questo termine, un po’ dispregiativo, quei fedeli che passavano per Manfredonia diretti al Santuario di San Michele di Monte Sant’Angelo.

La consuetudine del pellegrinaggio risale al Medioevo.  Dopo l’anno 1000 erano quattro i luoghi sacri per eccellenza ove si riversavano i pellegrini:  Gerusalemme, Roma, Santiago di Compostela e Monte Sant’Angelo.

Si muovevano in quell’epoca principalmente a piedi. Nel Novecento invece giungevano con carretti trainati da cavalli e coperti da teloni.

Anche nel Tavoliere transitavano questi pellegrini. Ho letto sul vocabolario di Cerignola:  «Ziazije s.f. pl.  Donne che insieme ad altri pellegrini, a piedi e in fila indiana si recavano dai comuni del barese al Santuario dell’Incoronata, attraversando Cerignola.»

Anche a Bari usano questo termine per designare i pellegrini diretti alla Basilica di San Nicola.

Il mio amico Matteo Borgia asserisce:
«Un termine dall’etimo incerto, di origine onomatopeica. Secondo alcuni linguisti, deriverebbe da una litania (cantata dai pellegrini), il cui suono, giungendo da lontano, ricordava vagamente un ronzio.
Una fonte da me sentita anni fa, a Bari, mi diceva che erano così chiamati perché i pellegrini stranieri, provenienti dall’Oriente, quando venivano interpellati dalla gente locale, non conoscendo la lingua, rispondevano meccanicamente con una sorta di “Sia! Sia!”, forse forma contratta di “così sia!”.
Altri ancora attribuiscono il termine al fatto che i pellegrini erano così sporchi e poveri, che il popolino in maniera un po’ razzista diceva che gli ronzavano intorno gli insetti.»

Io li ricordo bene, con i loro cavalli adornati di piume di galletto colorate di giallo, violetto, blu e rosso. La tappa nella nostra città era obbligatoria prima dell’ultimo tratto per Monte.
Arrivavano a carovane, come i pionieri del Far West e pernottavano nelle taverne, ove trovavano rifugio uomini e cavalli.

‘I vì, stanne arrevanne i zja-züje = Eccoli, stanno arrivando i forestieri.

Fino agli inizi degli anni anni ’60 si muovevano ancora con i carretti. Poi sono arrivati i giovani con le biciclette da corsa, anch’esse con le piume colorate fissate alla forcella, al manubrio, allo zaino, al cappellino da ciclista.

Con l’espandersi dei mezzi di trasporto a motore non li abbiamo più visti, perché in un solo giorno riescono a venire anche dal Salento e a ritornarsene ai loro paesini di tutta la bassa Puglia.

I più tradizionalisti hanno continuato ad apporre le penne colorate anche sulle automobili, almeno fino agli anni ’60.

(foto reperita in rete)
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Zia-jó?…Bah!

Zia-jó?…Bah! – loc.id. = Cucù?…Séttete.

Un giochino con i bimbi della prima infanzia. Negli ulti anni si è spogliato della veste locale ed ha indossato i panni delle altre regioni trasformandosi in Cucù?…Bah!. In altre parti d’Italia dicono Bu-bù?…Sèttete!, oppure Cu-cù?…setté!.

Ci si pone di fronte al frugoletto, si nasconde il viso con le mani e si chiede Zia-jó?, come per dire, dove sono ansato a finire? Il bambolotto rimane sicuramente perplesso vedendo sparire il volto conosciuto dietro le mani. Dopo un attimo, si tolgono le mani e si mostra il volto sorridente esclamando un bel: Bah!. Il fanciullino trova divertente questo fatto di veder ricomparire la faccia conosciuta, e ride compiaciuto per la sorpresa.

Non credo Zia-jó abbia un significato preciso. Ritendo che l’effetto piacevole per il pupo sia causato dal contrasto fra il suono cupo della ó chiusa (Zia-jó?) legato al nascondimento della faccia, e la squillante vocale aperta à (Bah!) pronunciata al suo rassicurante riapparire.

Ringrazio la lettrice Pasquina Vairo che mi ha fornito questo magnifico spunto.

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Zerèlle

Zerèlle s.f. = testicoli.

Ciascuna delle due ghiandole genitali maschili contenute nello scroto e destinate alla produzione degli spermatozoi.

I vari dialetti usano sempre espressioni colorite, a cominciare da coglioni, ormai di uso comune, a cabbasisi, zerèlle, chegghiòune, cuion, balusun, ecc.,

Nei litigi dei ragazzotti si usava minacciare l’avversario prospettandogli la estirpazione non chirurgica dei testicoli: sciuppé ‘i zerèlle!

Quelli dei bambini e degli adolescenti, non maturi per l’attività sessuale, erano chiamati ‘i pallotte.

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Zequigne

Zequigne s.m. = uccellino implume

Si tratta di cardellino o altro uccellino da canto nato in cattività, implume, appena all’inizio della sua vita, che viene imbeccato dalla madre.

Accettabile anche la grafia zecuigne o zucuigne.
Quest’ultimo caso la pronuncia, per la nota regola fonetica della metatesi, risente del trasferimento fonetico della vocale ‘u’ dall’articolo qnche al sostantivo.

Faccio il solito esempio:
Tre zequigne e ‘u zuquigne.

Ringrazio il lettore Enzo Renato per il suo suggerimento.

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Zeppetèlle

Zeppetèlle s.f. = Semenza da calzolaio

Si tratta di chiodini a testa piatta usati dai ciabattini per riparare scarpe e pianelle di cuoio.
Ora non si usano più perché, in questa nostra epoca consumistica, quando si rompono, le scarpe vengono semplicemente buttate, o al massimo riparate con un po’ di collaprene, il Bostik.

Le zeppetèlle erano chiamate anche pundenèlle = puntine o anche – adeguandosi al termine tecnico italiano semenza – semenzèlle, perché così piccole da sembrare semini di una pianta.

Non so se sono ancora usate. Quelle che ricordo io avevano sezione quadrata e testa piatta, di varie misure, fino alla lunghezza massima di 15 mm.

Il ciabattino teneva le zeppetèlle in una scatoletta di latta o di cartone, sul suo deschetto, sempre a portata di mano.

Tutti quelli non addetti ai lavori li chiamavano ‘i chjuètte = chiodini, chiodetti, ma l’artigiano riparatore usava i termini “tecnici” di zeppetèllepundüne, pundenèlle o di sumenzèlle.

Anche perché altre categorie di artigiani (il fabbro, il lattoniere, il sellaio, ecc.) con chjuètte intendevano indicare i rivetti, i ribattini.

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Zènne

Zènne s.f. = Pezzetto; luogo appartato

Probabilmente deriva da “accenno”, nel senso di lieve segno, piccola indicazione, poca roba insomma.

Il Prof.Ciliberti ha fugato ogni dubbio: «”zénne” deriva dall’antico germanico “zinna” con significato di : parte, lato, luogo.»
Così è riportato pure in un dizionario dialettale di Cerignola.

1) Porzione di dimensioni piccole di una qualsiasi sostanza.

Damme ‘na zènne de péne = Dammi un pezzetto di pane.

Pegghjéme ‘na zènne d’arje! = Prendiano una boccata d’aria!

A Potenza dicono ‘na nzénghe, a Napoli ‘na sènghe, in Abruzzo ‘na nzègna. cioè un cenno, una linea.

2) Luogo tranquillo, isolato, angolo, a lato, a parte.

Chiuvöve forte, e pe’ nen bagnàreme me so’ mìsse a ‘na zènne e agghje aspettéte ca scamböve. = Pioveva forte e per non bagnarmi mi sono messo in un angolo e ho aspettato che cessasse.

Quanne passe ‘a preggessjöne,  mìttete de zènne = Quando passala processione, mettiti di lato.

Locuzione camené zènna-zènne  indica lambire, costeggiare, rasentare.

Per esempio rasentare una parete (clicca→ resa-rese) oppure percorrere uno spazio che costeggia una superficie, in contrapposizione alla locuzione ammjizze-ammjizze, ossia attraversarla nel bel mezzo.

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Zengöne

Zengöne s.m. sop. = Aculeo

Aculeo, pungiglione, tipico delle pale dei fichi d’india.

E’ anche un soprannome locale. Uno dei Zengöne ha una rinomata pescheria in via Tribuna.

Al plurale fa zengüne. Con questo termine si intendono anche i peli delle gambe maschili (rarissime volte anche delle gambe femminili, ma proprio raramente) irti, lunghi, orribili.

Madò, ‘mbacce ‘i jàmme tenghe i zengüne tànde! = Madonna, sulle gambe ho dei peli superflui esageratamente lunghi (quanto l’indice della mano sinistra, indicato dall’indice della mano destra, dall’unghia alla base della falange)

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Zellüse

Zellüse agg. = Cavilloso, puntiglioso

Al femminile fa zellöse.

E’ zellüse una persona che si comporta da guastafeste, che non trova mai nulla fatto bene, che le regola vengono rispettate solo da lui, che gli altri non sono mai corretti, che trova sempre il pelo nell’uovo, ecc…

Insomma un personaggio autenticamente pesante, insopportabile, antipatico.

Deriva indubbiamente dal verbo (clicca→) zellàrece = sporcarsi.  Forse perché si è cacato la mutanda e perciò puzza!

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Zegrüne

Zegrüne s.m. = Tela di petto.

Si tratta di un tessuto piuttosto grossolano, a trama larga, usato in sartoria per dare rigidità e sostegno al colletto, alle spalline e ai due “petti” della giacca o del cappotto.

Infatti ‘u zegrüne viene chiamata anche “töle de pjitte” = tela di petto.

Quando qualche giovanotto camminava tutto impettito, ritto come un militare, si diceva ironicamente che si era fatto “‘nu vestüte de zegrüne” = un vestito confezionato interamente con tela di petto, talmente rigido da impedirgli qls movimento.

È composta da fibre vegetali e da crini di cavallo (forse proprio da crine viene il nome zegrüne). Ricordate la canzone di Vianello “Non è un capello, ma un crine di cavallo uscito dal paltò”? Ecco, era un filo dell’ordito della tela di petto

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