Jì p’i stendüne ‘mbrazze

Jì p’i stendüne ‘mbrazze

Andare con gli intestini in braccio

Colorita espressione dialettale con due significati:

1) In segno di dura minaccia si usava dire: Te fazze arreteré p’i stendüne ìmbrazze! = Ti faccio rincasare con gli intestini in braccio! Cioè = Ti inferisco una coltellata e ti sventro, così devi trattenere con le braccia la fuoruscita dei tuoi budelli.

2) Segno di grande imbarazzo o di timore quando qualcuno ha l’ingrato compito di comunicare una brutta notizia o quando si deve indispensabilmente affrontare una situazione difficile.

Similmente si dice anche jì a fforze a fforze = andarci per forza, di malavoglia.

Cré matüne m’agghja fé i cataràtte, ma ce véche p’i stentüne ‘mbrazze = Domani mattina mi devo ricoverare per un intervento chirurgico alla cataratta, ma ci vado proprio malvolentieri.

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Jì frechéte Mèlfe!

Jì frechéte Mèlfe!

E’ spacciata Melfi!   Si usa citare questa frase quando tutte le speranze di ripresa cadono inesorabilmente.

Origine dl detto.

Nel 1528 la città Federiciana a causa della lotta fra Francesi e Spagnoli, per il predominio nel Regno di Napoli, fu cinta d’assedio dai Francesi. Resistette eroicamente a un primo assalto, e queste notizie confortavano Manfredonia, anch’essa sotto le mire di Odet de Foix, visconte di Lautrec. In un secondo assalto il 22 Marzo 1528, la vittoria arrise ai francesi. La popolazione fu massacrata (gli storici parlano di 3000 vittime). La città, saccheggiata e bruciata, fu abbandonata per molto tempo.

Giunse presto a Manfredonia la notizia della sua capitolazione : Jì frechéte Mèlfe! Mèlfe jì stéte abbattüte!!…Melfì è spacciata! Melfi è stata sconfitta!

Tutti si chiedevano se ora sarebbe toccata la stessa sorte anche a Manfredonia. La Storia dice che, dopo la presa di Melfi, si arresero ai Francesi anche Venosa, Canosa, Andria, Cerignola ed altre città. Solo Manfredonia rimase con gli Spagnoli perché aveva 1000 fanti a difesa della città.

L’episodio fu memorabile e tramandato oralmente per decenni.  Il detto è giunto fino ai nostri giorni, magari è citato senza conoscerne l’origine, che mi sono sforzato di interpretare sulle fonti storiche reperite in rete.

Curiosamente a Melfi ho sentito un Detto:
A campana de Manfredonia dice: “damme ca te dongo” = do ut des.

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Jì facènne: quante so’ quìste?

Jì facènne: quante so’ quìste?

Andar facendo: quanti sono questi?

Purtroppo è l’effetto della miseria conseguente alla dilapidazione colposa di capitale nel gioco, negli investimenti sbagliati, nella dolce vita dispendiosa con donne, champagne, ecc..

Alla fine ci si trova con una manciata di mosche.

E allora per fare i conti con la realta, quando tutti gli “amici” di merenda gli hanno voltato le spalle, il poveretto, passandosi rapidamente sulla punta del naso il pollice, l’indice e il medio va facendo: quanti sono questi? Cosa mi rimane?

Non riesce più a contare nemmeno fino a tre perché è irrimediabilmente fuori di testa.

Ovviamente è un modo di dire per biasimare qualcuno che ha scialacquato tutti i suoi averi.

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Jì córte e nen arrüve, jì lunghe e trapàsse

Jì córte e nen arrüve, jì lunghe e trapàsse

È corto e non ci arriva, è lungo e oltrepassa.

Originariamente voleva essere il rammarico di chi non ha gli attrezzi adatti a compiere un certo lavoro.

Poi il Detto assunse un significato canzonatorio rivolto verso qlcu che non è mai soddisfatto del tuo comportamento.
Questo no, quest’altro no. Ma insomma!

Cantava Antoine negli anni ’60: “Se lavori e ti tirano le pietre, non fai niente e ti tirano le pietre, qualunque cosa fai, tu sempre pietre in faccia prenderai”

Mio padre riferiva un’ipotetica conta (‘u tùcche): vòtte düje e vìnge tó, vòtte trè e vìnge sèmbe tó! = Butto due e vinci tu, tiro tre e vinci sempre tu….

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Jì bèlle e nen abbàlle

Jì bèlle e nen abbàlle

È bello e non balla.

Io credo che questo modo di dire sia stato coniato per l’assonanza di belle e abballe.

Si tratta di una risposta vaga che denota disinteresse alla proposta di qlcu per un acquisto, un affare, un viaggio, un evento, un matrimonio combinato come si usava una volta, ecc.

Insomma il detto, un po’ sprezzantemente, vuole significare: quello che vedo è tutto fumo e niente arrosto.

Talora è il giudizio sintetico e lapidario su un uomo o una donna molto appariscenti…ma vacànde di cervello.

 La vüte a quant’jì bèlle Rusüne?
– Sì, jì bèlle e nen abbàlle!
 = La vedi quanto è bella Rosina? Sì e bella e non balla (ossia: sarà pure bella ma…)

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Fé ‘ndröte ‘ndröte accüme ‘i funére

Fé ‘ndröte ‘ndröte accüme ‘i funére loc.id. = Regredire

Procedere all’indietro, come fanno i cordai = indietreggiare anziché avanzare.

È un modo di dire locale per indicare o constatare che le cose non vanno bene.

Ossia invece di progredire, com’è aspirazione di tutti (salute, benessere economico, ecc.), si va all’indietro, proprio come fa il fabbricante di funi nell’espletamento del suo lavoro.

Au poste di jì ‘nanze, faciüme ‘ndröte ‘ndröte accüme ‘i funére = Invece di fare progresso, andiamo all’indietro, come fanno i funére = cordai.

In italiano si dice “fare come i gamberi”, andare all’indietro, quindi peggiorare, regredire in generale.

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Jì a pegghjé ‘i putténe a cavalle

Jì a pegghjé ‘i putténe a cavalle

Andare a prendere le “lucciole” a cavallo.

Talora veniva usato il verbo “angappé” = acchiappare, catturare.

Può sembrare il programma del Maresciallo dei Carabinieri in procinto di andare con i suoi uomini a fare una retata nei bassifondi.
Mi riferisco all’epoca in cui non c’erano le automobili a disposizione delle forze dell’ordine, e i loro spostamenti avvenivano con i cavalli.

Oppure dei tenutari dei bordelli che andavo a prendere le ‘nuove’ signore da avvicendare quindicinalmente nella loro lucrosa attività: ovviamente non con i mezzi pubblici, ma con i cavalli e la carrozza chiusa (landeau).

Più semplicemente fino agli anni ’60 il detto rappresentava una risposta evasiva a chi avrebbe voluto addentrarsi troppo nella propria privacy.

Addjì ca ve? Véche a pegghjé ‘i putténe a cavalle = Dove vai? Questi non sono fatti che ti riguardano.

Una specie di: quìste nen so’ cazze tüje!

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Jéme alla Pógghje…

Jéme alla Pógghje…

Una volta le donne anziane per racimolare qualcosa da mettere sotto i denti, dopo l’avvenuta mietitura si avventuravano per i campi a spigolare.

Durante la guerra – allorquando si sentiva maggiormente la necessità di procurarsi cibo – si è verificato qualche episodio di incursione aerea nemica su queste poverette, scambiate per truppe sparse.

Un anonimo poeta nostrano, sulle note della canzone di (clicca→) Lilì Marlène,  di autore tedesco scritta nel 1915, molto in voga all’epoca del conflitto e addirittura cantata dai soldati di TUTTI gli eserciti in guerra, compose questi versi che denotano insofferenza verso il testone Mussolini

Jéme alla Pógghje e jeme a spuchelé
passe l’apparècchje e ce mètte a metraglié!|
Tutte lu gréne ca nüje facjüme
ce lu mangéme a maccarüne
Alla facce de Muselüne
alla facce du capacchjöne

Il nostro poeta ha rispettato rigorosamente la metrica e la cadenza musicale.

Traduzione:
Andiamo alla Puglia piana, andiamo a spigolare: /passa un aereo e comincia a mitragliare!/Ma tutto il grano che noi riusciremo a raccogliere/ ce lo mangeremo trasformato in maccheroni,/alla faccia di Mussolini, alla faccia di quel testone.

Era un po’ un canto di resistenza, stile “Bella ciao”, dopo il ventennio fascista, quando la gente era al colmo della disperazione e degli stenti imposti dalla guerra.

Tutto ciò è venuto da una popolazione tribolata e affamata dalla guerra. E scusate se è poco.

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Je diche “zà!” e códde còrre alla vesàzze!

Je diche “zà!” e códde còrre alla vesàzze!

Io dico: “pussa via!” e quello (il cane) corre alla bisaccia.

Quando si dice: “pussa via!” il cane dovrebbe fuggire via, e invece quello corre verso la bisaccia a cercare cibo.

Io dico una cosa e tu capisci un’altra!

Ciascuno interpreta a modo suo, secondo il proprio tornaconto, in barba alla logica e all’evidenza.

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Jàveze ‘u cüle e sìrve ‘u patrüne.

Jàveze ‘u cüle e sìrve ‘u patrüne.

Alza il culo e servi il (tuo) padrone.

Esiste una variante:
Jàvezete cüle e sìrvete patrüne = Alzati, culo, e servi il tuo padrone.

È un’espressione amichevole. Non è pensabile che possa essere rivolta al proprio capo….

Se non si ha voglia di eseguire gli ordini impartiti perentoriamente [ad esempio da un commensale maleducato, che dice: “prendi questo, portami quello, chiudi là, apri qui, passami il sale, ecc.”] e senza aver aggiunto “per favore”, gli si risponde con questo detto antico.

Un italiano, per sollecitare un’azione, un lavoro ecc. scherzosamente si dice: alziamo le chiappe nel senso di “muoviamoci e diamoci da fare”.

Il significato è identico.

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