Tag: sostantivo maschile

Parauande

Parauànde s.m. =Paraguanto, mancia

Denaro che si dà senza obbligo, oltre il pagamento di quanto dovuto, a chi ha reso un servizio.

Molto atteso dai ragazzi di bottega quando andavano a consegnare a domicilio l’oggetto confezionato o riparato in un qualsiasi laboratorio artigiano.

Ad esempio una giacca, un ricamo, un tavolino, una serie di vomeri o di picconi cui è stata rifatta la punta, una cornice, ecc.).

Sorprendentemente ho scoperto in rete che il termine era usato in lingua italiana già dal 1676!
Infatti quell’anno venne pubblicato un poema eroicomico scritto da Lorenzo Lippi, «Il Malmantile racquistato». In esso sono riportati i versi:
“Per buscar mance e paraguanti
Andaron molti a darne al re gli avvisi »(da Wikipedia)

Sul Vocabolario dei Sinonimi del 1886 è riportato:
«Paraguanto, Mancia, Beveraggio, Bonamano
-Paraguanto è ricompensa signorile data per nobili servigi a persone civili, quasi dica Per comperarsi i guanti, dallo spagnuolo para guantos (per i guanti).
-La Mancia si dà a persone di bassa condizione, per piccoli servigi.
-Il Beveraggio si dà a’ facchini e a’ vetturini, perché possano bevere: quella dei vetturini si dice anche Bonamano, e suol darsi per viaggi corti e per semplici accompagnature.»

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Stuppüne

Stuppüne s.m. = Stoppino, lucignolo

Il sostantivo stuppüne, simile all’italiano stoppino, designa un fascio di fibra di cotone ritorto usato come anima nelle candele che per capillarità porta la cera (ora sostituita dalla paraffina solida) ad alimentare la fiammella illuminante.
La stessa cosa avviene per le fibre di cotone, in un intreccio più voluminoso, nelle lucerne a olio e spesso chiamate col sinonimo di lucìgne =lucignolo.
il termine stuppüne era usato genericamente anche per i lumi a petrolio (grezzi per carrettieri, e più presentabili per uso domestico): tuttavia questo stoppino specificatamente era dettoa cavezètte s.f.= calza, calzetta.
Esistevano due tipi di calzetta: quella piatta (cavezètta chiatte) a fettuccia, larga circa cm 2,5 e quella tubolare (cavezètta tonne) che in lumi con bocchetta differente, sviluppava una fiammella più luminosa ma che conseguentemente comportava un maggior consumo di carburante.

In senso ironico ” fé ‘u stuppüne ” significa fare una fregatura, un bidone, raggirare, imbrogliare qualcuno.
Presumo che lo stoppino bruciato non ha alcun valore apprezzabile, come il bidone senza contenuto.

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Frìške

Frìške s.m.= Fischio o fresco

Il sostantivo frìške ha due significati.

Frìške 1 = Fischio, sibilo emesso con la bocca atteggiando lingua-labbra in posizioni variabili. Deriva dal verbo fischiare o fischiettare. Il primo verbo indica un richiamo o una rumorosa disapprovazione teatrale o sportiva; il secondo la modulazione del fischio a diverse altezze, la cui sequenza riproduce melodie musicali.

Friške 2 = Fresco, inteso sia come temperatura avvertita (fé frìške stamatüne = fa fresco stamattina), sia come riparo dal sole (sté au frìške = stare all’ombra o in casa, o anche, in senso lato, in prigione).
Il sostantivo dà origine al verbo friškjé, ossia restare ostentatamente all’aperto nonostante la temperatura rigida. In italiano il verbo corrispondente non inesiste.
Arbitrariamente, tanto per ridere, azzarderei “frescheggiare”.
Mattöje che sté friškjanne allà före? Trése jìnd’a caste! = Matteo, costa stai a prender freddo là fuori? Entra in casa tua!

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Pecuzze

Pecuzze s.m. = Questuante, cercatore.

Era generalmente un frate laico che girava per masserie in cerca di cibarie per la sua comunità.
Si spostava con un carretto trainato da un mulo.   La foto (tratta dal web) ritrae uno frate addirittura motorizzato, evidentemente di epoca relativamente più “moderna” rispetto ai miei ricordi.

Raccontava ai coltivatori storie garbate e/o divertenti, e riceveva in cambio frumento, vino, olio, mandorle, orzo, arance, limoni, cotogne, ecc., che accumulava in vari sacchi, in damigiane o in cassette che portava con sé.

Era conosciuto da tutti ed accolto con simpatia. Spesso era invitato a sedersi a tavola per pranzare assieme  fattore e alla sua famiglia.

A sera ‘u pecuzze ritornava al convento, scaricava le vettovaglie e l’indomani ripartiva per un altro giro nelle campagne della Capitanata. Difatti il termine era conosciuto in tutta la Daunia.

Ecco la definizione e l’etimo riportato nel prezioso “Dizionario Dialettale Cerignolano” del dott.Luciano Antonellis:
«pecuzze2 s.m. (sp. bigoz, fr. bigot) Frate laico»

Il termine pecùzze finì per designare una persona rozza nell’abbigliamento e magari anche nei modi.

Come sinonimo si usavano le perifrasi mòneche cercatöre = monaco cercatore o ca vé facènne la cèrche = che va facendo la cerca, la questua.

Ora sia la figura del frate questuante, sia il termine stesso sono scomparsi dalla vita e dal linguaggio comune.
L’ho voluto ricordare perché era parte della nostra vita, ammirando soprattutto la solidarietà viva che esisteva in quei tempi difficili.
Ringrazio i lettori che mi hanno spiegato che il termine pecuzze è usato anche come soprannome col quale è conosciuta la famiglia Bottalico.

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Sfarrizze

Sfarrìzze, o sferrìzze. s.m. = Ferraccio

Un termine desueto, che indica qualsiasi oggetto metallico di cattiva qualità o deteriorato, non in buono stato di conservazione.

Facciamo l’esempio di un’auto vecchia, scassata…. jì ‘nu sfarrìzze.

Un vecchio frigo, una lavatrice dal rigattiere so’ sfarrìzze = sono ferraglia inutile.

Chiaramente l’etimo è “ferro”.
Ricordo, sempre derivato da “ferro”, anche il sinonimo sferràcchje.
‘Nu sferracchje stagghjéte = uno coltellaccio col taglio rovinato.

P.S.
Un qualsiasi oggetto tagliente (rasoio, cesoia, coltello, tronchese, scalpello) che per l’uso presenta il filo del taglio logorato, in italiano NON ha (secondo me) un aggettivo appropriato come il nostro stagghjéte = che ha perduto il taglio.

A volte il dialetto è più ricco della lingua italiana, che usa “spuntato”, riferito ad arnesi da punta (punteruolo, spiedo, lapis, pala-mina, piccone), non da taglio (ascia, scalpello, cuneo per legno).
Attendo l’intervento di qualche linguista titolato, che mi permetta di arricchire il mio lessico carente.

Ringrazio l’amico Matteo Borgia II per avermi dato lo spunto per stilare il presente articolo.

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Criócce

Criócce s.m. = Nidiata di fanciulli

Ho spiegato meglio nell’altro articolo, quando ho illustrato il termine criatüre.
Vi rimando su quello, pregandovi di cliccare qui

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Rumbamjinte

Rumbamjinte s.m. = rottura, seccatura, fastidio, disturbo.

In italiano esistono alcune locuzioni per questa situazione:
c’è quella pulita: “rottura di scatole”;
poi c’è quella più colorita “rottura di balle”;
infine quella triviale “rottura o rompimento di palle” (scusate).

Il dialetto usa “rottura” nella forma letteraria/arcaica di “rompimento”.
Il nostro sostantivo rumbamjinte (che rumbamjinte! ‘nu rumbamjinte!) da solo – per merito della nota capacità di sintesi del nostro dialetto – riesce ad esprimere anche quello che non si enuncia.
Non c’è bisogno di specificare compiutamente, anche se sottaciuto, che cosa va in rottura.
È ovvio, sottinteso, fatale.

Storiella finale.
Un impiegato imbranato, si rivolgeva attraverso il telefono con molta frequenza quotidianamente ad un suo collega per chiedere chiarimenti, ritocchi, consigli, procedure, ecc.
Questo collega, durante uno dei tanti martellamenti, lo blocca, e gli dice:
-«Aspetta! Hai un foglio? Prendi appunti!…. Scrivi in stampatello: “LA PITTURA”»
-«OK, l’ho scritto: e adesso?»
– «Adesso leggilo da destra verso sinistra!»

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Segghjózze

Segghjózze s.m. = singhiozzo, singulto

Va bene anche la pronuncia sugghjózze se preceduto dall’articolo determinativo singolare (‘u sugghjózze).

Il singhiozzo è la contrazione ripetuta e involontaria del diaframma. Il termine deriva dal latino “singultus”.

Ecco i rimedi della nonna (niente farmaci!) che erano semplici e funzionavano egregiamente:
1 – trattenere il fiato più a lungo possibile;
2 – provocare uno spavento nel paziente con un rumore improvviso o con un grido inaspettato;
3 – somministrare alcune gocce di limone direttamente sulla lingua;
4 – bere sette piccoli sorsi d’acqua consecutivi, senza intervalli, in apnea.

Quando non è di natura patologica il singhiozzo è provocato dallo stomaco troppo pieno che preme sul diaframma.

È l’evidente sintomo di sazietà.
Ecco un Detto recitato dalla mammina premurosa dopo un singhiozzo del suo poppante:
Sàzzje jì ‘u purcellózze, c’jì anghjüte ‘u vudeddózze = Sazio è il porcellino, si è riempito il budellino.

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Bècche-cecògne

Bècche-cecògne s.m. = pinzette a becco di cicogna

Si tratta di un accessorio per l’acconciatura dei capelli femminili, introdotto sul mercato a metà del secolo scorso in sostituzione delle forcine o dei ferrettini.
Sono di estrema praticità, in quanto si applicano numerosi sulle ciocche  o sui bigodini con movimento a pinza.
Generalmente sono di alluminio o di plastica colorata, quindi non attaccati da ruggine. Esistono anche quelli di acciaio inox e a doppia punta per uso professionale.

Ovviamente i bècche-cecogne vengono usate solo in ambiente domestico per fissare le ciocche dopo lo shampoo in modo che, con una spruzzatina di lacca assumano la forma voluta.

Quando le donzelle escono di casa se le cavano scupolosamente.
Guai a lasciarne solo una! È un grave segno di sciatteria (nziamé!)

Ringrazio l’amico Matteo Borgia per l’imbeccata.

 

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Capìcchje

Capìcchje s.m. = Capezzolo

È la protuberanza della mammella, da dove esce il latte, fatta alla maniera di piccolo capo.

Ovviamente la dimensione cambia dai mammiferi della specie umana o da quella animale (ovini, bovini, cetacei, suini ecc.).

Il termine è ormai desueto, perché le generazioni attuali, avendo frequentato le scuole dell’obbligo, usano un termine simil-italiano capèzzele

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