Tag: sostantivo maschile

Scelebbréte

Scelebbréte agg. e s.m. =Squilibrato

Lo squilibrio in questo caso è esclusivamente mentale. Definisce un soggetto psichicamente compromesso.

Il soggetto che dà segni di squilibrio mentale dai ragazzi di oggi viene sommariamente definito con un eufemismo, ossia “esaurito”.
Non sono medico ma presumo che alcune cause (lutti, debiti, divorzi, trasferimenti, disoccupazione…) possono  essere scatenanti in una persona  caratterialmente fragile.

Credo che l’origine del termine sia “cervello” inteso come cerebro, con il prefisso “s” privativo negativo: s-cerebro = senza cervello, decerebrato, quindi senza intelletto.

Ammesso che si possa dire, in italiano suonerebbe “scerebrato”.

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Scélajùle

Scélajùle s.m. = Conduttore di arenili.

Una volta era una persona di modeste risorse economiche, perché i terreni sabbiosi (‘i scéle) di cui era fittavolo davano una bassa resa produttiva, e per giunta erano malsani e paludosi.

Il termine era un sinonimo di persona misera, che viveva di stenti.

L’evoluzione tecnologica in agricoltura ha reso fertili anche gli “sciali”, e fortunatamente il termine ha perduto l’accezione negativa degli anni ’30.

Qlcu con tendenza più moderna pronuncia scialajùle ma solo per specificare la natura dell’arenile cui si dedica questo coltivatore.

Per estensione, era chiamato scélajùle o scialajùle chiunque traeva sostentamento dagli Sciali, come quelli che raccoglievano giunchi per farne canestri o impagliature di sedie, o infiorescenze di canne per farne scope, o quelli che con barchette dal fondo piatto vi pescavano anguille o quant’altro.

 

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Scazzìlle

Scazzille s.m. = Cispa

Secreto della congiuntiva che si raggruma sul bordo e agli angoli delle palpebre, spec. durante il sonno o negli stati patologici dell’occhio.

Quanto qlcu è affetto da questa patologia (congiuntivite) si dice in dialetto che ha l’ucchje pescéte = gli occhi… pisciati!

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Scazzamurjille

Scazzamurjille s.m. = Gnomo, folletto

È nella credenza popolare un dispettoso spiritello domestico.

Si dice che costui di notte si pone sullo stomaco del dormiente e lo opprime, divertendosi delle sue sofferenze.

Se il malcapitato riesce a rubargli il copricapo rosso, il folletto piange e ne implora la restituzione. In cambio è disposto a dare un bel po’ di monete d’oro.  Quelli che fortunatamente ci sono riusciti…sono rimasti ovviamente anonimi.

Questo quadro di Johann Heinrich Füssli ( Fuseli – 1781, Detroit Institute of Arts. fonte Wikipedia) intitolato “L’incubo” rappresenta  proprio un pesante gnomo seduto sullo stomaco della fanciulla .

Io credo  che il peso sullo stomaco era causato dal piattone di erbe campestri cucinate con abbondante aglio soffritto.

In Abruzzo è chiamato Mazzamurièlle.  In Basilicata lo chiamano lu munacìdde, il fraticello, il monachino e tutti hanno gli stessi atteggiamenti di quello pugliese.

Riporto qui un brano della famosa giornalista Matilde Serao (Leggende napoletane 1881, Ed. Sarago).: «Chiedete ad un vecchio, ad una fanciulla, ad una madre, ad un uomo, ad un bambino se veramente questo munaciello esiste e scorrazza per le case. Vi faranno un brutto volto, come lo farebbero a chi offende la fede. E ti va bene che non finisci sgarrupato».  A Napoli lo chiamano “munaciello”, che sarebbe “il monaco con l’uccello” perché un poco “rattuso” e guardone di belle fanciulle e di amanti in amplesso»

Ecco i vari nomi regionali (fonte Wikipedia) (clicca→qui) affibbiati al nostro simpaticone:

  • Carcaluru
  • Laurieddhu
  • Laùru
  • Mazzamauriello
  • Mazzemarille
  • Monacello
  • Moniceddhru
  • Munaciedd
  • Mnacidd
  • Munachicchio
  • Scarcagnulu
  • Scattamurreddhru
  • Scanzamurieddhru
  • Scazzamauriegghiə
  • Scazzamauriegghij
  • Scazzamauriello
  • Scazzamurrill
  • Scazzambrridd
  • Scazzamureggi
  • Sciacuddhri
  • Sciacuddhruzzi
  • Tiaulicchiu
  • Uru
  • Urulu

Una filastrocca materana tradotta in lingua, dice:

«Monacello monacello
Fatti prendere il cappellino rosso
Che mi porterà tanta fortuna
Porterai via la mia sventura
Dal petto togli l’affanno
Dalla testa, il dolore grande.»
Potrebbe essere un'illustrazione raffigurante il seguente testo "U Mnacidd Mnacidd, mnacidd fott pigghié u cppln riss ca ma prté tanta frtn, ta prté la sfrtina maj, l'affonn, dalla kep u dlor gronn."
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Scavezachéne

Scavezachéne s.m. = Scalzacani, miserabile, poveraccio.

Può significare anche “persona poco valida dal punto di vista professionale”.

Penso subito a suonatori principianti senza talento e a quelli che sanno decantare la loro abilità solo a parole. Millantatori.

Il termine scalzacane, o anche al plurale scalzacani, dispregiativo allo stato puro, fu introdotto nella lingua italiana addirittura da Pietro l’Aretino (1492-1556). Secondo un’ ipotesi del dizionario etimologico Cortelazzo-Zolli, «scalzare» significa anche «scalciare, tirar calci», quindi «scalzacane» sarebbe colui che tira calci ai cani e che sa fare solo quello.

Lo troviamo in tutti i dialetti d’Italia, ognuno con la sua pronuncia tipica.

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Scavetatjille

Scavetatjille s.m. = Scaldatello

È corretta anche la versione scavedatjille.

Biscotto salato al finocchietto, tipico della Puglia e della Basilicata.

In quest’ultima Regione, a Potenza,  sono conosciuti come “òssere de muórte” = ossa di morti, perché al tatto e al colore sembrano ossa… umane.
Per ottenerli croccanti bisogna impastare la farina con acqua, olio di oliva, semi di finocchio e sale.
Se ne ricava un cannello lungo che viene tagliato a circa 18 cm.
Ognuno di questi segmenti viene acciambellato.
Quando tutti le ciambelle sono confezionate vengono prima sbollentate, poi scolate e messe ad asciugare su un canovaccio.
Dopo di che vengono disposte in una teglia larga (detta ‘a ramöre = la lamiera) per la successiva cottura in forno.
Il nome dei biscotti, usato generalmente al plurale (i scavedatjille = gli scaldatelli), deriva dal fatto che sono stati scavedéte = bolliti.Ottimi quelli del tarallificio “Nella” Scusate la pubblicità, ma sono proprio uguali a quelli che faceva mamma mia jìndrechése.

Nel resto della Puglia, oltre a quelli classici ai semi di finocchio, si producono anche  quelli al pepe, al peperoncino, alla salvia, al timo o alla maggiorana, e di formato mignon, a nodini o treccine.
Insomma la fantasia non manca ed il loro successo è indiscusso.

(foto tratta dal sito: www.destinazionegargano.it/)

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Scarpiöne

Scarpiöne s.m. = Geco

Il geco (Tarentola mauritanica) è un piccolo rettile simile a una lucertola, appartenente alla fam. dei Geconidi di color grigiastro o bruno, innocuo e insettivoro.

Ha abitudini notturne. Ha caratteristiche dita a spatola munite di lamelle adesive che gli permettono di arrampicarsi sulle pareti e muoversi velocemente.

Tipico delle zone temperate mediterranee. Era erroneamente ritenuto velenoso per il suo aspetto orripilante, molto diverso dalle fattezze aggraziate e guizzanti della mamàngele =  lucertola.
Difatti di qlcu che non aveva una sembianza aggraziata, si diceva: Jì ‘nu scarpiöne = È brutto come un geco dei muri.

In Campania è detta lacerta ‘mbracedata (lucertola guastata, corrosa).

Il geco comune si trova nelle abitazioni situate in ambienti caldi e umidi. Visto che è un rettile innocuo, è bene non allontanarlo poiché si nutre di insetti fastidiosi per l’uomo come falene, mosche, moscerini e zanzare.

Nulla a che vedere con lo scorpione velenoso cui assomiglia solo nel nome.

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Scaramöne-a-pallotte

Scaramöne-a-pallotte s.m. = Scarabeo stercorario

Insetto del genere Geotrupe (Geotrupes stercorarius) dal corpo tozzo caratterizzato da rivestimento coriaceo di colore scuro e lucido. La testa, enorme, sembra quasi staccata dall’addome, come la motrice di un TIR dal suo rimorchio.

E’ copròfago (= che mangia gli escrementi di bovini ed equini, puah!). Il suo habitat naturale si estende sulla fascia delle dune sabbiose.

La bestiolina è attiva nelle ore più calde della giornata. Grazie all’odorato va alla ricerca di sterco, che raccoglie formando una pallina che poi fa rotolare con le zampe posteriori fino all’imboccatura della tana.

La “polpetta” viene consumata subito ma, all’epoca giusta, funge anche da incubatrice per le uova, in modo che alla loro schiusa, le larve trovino alimento pronto e possono penetrarla fino al loro sviluppo completo.

Ho fatto una profonda ricerca e mi sono fatto una bella cultura di merda!

Quando vediamo qualcuno indaffarato a svolgere un’attività che richiede grandi sforzi muscolari, lo si paragona a nu scaramöne attórne alla pallòtte.

Il lettore Enzo Renato mi suggerisce che questo animaletto era popolarmente conosciuto anche con il simpatico nome di Papà-Giuànne = Papà-Giovanni.

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Scaramöne

Scaramöne s.m. = Scarafaggio, blatta

Lo scarafaggio (Blatta orientalis) è un insetto della fam. Blattoidea tra i più comuni e fastidiosi, capaci di nutrirsi di ogni tipo di alimento ed in caso anche di una grande varietà di materiali organici.

Vivono generalmente nelle case più vecchie e fatiscenti.

Sono attivi principalmente durante la notte, mentre di giorno si riparano nelle crepe dei muri, intercapedini soprattutto in cucine, bagni, perché prediligono i luoghi umidi.

Al plurale fa scaramüne. Il nome deriva dal greco skarabos.

L’unico modo per combatterli una volta era quello di rincorrerli e schiacciarli con la suola della scarpa… (ózze!). Con l’avvento delle truppe alleate alla fine della guerra, si sono diffuse nella città delle bombolette spray di insetticidi al DDT, e una puzzolentissima polvere (‘a pòlve ‘i scaramüne) che si spargeva sul pavimento, agli spigoli con le pareti.
Ora si adopera, nei rari casi si infestazione domestica di formiche e scarafaggi, l’efficientissima Baygon, polvere e spray (scusare la réclame).

Mi viene in mente il notissimo proverbio napoletano: Ogne scarrafone è bella a mamma soja = ogni scarafaggio (per quanto ripugnante) è bello a(gli occhi di) mamma sua

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Scannàgge

Scannàgge s.m. = Mattatoio

Il locale Mattatoio Comunale era chiamato in dialetto scannàgge, sostantivo derivato dal verbo scanné = sgozzare.

Un po’ inquietante questo verbo, perché comprendeva un’azione cruenta, eseguita manualmente con l’impiego di coltellacci.

Quindi scannagge significava inizialmente l’atto della macellazione, e poi il sito dove essa avveniva.

La costruzione fu usata come carcere per prigionieri politici e attualmente per alcune attività comunali o filantropiche (Avis, Deposito mezzi della nettezza urbana, raccolta rifiuti ingombranti, ecc.).

Per burlarci di qualcuno dichiaravamo che il Mattatoio aveva bisogno di operai con dei secchi per andare a “jetté ‘u sanghe” = buttare il sangue. Questa perifrasi significa semplicemente “morire”… Ma il poveretto lo capiva a scoppio ritardato, dopo la nostra risata, che si trattava di uno scherzo innocente.

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