Mese: Maggio 2018

Nannùrche

Nannurche s.m. = Orco.

Nannùrche era lo spauracchio che le nostre mamme ci paventavano per indurci a stare buoni.

Ce lo descrivevano come un cannibale che mangiava i bambini e che era dotato anche di una voce bestiale.

Se qualcuno alzava la voce un po’ troppo, veniva invitato a calmarsi con: “Statte calme, ch’assemìgghje a Nannurche!” = Calmati, che sembri un orco.

Per rendere l’invito più perentorio, si aggiungeva la dimora dell’orco perché faceva assonanza: Nannurche abbàsce a l’ùrte = l’Orco giu nell’orto.

Meno male che noi non siamo venuti su complessati, dopo tutte queste cose orribili ci hanno raccontato le mamme e le nonne! Roba da film horror

Ma noi monelli facevamo credere di temere l’orco, e sotto sotto ce la ridevamo…

Non so se esisteva al femminile Nannòrche… Un’orchessa ci avrebbe fatto ridere al solo nominarla!

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Nanarjille

Nanarjille s.m. = Strùffolo

 

Prodotti dolciari tipici del sud-Italia

Si tratta di tocchetti di pasta dolce ricavati da un cannello di farina zucchero e burro.

Una volta fritti,vengono ricoperti di miele o vünecùtte = vino-cotto, ossia mosto di uva o di carrube bollito e addensato.

In Campania si chiamano “struffoli”, nel Salento in Sicilia e in Calabria “porcedduzzi”. Ho letto anche il termine “cicerchiata” usato in Italia Centrale (Marche, Umbria, Abruzzo e forse Toscana).

Durano anche un mese, ma… solo se sono conservati sotto chiave!

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Nammechéte

Nammechéte agg. e s.m. = Empio

Ammesso anche ‘nnammechéte e ‘namechéte.

Chi o che non rispetta le cose sacre, sacrilego.
Per estensione: irriverente verso istituzioni e tradizioni consolidate.

Credo che alla lettera significhi: “che è inimicato” (con Dio o con il Codice penale), parola dotta sfuggita a un prete sul comportamento scellerato di qlc farabutto.

Ne lu dànne avedènze a códdu nammechéte! = Non gli dare retta a quell’infame.

‘U nammechéte (Crìste-ce-vènghe) per antonomasia  a Monte, senza nominarlo, era considerato quello che sta sotto i piedi di San Michele!

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Naltaràrece

Naltaràrece v.i. = Agitarsi, incollerirsi, alterarsi

Con altra locuzione si dice anche pegghjàrece velöne = prendersi veleno.

È la fase di incazzatura che precede l’esplosione dell’ira, che si manifesta con una forte sbraitata se non addirittura con un’aggressione manesca.

Ci si può naltaràrece a sentire i comportamenti non politicamente corretti di qualche uomo di Stato. (Ci voleva la U maiuscola per indicare l’uomo responsabile di una carica di Stato, ma non me la sono sentita, ed ho messo la u minuscola….pecchè stéche naltaréte!= perché sono imbufalito).

Scusate il neologismo, ma descrive bene lo stato di incazzatura che pervade molti altri Italiani in questo momento…

Tornando al termine: presumo che derivi da alterarsi, nel senso di cambiare, passare da uno stato di serenità a uno di agitazione, variare di umore.

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N’abbaste a rengrazzjé

N’abbaste a rengrazzjé loc.id = Grazie infinite

È un modo di ringraziare decisamente più intenso dell’abituale “grazzje tànde” = Tante grazie.

Quando il ringraziamento è molto sentito per aver ottenuto un grosso favore, si ricorre alla locuzione del titolo, di solito rivolto in prima persona, sing. e plur.

Significa in effetti: io non finirò mai di ringraziarti, io non ti avrò ringraziato mai abbastanza per quello che hai fatto per me.

Volto al plurale:n’abbastéme a rengrazzjé = Il nostro ringraziamento è indeguato rispetto al beneficio ricevuto. Non basta, non è bastevole, è insufficiente.

In effetti questo modo di ringraziare è sempre spontaneo e cordiale e direi simpatico.

Qualche volta, tra amici, viene detto ironicamente o per sfottò, quando il favore è stato promesso e non mantenuto.

Note di fonologia:

1 – la negazione, per il fatto che il verbo comincia per vocale, non è il solito nen = non, come ad es. in nen parle, ma n’:

2 – la frase usa il verbo un po’ italianizzato abbasté come una specie di riguardo verso l’interlocutore cui si rivolge il ringraziamento.
In manfredoniano si dovrebbe dire avasté. Torno a ribadire l’influsso nel nostro dialetto della lingua spagnola, la quale pronuncia nello stesso modo la ‘b’ e la ‘v’, ossia espirando a labbra strette un po’ di fiato, come se si dovesse spegnere una candelina. Un esempio per tutti. Sp. brazo, braza = dial. vrazze = it. braccio, braccia.

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Nagghjire

Nagghjire o anche Chépe-nagghjire s.m. = Capo frantoiano.

È il numero uno nella gerarchia tra gli operai addetti al frantoio oleario. Gli operai sono detti (clicca→) trappetére = frantoiani.

È lui che sceglie i collaboratori, che contratta la molitura e l’eventuale vendita di olio.

Siccome il ruolo chiede una forte personalità, viene definito scherzosamente chépe-nagghjire anche chi possiede un deciso carisma, un’aura da leader.

Il termine è quasi in disuso, perché nessuno più frequenta i frantoi, dato che questi ultimi, moderni e funzionali, necessitano di poco personale, in grembiule bianco, lindi e puliti come gli infermieri.

Probabilmente deriva da “nocchiero”  che, nel linguaggio della marina militare italiana, indica colui chi dirige i servizi marinareschi di bordo.

Grazie a Enzo Renato per il suggerimento.

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Muzzeché i féfe

Muzzeché i féfe loc.id. = scappellare le fave

Muzzeché i féfe = mordere le fave era una operazione – se vogliamo un po´schifosa – consistente nel levare, appunto con i denti incisivi, il nasello e staccare un po´di buccia dalle fave secche, in modo che durante l´ammollo l´acqua penetrasse meglio tra la fava e il guscio.

L´ammollo e la cottura sterilizzavano qualsiasi impurità

Era un´operazione lunga e noiosa, perciò si praticava di volta in volta per il quantitativo necessario alla minestra del giorno.

Talvolta si cucinavano le fave “scappellate”, con il loro guscio morsicato, o addirittura con il loro corteccia intera, per fare “volume”, e si ottenevano le famose féfe aggraccéte, fave raggrinzite, e i féfe arrustüte, fave arrostite, mangiate come bruscolini nei cinema.

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Mùzzeche

Mùzzeche s.m. = Morso

L’atto dell’affondare i denti per mordere.

Deriva dal verbo morsicare (cambia solo l’accento: muzzeché) addentare, azzannare.

Il verbo muzzeché è un po’ riduttivo. Nella parlata si dice škaffé ‘nu mùzzeche = appioppare un morso,

Per estensione ‘u mùzzeche è anche la puntura della zanzara o di altro insetto, il segno della morsicatura, l’escoriazione provocata da scarpe troppo strette.

Altro significato di mùzzeche: boccone, pezzetto di cibo. Dàmme ‘nu mùzzeche de péne= Dammi un boccone di pane.

Nella mia fantasia di bambino, tuttavia, ‘u mùzzeche per eccellenza è rimasto quello che i pescatori davano al polpo avvinghiato al loro braccio, per spezzargli le fibre e ottenerne il rilascio dalle ventose: škaffè ‘nu mùzzeche addröte ‘ cuzzètte = affibbiare un morso dietro al collo (del polpo).

Non so se questa operazione avveniva realmente: io mi atterrivo solo all’idea di essere afferrato dal polpo e trascinato negli abissi, anche perché i denti anteriori a cinque anni di età mi erano caduti, e quindi non avevo alcuna possibilità di difesa! Fantasie di bimbi…

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Mutresciàrece

Mutresciàrece v.i. = Rigirarsi

Simile a ‘mbruscenàrece.

Rivoltarsi sul pavimento, tipico degli equini.

Per estensione dicesi delle persone insonni che di rigirano a lungo nel letto.

Stanòtte me so’ mutrescéte ‘nd’u ljitte jüna cundinuazzjöne = Questa notte mi sono rivoltato nel letto in continuazione (senza riuscire a prendere sonno).

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Müte Mengüne (fé ‘i)

Müte Mengüne Loc.id. = Chiudersi in deliberato silenzio, fingersi muti.

Figuratamente fé ‘i müte Mengüne significa chiudersi in ostinato mutismo. Non parlare pur avendone le capacità, per indolenza, per introversia, per riservatezza.
Alla lettera: fare come i muti Mengoni.

jìnd’a ‘sta chése assemegghjéme ai müte Mengüne =In questa casa non si parla mai!

Non si sa chi siano stati questi ‘Mengoni’, che forse erano tutti muti, e in quale epoca vanno collocati. Io ho sentito nominare questi muti da mia suocera, classe 1903, che l’avrà sentito da bambina dai suoi genitori, e quindi ci spostiamo al 1880 minimo…

I soggetti taciturni talvolta destano inquietudine negli altri interlocutori i quali, non riuscendo ad interpretare i loro pensieri tenuti nella rigorosamente chiusi dentro la loro zucca, cadono in malintesi. Se si chiariscono si sbotta in : Pe ffòrze! Quà stéme facènne ‘i müte Mengüne!

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