Autore: tonino

Renacce

Renacce s.m. = Rinaccio


Si tratta di un lavoro donnesco consistente in un rammendo invisibile su un tessuto strappato o logorato.

Praticamente si ricostruiva mediante intrecci vari con ago e filo dello stesso colore la parte danneggiata di una camicia, un lenzuolo o di un tessuto qualsiasi.

Il rinaccio richiede molta abilità nell’esecuzione. Per ottenere un risultato apprezzabile occorre molta pazienza e lunga esperienza.

Mia madre, per lavori particolarmente impegnativi, si rivolgeva alla suore della Stella, le quali erano espertissime nell’eseguire – dietro un modesto compenso – i ricami su lenzuola, federe e tourne-lit, il rinaccio e anche il “punto a giorno”.

Il consumismo ha passato nel dimenticatoio questo antica attività domestica. Ora se un indumento mostra tracce di logorio semplicemente viene buttato nell’indifferenziato.

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Sciulé (o sciuvelé)

Sciulé (o sciuvelé) v.i.= scivolare, sdrucciolare

Il verbo sciuvelé, derivato dall’italiano scivolare, per comodità spesso viene pronunciato sciulé, e significa scorrere, slittare agevolmente su una superficie liscia e uniforme.

Si può scivolare sulla fanghiglia, sullo strato di ghiaccio che d’inverno copre le strade di montagna, o su certe alghe che crescono su taluni scogli affioranti e nei pressi di sorgenti di acqua salmastra.

Se si tratta di persone, o di veicoli lo scivolone può causare seri danni e lesioni.
Se si tratta di slitte, pattini da ghiaccio, bob o sci da neve lo scorrimento è ben accetto!
Se si tratta di giochi (acquapark, parco giochi) è addirittura cercato.

Da questo verbo deriva l’aggettivo sciuvelènte o sciulènte, cioè scivoloso, sdrucciolevole, come può essere un sentiero in salita.

Se si tratta di “due” spaghetti sciulente-sciulènte ve li raccomando caldamente, perché sono preparati al momento, quasi a sorpresa, conditi con aglio, olio e peperoncino, o con sugo lento, senza formaggio, a conclusione di una serata invernale in casa fra amici.

E mò, stàteve attìnte angöre scìuléte = Ed ora state attenti a non scivolare!

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Séne-séne (jèsse)

Séne-séne (jèsse) loc.id. =(Essere) totalmente schietto, senza malizia

Alla lettera vuol dire “sano-sano”. Come per dire ci sei cascato tutto intero alle fandonie che ti hanno propinato. Al femminile fa séna-sene.

Insomma chi è “sano-sano” è uno sprovveduto, candido, senza furbizia.

Ma sì pròpje ‘nu séne-séne! = ma sei proprio un ingenuo!
È un bonario rimprovero che si rivolge a qualcuno che per la sua schiettezza viene spesso raggirato da scaltri furbacchioni.

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Screscendàrece

Screscendàrece v.i. = Lievitare oltre misura

Verbo riferito all’impasto del pane che, non infornato al tempo giusto, per effetto dell’azione continua del lievito, cresce oltre misura.
Se si cuoce una pasta screscendéte (aggettivo) il pane, al contrario di quello azzimo, può risultare troppo alto e probabilmente di sapore alterato.

Il verbo deriva dal latino extra-criscitare dal significato intuibile.

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A friške a friške

A friške a friške loc. id. = poco per volta

Acquistare generi alimentari di frequente ma in quantità ridotta, poco per volta, secondo la necessità, allo scopo di consumare sempre un prodotto fresco ed evitare gli sprechi..

Anticamente, in mancanza di frigoriferi, era prassi normale non fare grandi scorte di viveri perché si rischiava che andassero a male (guai!)

Oggi mettiamo tanto di quel cibo in frigo che talora ce ne dimentichiamo!

Mègghje accatté a friške a friške = meglio comprare un poco alla volta

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Avedènze

Avedènze s.f. = Retta, udienza, ascolto, credito

Ber brevità a volte viene pronunciata adènze più aderente al latino audentiam da cui sicuramente deriva.

Infatti nel Sud Italia, con tutte le sua varianti e inflessioni (adenze, arenze, addenza, addenzia) si diffuse la locuzione  audentiam orationi facio, ovvero “gestire l’attenzione degli uditori a un discorso”, dalla quale si pensa derivi nel suo senso principale di attenzione.

Generalmente si usa nella locuzione negativa nen dé avedènze = non dar retta, non dar ascolto.

Nota linguistica.
Voglio evidenziare una particolarità del nostro dialetto: nel coniugare un verbo all’imperativo negativo, si usa una costruzione molto particolare. Cioè si usa la negazione + il verbo al participio passato.

FORMA POSITIVA FORMA NEGATIVO
Parle = parla nen parlanne =non parlare
Mange = mangia nen mangianne = non mangiare
Dà avedènze = dai retta nen danne avedènze = Non dar retta

Insomma quel non parlanne, alla lettera si tradurrebbe «non (essere) parlante» Infatti i Baresi dicono nen si parlanne.

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Affaréte

Affaréte agg. = indaffarato, affaccendato

L’aggettivo deriva direttamente dal francese affairé, ed è usato in gran parte della Daunia.
L’italiano “indaffarato” rende meglio l’idea della persona che ha sempre poco tempo da dedicare agli altri.
Fa tutto di fretta e sembra che le sue attenzioni siano rivolte ad eventi molto più importanti dello scambiare due chiacchiere con gli amici.

Si ritiene unico titolare del ruolo di salvatore del mondo, perché senza di lui tutto andrebbe in malora.

Viene un po’ deriso dai conoscenti che lo individuano senza nemmeno nominarlo:
Sté affaréte ‘na persöne! = Qualcuno è oltremodo affaccendato…



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Appuppacüle

Appuppacüle agg. = insolvente

Va bene anche scritto appuppa-cüle.

L’aggettivo è specifico per descrivere una persona indebitata, di dubbia moralità che spesso non fa fede ai suoi impegni.
Insomma uno che molla spesso una fregatura ai creditori.

Un cattivo soggetto che è bene tenere alla larga.

Vi consiglio di leggere l’articolo che dà origine a questo termine, cioè puppéte o appuppéte cliccando qui.

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Chjatte

Chjatte agg. = piatto

Oggetto che ha la superficie piana, non concava né convessa.
Si definisce piatto anche come contrario di rotondo, come ad esempio certe viti “a testa piatta” ben diverse da quelle “a testa tonda”, che sporgono dal supporto per ottenere effetti estetici o funzionali.

Non parliamo dei «terrapiattisti», per i quali il nostro mondo fisicamente, come corpo celeste, non è un globo terracqueo, ma una strana superficie rotonda e piatta, come una pizza napoletana, con tanto di bordi.

Attenzione:
“piatto”, inteso come sostantivo, è una stoviglia di uso quotidiano per contenere il cibo e si pronuncia pjatte, non chjatte.
Questi piatti si distinguono in pjatte cuppüte e pjatte spése e ossia piatto fondo destinato a contenere la minestra, e il piatto piano usato per accogliere la pietanza.

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Pagghjòsche

 

Pagghjosche s.f. = pagliuzza, nullità, esiguità, inezia,

Si tratta di un materiale di scarto nella lavorazione dei cereali: praticamente lo stelo sminuzzato del frumento eliminato dopo la trebbiatura.

Viene usato nella locuzione pegghjé pagghjosche (prendere pagliuzze), che significa raccogliere o ricavare un bel nulla.

A volte figuratamente il termine è utilizzato per descrivere una persona di scarso valore culturale, economico, morale. Per questo i vicini Cerignolani usano il termine pagghiouse, ossia uomo di paglia, senza valore, uomo da poco, una nullità, inaffidabile.

Apprjisse a códde crestjéne nen ce pöte pegghjé pagghjòsche = Su quella persona non si può fare alcun affidamento.

A volte assume un senso di incertezza, di timore:
Ne nzàcce che pagghjòsche agghja pegghjé…= Non so quale decisione devo prendere. Come faccio a uscire da queste difficoltà?

 

 

Il lettore Silvio Simone Pellico suggerisce: «È un modo di dire che indica chi non ha raccolto nulla /ottenuto nulla / concluso nulla. A pagghiòsche è un materiale di scarso valore , ecco perché viene associato a chi non ha concluso o ottenuto nulla . Si usa dire anche nen dicènne pagghiòsche , cioè non dire fesserie.»

 

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