Jüne jì rógne e l’ate jì tìgne…

Jüne jì rógne e l’ate jì tìgne…

Uno è rogna e l’altro è tigna.
Esiste una variante, ossia che in questa compagnia c’è un terzo sciagurato:
Jüne jì rógne e l’ate jì tìgne, e l’ate töne ‘u méle all’ogne = Uno è rognoso, l’altro è tignoso e l’altro ancora ha il male all’unghia.

L’uno vale l’altro:  sono sempre dei cattivi incontri.

Si cita quando si è di fronte a più problemi da affrontare. Simile al binomio padella-brace. Uno peggio dell’altro.

La rogna è la scabbia, malattia della pelle dovuta ad acari parassiti.
La tigna è dovuta a miceti (funghi parassiti).
L’unghia dolente può avere diverse cause.

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Jüne “stàtte”, e l’ate “nen me möve”

Jüne “stàtte”, e l’ate “nen me möve”

Uno è “stai”, e l’altro è “non mi muovo”

Questo detto è riferito a persone pigre o di scarsa iniziativa.

Se in una situazione di emergenza qlcn ha bisogno dell’aiuto immediato da parte degli astanti, può succedere che questi rimangano immobili, pur rendendosi conto delle difficolta oggettive di costui.

Indifferenza, pigrizia, e abulia bizantinesche.

Grazie a Carmela per il suggerimento

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Jùmene vasce e fèmene chjatte, adda fé tre volte ‘u patte

Con gli uomini di bassa statura e con le donne corpulente devi fare tre volte una contrattazione.

Secondo questo proverbio le persone così descritte sono considerate del tutto inaffidabili. Perciò i termini di qls contrattazione devono essere ben chiari e ribaditi (tre volte…) per non incorrere in inconvenienti. Patti chiari….

Ovviamente sono luoghi comuni.

Mi rifiuto di pensare che gli uomini di bassa statura siano tutti così incostanti, a dispetto anche di quell’altra credenza che li considera córte e male cavéte = corti e malignipieni di malizia. Non parliamo poi di quelli con i capelli rossi…

Tutti preconcetti, dovuti all’ignoranza, verso quelli con una presunta diversità (gobbi, bassi, extra-lunghi, grassi, forestieri, gay, neri, ecc.).

Le donne cicciottelle, peraltro, sono sempre piuttosto spiritose, gioviali e auto-ironiche (segno inequivocabile di intelligenza). Io le preferisco decisamente a certe “mazze di scopa” segaligne, stecchite, senza curve, cupe, piene di paranoie. Viva la ciccia!

Grazie all’amico Enzo Renato, fonte preziosa di molti articoli qui pubblicati.

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Jü pàrle e jü me ‘ndènde

Jü pàrle e jü me ‘ndènde

Io parlo e io mi intendo.

Si pronuncia questa frase sentenziosa quando l’interlocutore non vuole capire, o fa finta di non capire una propria richiesta, e chiede a sua volta: “che dici?, che cosa hai detto?”

La replica è questa: io parlo e io m’intendo. Come per dire: ho formulato (in modo chiaro e inequivocabile) la mia richiesta e tu non fingi di non capire. Hai inteso bene!

Faccio un esempio.
Il creditore avanza la sua giusta richiesta al suo debitore:
Mattöje, arrecùrdete ca pò àmma parlé de coddu fàtte! = Matteo, ricordati che dopo dobbiamo parlare di quel fatto (dei soldi che mi devi dare, ovviamente).
Matteo seraficamente chiede: quàle fàtte? = Di quale fatto dobbiamo parlare noi due? Che ho da spartire con te?
Meh, jü pàrle e jü me ‘ndènde! = Beh, io parlo e tu sai bene di che parlo! (sottinteso: chitemmùrte!   abbrev. ktm!)

Grazie al lettore Enzo Renato che mi ha dato l’imbeccata.

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Jogge jì fèste e la püpe alla fenèste….

Jogge jì fèste e la püpe alla fenèste….

Una canzoncina nonsense per i bimbi che andavano alla “maestra” (clicca qui)

Jògge jì fèste
e la püpe alla fenèstre
‘u sòrge abballe e la jatte cucjüne
cucjüne ‘i maccarüne
e zia mòneche ‘i cappuccjüne.

Oggi è festa, e la bambola sta affacciata alla finestra.
Il topo balla e la gatta cucina.
Cucina i maccheroni, e zia suora dei cappuccini.

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Jìnde ‘a chésa möje pòzze caché accüme a ‘nu vöve

Jìnde ‘a chésa möje pòzze caché accüme a ‘nu vöve

Dentro casa mia posso defecare (abbondantemente, proprio come fa) un bue.

Questo proverbio lo diceva mio nonno, classe 1876, e mi è stato tramandato da mio padre.

Una volta papà decise di chiamare l’imbianchino (‘u bianghjatöre) dopo appena un anno dalla precedente tinteggiatura. La cosa non sarebbe sfuggita ai vicini, che magari non potevano permettersi questo “lusso” della ridipintura dopo pochi mesi.

Allora la risposta fu logica: jìnde ‘a chésa möje pòzze caché accüme ‘nu vöve

È un inno alla “privacy”. Giustamente dentro le mura domestiche, se non faccio cose illecite, posso agire come mi pare e piace. Non è così?

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Jìnd’ all’urte müje, pòzze chjandé püre i cepòlle all’ammèrse!

Jìnd’ all’urte müje, pòzze chjandé püre i cepòlle all’ammèrse!

Traduzione letterale: Dentro l’orto mio posso piantare pure le cipolle all’inverso (cioè con le radici fuori terra e le foglie interrate! A voi che cosa importa?).

Un simpaticissimo Detto contadino. Il soggetto chiaramente non vuole che gli altri si intromettano nei propri affari.

Mio nonno era decisamente più esplicito quando diceva:
Jìnd’ a chésa möje pozze caché accüme ‘nu vöve = dentro casa mia posso cacare come un bove.
Insomma non devo dar conto a nessuno del mio comportamento in casa. Rispettate la mia privacy, ekk!(*)

Nota linguistica:
Molti termini, usati fino a metà del secolo scorso, e aventi la desinenza in -dde (cavàdde, cepòdde, martjidde, iaddüne, ecc.), ritenuti troppo rustici, si sono un po’ “ingentiliti” (cavalle, cepolle, martjille, iallüne, ecc.). Però si dice tuttora iaddenére = pollaio.

Altri termini antichi comprendenti il suono sce o sci (desciüne, scjirne o altri) per lo stesso motivo hanno perso il digramma sc (rappresentato scientificamente con il segno [ʃ] – consonante fricativa postalveolare sorda) e ora si pronunciano: dejüne, jìrne = digiuno, genero.

(*) ekk = forma breve dell’esclamazione: “e che cazzo!”

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Jì tutte vjinde ‘ngüle a mè!

Jì tutte vjinde ‘ngüle a mè! loc.id. = È tutto a mio danno.

Traduzione letterale: È tutto vento in culo a me!

Avevo pensato inizialmente che vjinde ‘ngüle, vento in culo, corrispondesse a “vento in poppa”, nel senso che le cose vanno “a gonfie vele” (espressione italiana tratta dal linguaggio marinaresco). Credo che sia proprio quella l’origine del Detto, però viene pronunciato in modo sarcastico, con un’ antifrasi, per indicare proprio il contrario. Come quando si dice bella rrobbe = bella roba,  per indicare un mascalzone o un oggetto di scarso pregio.

Insomma questa simpatica espressione potrebbe essere una rimostranza verso qualcuno o qualcosa che in qualche modo sta utilizzando le nostre risorse in maniera poco zelante e rispettosa.

Come dire, alla maniera del caro Totò: “…E io pago!”

“Ahó, chjüde ‘sta càzze de talèfunéte, ca jì tutte vjinde ‘ngüle a mè! = Ehi, ti consiglio di abbreviare questa telefonata che stai facendo con il mio cellulare, perché non vorrei che il credito residuo sulla mia scheda SIM venisse azzerato a causa delle tue lunghe e inutili chiacchiere!

Più o meno è così, anche se questa volta non ho fatto una fedele traduzione letterale….

Ringrazio cordialmente il fedele lettore Agamennone per la sua graziosa segnalazione.

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Pe ‘na cöte de mónne nen véche porte-porte

Pe ‘na cöte de mónne nen véche porte-porte 

Manca poco per ridurmi ad elemosinare.

Nu mónne  significa «un mondo», cioè « moltissimo ». Una quota di ‘molto’ non può essere che «pochissimo».

Quindi il significato è: “per poco non sono costretto a elemosinare qualcosa da mangiare, perché sono diventato quasi un mendicante, un accattone, costretto ad andare bussando porta a porta”.

Una variante, semplificata, dice: Pe ‘na màzze nen ce jéme pòrte-pòrte = Siamo talmente indigenti che per una mazza (un bastone usato dagli accattoni per sostenersi) non andiamo porta a porta (per chiedere l’elemosina), altrimenti (ad avercela ‘sta mazza) ci saremmo già andati, trovandoci in una situazione di stenti.

Vi rammento che questa frase veniva ripetuta spesso da Lucio Dalla,  a dimostrazione della sua conoscenza del nostro dialetto, avendo frequentato Manfredonia da bimbo e da adolescente, e bazzicando principalmente tre marpioni locali: Vittorio Tricarico, Antonio Tomaiuolo (Sciurille), Giovanni Salvemini (Nino Jajò), che si esprimevano solo in vernacolo.

Grazie al lettore Enzo Renato per il suggerimento… della mazza.

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Jì pe ‘na màzze pòrte-pòrte

Jì pe ‘na màzze pòrte-pòrte

Andare con un bastone (bussando) porta a porta.
Procedere con una mazza, un bastone, come i mendicanti che bussano  ad ogni porta per chiedere un tozzo di pane

Lo dicevano i nostri nonni, quando vedevano che c’era spreco, e bisognava contenere i consumi, per farci intendere che eravamo quasi alla soglia della povertà.

Questo simpatico Detto veniva ripetuto spesso da quel geniaccio di Lucio Dalla, per dimostrare la sua conoscenza del nostro dialetto, avendo effettivamente vissuto la sua adolescenza nella nostra città.

Quà, pe ‘na mazze, ce ne jéme porte-porte…” = Nel punto in cui ci troviamo, non ci resta che andare con un bastone a chiedere l’elemosina bussando porta a porta.

Esiste una variante, con lo stesso significato, che parla sempre di porta a porta (←clicca)

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