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Jì sembe ‘na canzöne

Jì sèmbe ‘na canzöne loc.id. = invariabilmente, in modo monotono o ripetitivo.

È una cosa immutabile, sempre la stessa, cadenzata, senza sosta. È sempre la solita musica.

Quando si spera invano di trovare un mutamento all’andamento dei fatti, una variazione al tran tran quotidiano, una svolta nella politica, un aggiornamento nel lavoro, si sbotta col dire: ma jì sèmbe ‘na canzöne = Ma è sempre la stessa solfa (due note sol-fa).

A proposito di canzone mi viene in mente Mina che non voleva più caramelle:  «Non cambi mai, non cambi mai, non cambi mai!»

Uffà, jì sèmbe ‘na canzöne! Vuletàmele a tarandèlle. = Uffa, che monotonia! Cambiamo argomento

Similmente si dice anche pigghjàrla a canzöne quando un’azione diventa ripetitiva, monotona, abituale o viene fatta per vizio.
Eh, l’ho pegghjéte a canzöne:  tutt’i matüne sbatte ‘u tappöte före ‘u balecöne! = Eh, costei ogni mattina sbatte il tappeto fuori dal balcone!

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Jì taljànne

Jì taljànne loc.id. = Bighellonare, gironzolare

In Sicilia usano il verbo taliare per dire: guardare, osservare.

Quello che fanno i vagabondi scansafatiche: vanno in giro a guardare, a oziare, a zonzo senza concludere nulla.

Un po’ come dire jì jattjànne, oppure jì caserjànne.

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Jìh!

Jìh! escl. = Ih!

Comando che si rivolge agli animali da soma o da tiro per farli fermare.

Il suono è piuttosto prolungato, e non troppo gridato.

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Jìndre

Jìndre avv. = Dentro

All’interno, nella parte interna di qualcosa.

Trasì jìndr’a chése = entrare dentro la casa.

In dialetto si usa talvolta anche nella forma da jìndre.

Ce töne tutte da jìndre = Si tiene tutto dentro.

Mìttele da jìndre = Mettilo, ponilo, dentro un contenitore, una cassa, una bottiglia, un armadio ecc…

Si usa andche la forma jìnde, abbreviato con ‘nde.

Jìnd’u stepöne = dentro lo stipone.

Jìnde e före = Dentro e fuori

Ma che tjine ‘nde la chépe? = Ma che hai dentro la testa?

bbianghjé ‘u jìnde = Imbiancare l’interno (di una casa).

Ora si usa anche indèrne o ‘ndèrne con termine simil-italiano per dire interno.

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Jìndrechése

Jìndrechése agg. = casereccio, genuino

Alla lettera l’aggettivo significa “dentro casa”

Il prodotto “fatto in casa” è generalmente quello alimentare (salame, pane, orecchiette, sottaceti e sottoli, ecc.), ed è sinonimo di genuinità per la cura prestata nella scelta delle materie prime (carni, farina, ortaggi, olio, ecc.).

Vù assapré stu péne jìndrechése? = Vuoi assaggiare questo pane casereccio (fatto in casa)?

Per estensione jìndrechése può anche essere un commercio senza licenza di ortaggi e frutta di produzione propria (cicorie, fichi, scarole, fichidindia, uova, ricotta, ecc.)

Giuannüne vènne i pemedurjille jìndrechése = Giovannina vende i pomodorini di sua produzione.

Sò saprüte ‘sti scavetatjille! Che sò jìndrechése? No, sò accattéte. = Sono gustosi questi biscotti al finocchietto! Sono fatti in casa? No sono di quelli comperati in negozio.

Ecco, i prodotti accattéte = acquistati, già confezionati da altri – per i quali si usa la locuzione belle e fatte – non possono mai competere con quelli caserecci fatti in casa dalle nostre brave massaie.

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Jìsse

Jìsse pron. = Egli, esso, lui

Usato con riferimento a persona presente o nominata successivamente.

Pronome personale, maschile, 3a persona.

Vüte a jìsse a quant’jì bèlle! = Guarda lui, come si è ben conciato!

Jìsse me decètte ca ci’avèmme a vedì quà = Lui disse a me che avremmo dovuto incontrarci qui.

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Jòcce

Jòcce s.f. = Apoplessia, coccolone

Sospensione brusca delle funzioni cerebrali, caratterizzata da perdita di conoscenza e della motilità volontaria.

Siccome tra i sintomi di tale accidente possono esserci anche la perdita della parola o il blocco del respiro, l’espressione viene usata anche quando una persona cambia improvvisamente d’umore: “L’jì venute ‘na jòcce”. = gli è venuto un coccolone, un colpo apoplettico.

La parola deriva dall’antico “mal di goccia” o “accidente di gocciola” termini che nella scuola medica del ‘600 indicavano l’attacco apoplettico che si riteneva causato da una goccia di un qualche fluido del corpo che cadeva nel cuore.

Quann’agghje vìste ‘a bullètte, m’jì venüte ‘na jòcce. = Quando ho visto la bolletta (l’importo della bolletta da pagare) mi è venuto un accidente.

Verso qlcn che merita un castigo: Te uà venì ‘na jòcce! = Che ti venga un colpo apoplettico!

Ancora più drammatico l’anatema : Te uà venì ‘na jòccia malìgne! Ti deve colpire un coccolone fulminante! [Brrr….non c’è scampo!]

Anche oggi, quando per un’improvvisa arrabbiatura, un’attacco di ira ci fa perdere il controllo rischiando di farci venire un vero accidente, usiamo l’espressione “la goccia che fa traboccare il vaso”.

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Jòcchele

Jòcchele s.f. = Chioccia

La gallina nel periodo in cui cova le uova e/o accudisce i pulcini.
Quando da lontano si intravede una donna attorniata da  molti bambini scherzosamente si dice: Avì, mò vöne a jòcchele pe’ tutt’i pulecjüne = Eccola, ora viene la chioccia con tutti i pulcini.

Qualcuno pronuncia prucjüne = pulcini.

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Jògge

1) Jògge avv.= Oggi, questo stesso giorno; può comprendere anche un tempo più esteso della giornata odierna, per indicare questa nostra epoca, in questi nostri tempi.

Ai tjimbe de jògge = oggidì, oggigiorno.

2) Jògge s.m. = Il pomeriggio. Parte in cui si divide la giornata.

Véche a fatjé ‘a matüne e ‘u jògge = Vado a lavorale la mattina e il pomeriggio.

Per evitare confusioni talora si usa la locuzione döpe mangéte= dopo pranzo.

Jògge tènghe da fatejé ‘a matüne e ‘u döpe mangéte = Oggi ho da lavorare la mattina e il pomeriggio

Qualcuno, sempre per riferirsi al pomeriggio, dice döpe-mangéte o anche döpe-mangéje = dopo il mangiare, dopo pranzo.

 

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Jóngeme tótte

Jóngeme tótte loc.id. = Approfittare a piene mani, a sbafo.

Alla lettera significa “Ungimi tutto” .

Quando qlcn racconta di aver approfittato a piene mani di una situazione favorevole, o a scrocco, conclude con la locuzione “Jóngeme tótte!“.

Che ce stöve allà jìnde! Mo so’ avvecenéte e po’ – uaglió – agghje fatte “jóngeme tótte”!
= Che ben di Dio c’era là dentro! Mi sono avvicinato e poi – ragazzi – mi sono ingozzato senza ritegno.

rogoOrigine del detto: si narra che nel Medio-Evo gli avari, che generalmente praticavano anche l’usura, se scoperti dalle Autorità, venivano processati e inesorabilmente condannati al rogo.
Uno di questi, quando il boia con un recipiente pieno di olio si avvicinò per spennellarlo in modo che bruciasse più facilmente, dapprima ebbe un moto di repulsione, pensando al costo dell’operazione, (ecco, l’avarizia innata spunta anche in punto di morte!), ma poi, resosi conto che avrebbe sofferto di meno, chiese il “preventivo di spesa” di questo provvidenziale trattamento.
Rassicurato che sarebbe stato del tutto gratuito, l’avaro/usuraio esclamò: “Franghe jì? Allöre, si ‘u fatte jì frànche, jóngeme tótte”! = È gratis? Allora se il trattamento è gratuito, ungimi dappertutto (senza risparmio)!

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