Pachjìreche

Pachjìreche agg., sopr. = Chiericuto

Pachjìreche alla lettera significa con la chierica. Costui o era un prete (all’epoca tutti i sacerdoti obbligatoriamente avevano questa tonsura), o uno che, per effetto dell’alopecia,  stava perdendo i capelli.

Tutti sapevano che era una rinomata cantina, affollata dagli intenditori per la buona qualità del vino ivi venduto.

Aveva il banco di mescita per la vendita al minuto del vino sfuso, e alcuni tavolini ove gli avventori affezionati andavano a giocarsi a carte un’abbondante bevuta di vino rosso cerasuolo.

Per apprezzare la qualità del vino, quasi tutti i clienti partivano dalle loro case con in tasca un bel biscotto al finocchietto, ossia (clicca→) ‘nu scavetatjille).

All’inizio ne sgranocchiavano un pezzetto, in modo che la bocca richiedesse un primo bicchiere.  Poi intingevano un altro pezzo nel secondo bicchiere per farlo inzuppare.   Se uno era attento si faceva durare il tarallo fino al quinto bicchiere.

E poi il canto polifonico veniva da sé.

Siccome la cantina era sempre ben affollata, se qualcuno passava lì davanti la sera, sentiva il gran vociare degli avventori avvinazzati.

Era sinonimo di chiasso, strepito. Se in casa c’era un po’ di baccano, il papà per zittire la marmarglia, urlava: e ch’àmme fàtte quà, ‘a candüne de Pachjireche? = E che abbiamo fatto quì, la cantina di Pachjìreche?

Era così ben individuata che c’era questo motto in bocca ai paesani: ” ‘A candüne de Pachjìreche: ‘nu càzze, ‘nu pìppete e ‘nu chitemmùrte!” = La cantina di P.: Un turpiloquio, un peto e una sonora bestemmia..

Tutto un ricco programma per i beoni…

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