Menestré

Menestré v.t. = Scodellare

Dicesi del momento in cui si impiatta la pietanza, o anche riferito al momento in cui si scola la pasta per passarla subito dopo nei piatti a ricevere il condimento.

Comunque menestré significa specificamente togliere il recipiente dal fuoco perché il cibo in esso contenuto ha raggiunto il punto giusto di cottura. La pentola o la padella, può aver cotto la pasta, ma anche le patate, la verdura, la carne, ecc.

Ce uà fé ‘n’ate pöche: e pò ce pöte menestré = Si deve cuocere un altro poco: e poi si può scodellare.

Grazie a Vito per il suggerimento.

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Mènele-atterréte

Mènele-atterréte s.f. = Croccantini di mandorle.

Sono dei dolcetti che si preparano in casa, difficilmente verranno prodotti industrialmente.

Praticamente le mandorle sgusciate e tostate vanno passate nello zuchero caramellato, divise a mucchietti e lasciati raffreddare.

Per poterli gustare occorre avere denti robusti e colesterolo basso.

Atterrati, perché? Non perché sono “aeroplani” che atterrano!!

Presumo che l’aggettivo atterréte sia stato coniato per l’aspetto assunto dai semi di mandorla nello zucchero rappreso, bruno e talvolta opaco, come il terreno agricolo. Quindi mandorle interrate.

Attendo da voi una versione più plausibile della mia, se la conoscete, così la inserisco in questa pagina.

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Mènele 

Mènele s.f. = Mandorla

Il mandorlo (Amygdalus communis) è una pianta originaria della Grecia, introdotta dai Fenici in Sicilia, si è diffusa in tutti i Paesi del Mediterraneo.

Si suddivide in tre sottospecie di interesse frutticolo:

Amygdalus communis sativa, con seme dolce ed endocarpo duro = mènele tòste, usate in pasticceria e nell’industria dolciaria;
Amygdalus communis amara, con seme amaro per la presenza di amigdalina = mènele jamére, velenose, usate prevalentemente per estrarne l’olio usato in cosmesi;
Amygdalus communis fragilis, con seme dolce ed endocarpo fragile, usate abbrustolite come frutta secca da tavola = mènele muddèsche.

Basta, se no mi cresce il livello di colesterolo nel sangue.

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Mméne a Pappagöne

Mméne a Pappagöne loc.id. = Anticamente, in tempi remoti

“In mano a …..” corrisponde alla locuzione “ai tempi di…” o “durante il regno di…”

Pappagöne non un è peronaggio reale, ma uno che – si immagina – sia vissuto addirittura nell’800. A me sembra che sia assonante a papà-nonne, trisavolo, e perciò antico.   Infatti taluni dicono mméne a papà-nonne.

Eh, mò ne’ stéme chjó mméne a Pappagöne = Via, non viviamo più ai tempi in cui Berta filava. Anche questo modo di dire italiano non si riferisce ad un personaggio reale, ma ad un soggetto immaginario, collocato in una indefinita epoca rmota.

Ringrazio Michele Murgo per avermi ricordato questa bellissma locuzione.

Cmq Pappagone era un personaggio televisivo napoletano, esilarante, un po’ tontolone, inventato da Peppino di Filippo negli anni ’60.
Eccue quà, e piriché, il presutto vestito (ecco qua, perché, il presunto investito).

Come sinonimo si usava anche citare “l’anne de Minghe” = L’anno di Domenico. Un anno imprecisato di un passato remoto. Chissà se anche questo Domenico era un personaggio di fantasia o realmente esistito durante la dominazione spagnola del Regno di Napoli (Domenico = Domingo = Mimìnghe = Mìnghe).

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Mené a mmósse

Mené a mmósse loc.id. = Rinfacciare

Quando qlcu si adopera per fare un grosso favore ad un amico fa indubbiamente una cosa lodevole. Ma se poi lo racconta a tutti, e magari allo stesso soggetto beneficiato, fa una cosa riprovevole.

Traduzione della locuzione: lanciare in faccia, rinfacciare, allo scopo di mettersi in evidenza, di prendersi i meriti e il plauso di tutti.

Mariètte jì böne e chére, ma se te fé ‘nu piaciöre te lu möne sèmbe a mmósse. = Marietta è buona e cara, ma se ti fa un piacere immancabilmente te lo rinfaccia.

Nò pe’ menàrle a mmósse, ma jüie l’agghje fàtte döj nòtte au sputéle quanne c’jì opéréte. E l’agghje fatte veramènde pe’ tutte ‘u cöre. = Non per rinfacciarglielo, ma io ho fatto due nottate (al suo capezzale) quando si è operato. E l’ho fatto veramente con tutto il cuore.

Se davvero l’avesse fatto con tutto il cuore, non lo andrebbe a dire in giro…

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Mené ‘u fjirre a Sande Lunarde

Mené ‘u fjirre a Sande Lunarde loc.id. = Ringraziare Dio

Traduzione letterale: Lanciare il ferro a San Leonardo.

Modo di dire incomprensibile, ermetico per i ragazzi di oggi, ma  ha un significato plausibile solo a quelli di una certa età

Bisogna sapere che San Leonardo Noblac (fine del sec. V-inizi del sec. VI) è considerato dalla Chiesa Cattolica il protettore dei carcerati e dei prigionieri di guerra.  Infatti è raffigurato nelle immaginette agiografiche in mezzo a dei penitenti inginocchiati e in catene.

In passato quando qualche detenuto veniva liberato (per indulto, o per condono, o perché riconosciuto innocente, o anche solo per fine pena) o qualche militare tornato da un campo di prigionia, portavano per devozione e ringraziamento un ceppo, o un pezzo di catena all’Abbazia di San Leonardo, in Località Lama Volara, a 10 km da Manfredonia.

L’Abbazia era recintata, e non sempre era aperta a tutti. Allora costoro lanciavano il “ferro” all’interno dello spiazzale, facendolo volare sopra il cancello o il muro di cinta. Ecco il perché di mené = lanciare.

Quindi il detto significa “devi essere grato a qualcuno, perché, nonostante tutto, ora hai superato tutte le tribolazioni che ti avevano afflitto in precedenza.”

Questo qualcuno può essere Dio, un benefattore, un amico, la sorte.

A chi racconta di essere sopravvissuto ad eventi gravi (incidente stradale, terremoto, cataclisma, malattia, naufragio, ecc.) viene raccomandato:
Va mjine ‘u fjirre a Sande Lunarde = Ringrazia il Signore di come ti è andata!

La statua del Santo, da qualche decennio è situata in una nicchia della Chiesa di S.Maria delle Grazie. Il simulacro era ricoperto, almeno così lo ricordo io, con delle catenelle simboleggianti la prigionia trascorsa.

Io ho assistito da bambino (avevo una decina di anni) al gesto di ringraziamento di un devoto che, dall’ingresso della chiesa e fino alla nicchia del Santo, avanzava ginocchioni con una catenella al collo. Davanti alla nicchia posò la sua catena, con pianto e lacrime.

Rimasi molto colpito da questo gesto. Mia madre dopo mi ha spiegato il significato profondo di quell’atto di umiltà.

La ricorrenza di San Leonardo cade il 6 novembre,

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Mené

Mené v.t. = Menare

È uno di quei verbi tuttofare, che nel nostro dialetto si adatta bene a diversi casi.

Infatti può significare, ad esempio:

Lanciare oggetti, buttare, conferire la spazzatura nei cassonetti, spirare di vento, calare la pasta per la cottura, dare la colpa, iniettare farmaci con la siringa, ecc.

L’hanne menéte ‘nu škafföne = Gli hanno mollato un ceffone!

Me so’ menéte şkàtele de serìnghe e ‘u delöre nen me pàsse = Ho iniettato una confezione di fiale e il dolore non mi è passato.

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Mendöne

Mendöne s.m. = Montone. mucchio, cumulo

1) Il maschio adulto della pecora, ariete. È ritenuto caparbio e ostinato: Chépe de mendöne!  = Testone!

2) Mucchio, monticello, cumulo: quantità di cose ammassate, riunite disordinatamente.
Deriva dallo spagnolo muntòn, che significa proprio mucchio, derivato a sua volta dal verbo amontonar, ammucchiare,accumulare.

Sinonimo meno usato: tapparöne.

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Mènde-‘i-ciamaruchèlle

Mènde-‘i-ciamaruchèlle s.f. = Nepitella,  Mentuccia, Mentastro verde

Pianta erbacea aromatica perenne della famiglia delle Labiateae (Calamintha nepeta detta anche Mentha viridis) , con fiori a spiga bianchi o rossi e foglie ovali seghettate.

Per il suo sapore molto intenso, è usata dalle industrie dolciarie nella preparazione di caramelle, sciroppi e molti liquori.

Proprietà terapeutiche: digestive, stimolanti, espettoranti, antispasmodiche.  Per uso esterno, come deodorante e antisettico del cavo orale.

A Manfredonia trova  impiego in gastronomia: è usata quasi unicamente per aromatizzare le chioccioline lessate in acqua e aceto e condite, in una sorta di insalata, con olio e mentuccia.

Perciò il suo nome, che alla lettera significa “menta delle lumachette”, è strettamente legato a ciamaruchèlle = lumachine, giovani chiocciole.
In tempi più recenti si è allargato il ventaglio degli impieghi (con zucchine, o con ortaggi vari).

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Menàrece jìnde

Menàrece jìnde loc.id. = Stuprare

Questo modo di dire locale, alla lettera, significa: precipitarsi all’interno di un’abitazione altrui. Il che non è grave se non per lo spavento che il gesto può arrecare ai suoi abitatori.

‘U züte c’jì menéte jìnd’ alla züte! = Il fidanzato si è introdotto nella casa della fidanzata.

Il vero significato è molto più complesso dell’entrare in casa d’altri senza bussare…

Si tratta di un vero e proprio stupro “concordato” tra il focoso giovanotto e la procace fanciulla per indurre i genitori di costei a dare il consenso forzato al matrimonio “riparatore”. In questo modo si aggiravano tutte le opposizioni dei futuri suoceri (babbo non vuole, mamma nemmeno, come faremo a fare l’amor?…).

Un attimo, lei restava sola perché i suoi erano usciti, apriva l’uscio faceva entrare il suo amato. Si chiudevano all’interno quel tanto che bastava. Quando ritornava la madre, e trovava la porta chiusa, sapendo che la sua figliola era all’interno, faceva la ‘sceneggiata’, urlando e sbraitando. Poi arrivava il padre ed erano minacce, suppliche e trattative.

Alla fine: Meh, japrüte, ca nen ve facjüme njinde = Dai, aprite, che non vi facciamo nulla.

E la faccia e l’onore erano salvi. Così vissero tutti felici e contenti.

Talvolta i poveri ragazzi o per ristrettezza di tempo, o per propria scelta, non riuscivano nemmeno a compiere il fatidico atto sessuale. Il fatto di essere stati sorpresi soli e chiusi all’interno di un’abitazione bastava e avanzava per accusare il giovanotto di aver arrecato disonore alla povera fanciulla…

Altre volte l’azione era incoraggiata dai poverissimi genitori di lei che con questo modo riuscivano a far celebrare il matrimonio alla chetichella, senza alcuna festa, la mattina all’alba, senza abito bianco (indegno di essere indossato dalla ragazza disonorata), e nella sacrestia della Chiesa, con pochissimi invitati e pochissimi pasticcini.

Purtroppo si sono registrati anche casi di stupro vero e proprio. In questo caso il giovanotto aveva una sola alternativa o di finire accoltellato o di accettare il matrimonio. Sposava la poveretta ma la convivenza, basata solo sull’attrazione carnale, era destinata a inaridirsi. E non esisteva il divorzio! Figuratevi la vitaccia di entrambi…

Sembra un romanzo ottocentesco. Vi assicuro che tutto questo accadeva quando io ero ragazzotto, diciamo fino alla fine degli anni ’50. Chiedetelo ai vostri genitori o ai vostri nonni.

Una cosa simile consiste nella fuga dei piccioncini in una casa accogliente, con il pernottamente fuori dalla casa dei genitori di almeno una notte comportava le stesse conseguenze. In questo caso (in siciliano si dice fuitina = scappatina) l’azione dicesi scapparecìnne = fuggirsene, fare la scappatina.

Necöle e Lucjètte ce ne so’ scappéte = Micola e Lucietta hanno fatto una fuga d’amore. Alla lettera: se ne sono scappati (da chi? da coloro che si frapponevano alla loro relazione).

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