Mese: Novembre 2018

Candecatöre

Candecatöre s.m. = Banditore di asta

Nel linguaggio marinaresco era usato per indicare il banditore della vendita all’asta. Successivamente è stato adottato il termine, diciamo più moderno, di astatöre, praticamente simile al termine italiano Astatore.

Il soggetto doveva essere iscritto all’ «Albo degli astatori dei prodotti ortofrutticoli, carnei ed ittici», la cui normativa è compresa nella Legge n. 125 del 25 marzo 1959.  La figura dell’Astatore fu soppressa nel 2012,.

Era un abilissimo professionista, conoscitore della qualità dei prodotti che i pescatori conferivano al mercato ittico per la vendita ai grossisti.

I pesci,  suddivisi in specie (triglie, sparroni, seppie, cicale, polpi, sogliole, sgombri, ecc.) erano posti in “telai” e raramente pesati: generalmente si vendevano a cassette.

I cosiddetti telére =  “telai” erano delle cassette a bordi bassi, una volta di legno, poi di plastica rigida riutilizzabili, ed ora di polistirolo ingombrante e inquinante.

Il lotto dei pesci (ad esempio 20 cassette di cicale) veniva presentato dall’astatore partendo da un prezzo base, sul quale, a voce, i vari grossisti offrivano un rialzo fino all’aggiudicazione, annotato da Carlo Attanasio, un attentissimo Ragioniere presente all’asta, il quale rilasciava una  “bolletta” in due copie che attestava l’avvenuta compravendita. Una serviva all’acquirente per l’uscita del prodotto del mercato, e l’altra al pescatore per l’introito del venduto.

Per l’incasso, che generalmente avveniva  il giorno successivo, dato che il pescatore era in mare al lavoro, c’era un familiare delegato che passava a riscuotere presentando la sua copia della bullètte allo sportello pagatore del “Banco di Napoli”, che era ubicato in un gabbiotto all’interno del mercato stesso, il cui cassiere era  il rag. Celestino Telera.

Ringrazio sia Amilcare Renato, figlio di un Astatore in servizio al mercato dal 1950 al 1960, sia il prof. Matteo Castriotta, figlio di pescatore, per le preziose notizie fornitemi sull’andamento delle operazioni riportate in questo articolo.

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Fìgghje de putténe

Fìgghje de putténe inter. = Figlio di puttana.

Definizione indispettita, improperio lanciato verso qlcu che ha agito male nei confronti del parlante o della comunità.

‘Nu fugghje de putténe ho menéte ‘ndèrre ‘u péle d’a lüce! = Un mascalzone ha atterrato un palo della illuminazione pubblica.

Questa invettiva, pronunciata con durezza, è un’offesa abbastanza grave,  ma in taluni casi ha assunto una connotazione diversa.
Può essere pronunciata scherzosamente, allora la frase quasi affettuosa e ammirativa per la scaltrezza e l’abilità dimostrata dal soggetto cui l’epiteto è diretto.

Infatti  questi figli di madre ignota, vissuti in ambiente degradato, dovevano imparare presto a diventare scaltri, dinamici, e abituarsi a lottare contro la crudezza che la vita presenta giorno per giorno.
Ovviamente erano avvantaggiati rispetto agli altri figli “normali”, perché sapevano affrontare e risolvere qualsiasi difficoltà si fosse presentata ai loro occhi.

Ormai l’epiteto “Figlio di puttana”è comune in tutte le lingue:

Ricordo che fu la prima frase che i Manfredoniani impararono dagli Americani, con cui erano in contatto durante l’occupazione Alleata nell’ultima guerra, fu, in un inglese maccheronico:

Sàreme-a-bbìcce, ossia Son of a bitch = Figlio di una cagna (qui intesa come prostituta, abbreviato in letteratura con sob).

Ovviamente noi monelli non sapevamo il significato della definizione, ma la ripetevamo a sproposito, solo perché aveva un bel suono.

Rammento anche di aver letto il noto labiale di Maradona: Hijo de puta!

Variante: Fìgghje de frechéta ‘ngüle, o fìgghje de zòcchele  (anche nella forma breve  fìdezòcchele).

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